lunedì 14 aprile 2014

Il deputato artigianale

Non possiamo rassegnarci a un mondo in cui il fare è solo l’impresa e la politica è solo il potere.  Il nostro punto debole è la capacità di rappresentazione. Ci potrebbe aiutare uno sguardo attento alla storia dei movimenti sociali e, in particolare, di quello operaio ma anche imparare a fare crostate. Abbiamo un gran bisogno di trovare degli ingredienti nuovi che siano capaci, a modo loro, di comporre il lievito di una società diversa. Giulio Marcon, parlamentare indipendente eletto con Sel, è venuto a trovarci per fare il pane insieme a noi. Lavora anche il legno e sostiene che una dimensione artigianale e creativa aiuta a non separare la teoria dalla pratica, può dunque mettere in discussione l’alienazione di un modo di fare politica (che non è solo dei partiti) dove ci sono quelli che pensano e quelli che fanno le cose
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di Comune
“Del mare e della terra faremo pane, coltiveremo a grano la terra e i pianeti, il pane di ogni bocca, di ogni uomo, ogni giorno arriverà perché andammo a seminarlo e a produrlo non per un uomo ma per tutti, il pane, il pane per tutti i popoli e con esso ciò che ha forma e sapore di pane divideremo: la terra, la bellezza, l’amore, tutto questo ha sapore di pane” (“Ode al pane”, Pablo Neruda)

Al di là di certe patetiche (e insieme tragiche) personalizzazioni, della messianica attesa del leader mandato dalla provvidenza, il rapporto tra ego e politica sarebbe certo tra i più complessi e interessanti da esaminare in profondità. Da una parte l’ambizione o anche l’interesse personale; dall’altra qualcosa di molto vicino alla gestione nell’interesse del bene comune. Sembra un’antinomia insanabile, eppure le cose non sono così semplici. Come non lo sono nella relazione tra rappresentazione e rappresentanza.
Quel che oggi sembra assodato, invece, è che negli attuali cortili “politici” dellasocietà dello spettacolo un certo culto dell’io, l’incapacità di un distacco dal proprio ego nel momento della rappresentanza si nutre quasi esclusivamente di arroganza e ossessiva ricerca di visibilità. Per come lo abbiamo conosciuto, piuttosto da vicino e ben prima del nuovo millennio, Giulio Marcon è stato a lungo la rappresentazione opposta di quel culto. Non sappiamo dire se oggi sia un buon deputato della camera, ne conosciamo però la mitezza, il profilo schivo e i trent’anni di artigianato di un’azione politica non delegata. Per questo, forse, non ci siamo ancora abituati a vedere in rete un sito e una pagina wikipedia con il suo nome. Ci vuole tempo.
E’ venuto a trovarci una mattina di fine marzo, Giulio Marcon. Il suo ragionamento è semplice, lineare, come sempre: le battaglie che ha portato avanti insieme ad altri, prima della candidatura come indipendente con Sel, possono essere anche oggi la bussola di ogni giorno: la critica alle ambiguità degli aiuti umanitari e del terzo settore, il bisogno di scelte e politiche di disarmo, la conversione ecologica, per dirla con le parole dell’amico Alexander Langer. Come promotore della campagna Sbilanciamoci, incarico da cui s’è dimesso una volta eletto, Marcon ha sempre mostrato fiducia nella possibilità di un incontro virtuoso tra il cambiamento che può nascere in alto e quello che emerge e si costruisce in basso. Il dubbio che il movimento dall’alto resti sempre, anche nelle migliori e più radicali delle ipotesi, comunque contrario a quello in basso, cioè alla spinta all’autogestione (come il fatto che gli esiti dell’alleanza alto/basso siano provvisori) è certamente in campo in una discussione del genere. Sia come sia, Giulio Marcon, “accademico e politico italiano”, come vuole wikipedia, o inventore di Lunaria e scout delle utopie del ben fare, come preferiscono ricordarlo altri, non ha cessato di cercare un lievito. E’ il lievito che trasforma la società in quei gruppi e movimenti – non importa se grandi o piccoli, se nuovi o meno, se organizzati in modo leggero o no – che, promuovendo il bene comune,  hanno il coraggio e l’umiltà di sperimentare.
Di questi temi abbiamo ragionato nella conversazione che riportiamo, realizzata mentre facevamo il pane insieme. I movimenti delle mani di Marcon lo hanno tradito subito: non era la prima volta che si sporcava con farina e pasta madre. “Imparare a fare il pane e le crostate in casa, se hai un bambino, è utile e divertente”, ha detto. Quando ha tirato fuori il suo grembiule blu gli abbiamo creduto.
m2Mentre cominci a impastare, ci dici quali sono i primi pensieri che ti suscita la parola pane?
Sono altre parole: semplicità, solidarietà, condivisione. Anche la parola comunicare, però. E, naturalmente, compagno e la sua etimologia, cum-panis. Il pane, in fondo, è un elemento di cultura sociale, economica, antropologica… C’è un libro di Pedrag MatvejevicPane nostro, che racconta molto bene come attraverso i diversi modi di fare il pane si sono costruite le culture nell’area del Mediterraneo. Perché il pane resta prima di tutto un elemento fondamentale della cultura di una comunità. Con la cristianità, poi, è diventato anche un simbolo di essenzialità e di unità.
E nella tua vita il pane come si colloca?
Di certo è molto presente. Da un paio di anni lo faccio in casa. Di solito due volte a settimana e nella maniera più semplice possibile: prendo la farina, aggiungo il lievito di birra e poi sciolgo in un bicchiere di acqua sale grosso e zucchero. Metto dentro tutto quello che ho in casa quel giorno: noci, pinoli, olive, una volta ci ho messo anche un po’ di pomodori e cipolle passati in padella. In passato ho usato la pasta madre. Ormai il pane lo compro raramente. Insieme al pane c’è un’altra passione che è diventata parte della mia quotidianità, la lavorazione del legno. Ho cominciato a fabbricarmi qualche mensola, poi un paio di comodini, una libreria. Sono stati due percorsi paralleli che hanno in comune l’essere parte di una dimensione artigianale. In realtà, nelle esperienze che ho vissuto, associative e politiche, questa dimensione artigianale c’è sempre stata: ho sempre cercato, insieme ad altri, di seguire tutte le fasi di un processo, dall’ideazione all’organizzazione, fino alla gestione del risultato. Un po’ come ha fatto Tom Benetollo, per molti anni presidente dell’Arci, un vero artigiano della politica: nonostante la struttura che aveva a disposizione, curava sempre ogni iniziativa come fa un artigiano, pensava anche alle locandine. Questa dimensione, artigianale e creativa, aiuta a non separare la teoria dalla prassi, è un modo per mettere in discussione l’alienazione del modo di fare politica che è certo presente nei partiti ma che esiste anche in ambiti sociali, dove troppo spesso ci sono quelli che pensano e quelli che fanno le cose.
La dimensione di cui parli ha una sua storia…
Certo, nelle vicende della sinistra e del movimento operaio, fino alla prima guerra mondiale, questo elemento, l’incontro tra la “politica” e il “fare”, era molto forte. Le esperienze del mutualismo, delle prime cooperative, delle camere del lavoro, delle università popolari avevano al centro la politica del fare ed erano importanti quanto la politica tradizionale. Erano due elementi che facevano parte dello stesso universo. Col tempo, la politica del fare si è persa, fino a generare dei mostri come dimostrano alcune vicende della storia del movimento cooperativo, soprattutto negli ultimi trent’anni. L’elemento del business ha prevalso in troppe cooperative. Questo ha provocato una degenerazione patologica di quella separazione, per cui il fare è solo l’impresa e la politica è solo potere.
4Alla politica del fare, ben differente da quella di Letta e Renzi, e alla “politica diffusa”, l’arte di cambiare il mondo di movimenti, associazioni, gruppi di base, hai dedicato nel 2005 “Come fare politica senza entrare in un partito”, uscito con Feltrinelli. Se oggi dovessi aggiornare quel testo da dove inizieresti…
Ci sono almeno quattro grandi differenze da allora.
La prima è emersa nella politica istituzionale: oggi esiste il Movimento 5 Stelle, che ha il consenso di un quarto dell’elettorato italiano e tendenzialmente si rifà a un’idea di antipolitica o di politica diversa da quella tradizionale che, almeno in parte, si richiama alle lotte di comitati e movimenti.
La seconda differenza riguarda proprio i movimenti: nel 2005 eravamo ancora in una fase in cui i movimenti sociali avevano una certa importanza. Oggi la situazione è molto complicata e differente: movimenti che avremmo potuto definire come eredi di Porto Alegre e Genova non ci sono più, anche se esiste una forma molto diffusa e articolata di esperienze che hanno grandi capacità di mobilitazione, è stato il caso del referendum sull’acqua. Certo oggi non c’è la stessa spinta che c’era nei primi anni dopo Genova, quando ho scritto quel libro.
La terza differenza, attiene alla parte più tradizionale di quella che chiamiamo “politica diffusa”, cioè il mondo del cosiddetto terzo settore, che vive un ulteriore avvitamento su posizioni residuali e vecchie rispetto alla gestione dell’esistente.
Il terzo settore come volano della ricerca del business: l’impressione è che, con quello che già chiamano “renzismo” senza sentirsi ridicoli, questa logica possa riprendere a navigare con un bel vento di poppa. 
Penso proprio di sì. Il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti, in una recente riunione della commissione lavoro, ha detto: “Con il mio provvedimento sul lavoro ho un obiettivo: nessuno deve restare senza fare niente. Dunque anche i lavoratori che perdono il lavoro devono, ad esempio, fare del volontariato…”. Insomma, c’è l’idea del volontariato come stampella del welfare e come elemento marginale, ma che, allo stesso tempo, a certi livelli può diventare business o parastato. Così affidi al terzo settore la gestione di parti importanti di servizi sociali, o parastatale nel senso che il terzo settore diventa una prosecuzione, con meno qualità e con meno soldi, di ciò che fa lo Stato e, in ogni caso, è ad esso subalterno. Eppure, c’è stato un momento in cui il terzo settore è stato in grado di fare innovazione sociale, ha inventato servizi, attività, risposte a bisogni che lo Stato non dava. Se pensiamo agli anni Settanta, ci accorgiamo che ci sono una serie di servizi che sono stati inventati da realtà che possiamo definire di terzo settore: la personalizzazione dell’intervento, la de-istuzionalizzazione di alcuni servizi, il lavoro di strada, l’assistenza domiciliare… Esperienze che hanno creato politica, sono nate nella società e hanno costretto lo Stato a riconoscerne il valore e a farle proprie, perché sono diventate importanti.
E oggi?
Negli ultimi anni questa capacità di innovazione sociale si è persa, il terzo settore oggi gestisce solamente, non innova. Inventano di più i mondi del “ribellarsi facendo” raccontati da voi di Comune. Tutte le invenzioni degli ultimi anni nascono fuori dal terzo settore tradizionale, dalla finanza etica al commercio equo per arrivare agli orti urbani o alle ciclofficine. La parte più importante del mondo del terzo settore, dal punto di vista economico e imprenditoriale, l’universo delle cooperative sociali non fa più innovazione… Quante volte oggi nascono cooperative addirittura su spinta dell’ente locale che non può più gestire certi servizi. E ancora: cosa ci fanno le cooperative sociali a gestire servizi di guardiania all’interno delle università? Le critiche che molti hanno fatto tempo fa alla cooperazione sociale non sono state ascoltate. C’è una stupidità del bene, quella fatta dai professionisti del bene che perdono di vista la missione di chi vuole camminare con gli ultimi per cambiare le cose e riduce tutto a una dimensione retorica, professionale, marginale… Lo vediamo anche in tante campagne pubblicitarie di volontariato. Alcune tendenze nel tempo si sono aggravate: penso che il “renzismo” accentuerà tutto questo che, è bene ricordarlo, è nato con Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta, quando entrambi coniugarono il massimo del liberismo aggressivo con il massimo dell’esaltazione delle virtù civiche degli statunitensi e degli inglesi che sanno fare filantropia, “aiutano” gli altri. Pensiamo anche alla formula che usa David Cameron, la big society, l’idea che di fronte ai problemi attuali lo Stato non ce la fa e si appella e si affida alla società per farsi carico dei bisogni delle persone. Naturalmente, è tutto ambiguo, anche io sono favorevole ad affidare alla collettività la gestione di alcuni servizi pubblici, per ridurre il potere dello Stato, ma quando l’autogestione è vera e difende i cittadini e non quando è il pretesto con cui qualcuno fa il suo business. È un bel crinale, perché da una parte c’è la giusta esigenza di favorire l’autogestione dei corpi sociali, dall’altro c’è chi usa questa esigenza perché lo Stato sia ridotto in modo che pensi a tutto il mercato.
Prima hai detto che sono almeno quattro le grandi differenze emerse nella “politica diffusa” negli ultimi dieci anni: il Movimento 5 Stelle, la crisi dei movimenti sociali e quella del terzo settore. L’ultima qual è?
Ha a che fare con le grandi associazioni che hanno avuto in questi anni un ruolo positivo di cerniera, come per esempio l’Arci di Benetollo. Quella cerniera non c’è più e se ne sente la mancanza. Quel ruolo, pensiamo a Genova, al pacifismo, al Kosovo… era stato importante. Non abbiamo più la spinta post Genova dei movimenti sociali, non abbiamo più il ruolo dell’Arci e non abbiamo più grandi mobilitazioni diffuse, come dimostra il fatto che quest’anno, per la prima volta, non c’è stata una mobilitazione vivace e dinamica del movimento studentesco, com’era avvenuto negli ultimi autunni. Lo stesso discorso vale per il sindacato. Insomma, la crisi prolungata da una parte produce i fenomeni non desiderabili noti (il populismo, la crescita delle destre, l’aumento dell’isolamento sociale di migliaia di persone), dall’altra limita la capacità di autorganizzazione in alcuni pezzi di società che dovrebbero rispondere a una crisi che sta devastando tutti. Studenti, movimenti e sindacato sono in difficoltà.
Eppure, dal nostro minuscolo osservatorio, vediamo e proviamo a raccontare un’esplosione poco rumorosa di iniziative che si muovono in basso. Nascono già valorizzando l’autonomia dalle istituzioni, spesso sono in conflitto. Si vede poco ed è tutt’altro che lineare ma un pezzo eterogeneo di società si ribella senza fare cortei o rivendicare qualcosa, passa direttamente all’azione, fa da sé. 
Sì, quello che esiste oggi è un arcipelago diffuso di esperienze molto concrete, che continuano a svilupparsi, a lievitare, a trasformarsi. I centri sociali, gli orti urbani, i Gruppi di acquisto solidale… In realtà, almeno in alcuni paesi europei, quei mondi sono nati da tempo. Personalmente ho avuto la possibilità di viaggiare molto da ragazzo: dopo una prima esperienza nella Fgci (la Federazione Giovanile Comunista Italianandr), la mia esperienza sociale più importante è stata quella con il Servizio Civile Internazionale, con cui sono stato in Germania, Olanda e in altri paesi. Lì ho collaborato con gruppi che già promuovevano orti urbani, comunità, spazi sociali, esperienze che oggi si sono diffuse anche in altri paesi. Tuttavia, dal mio punto di vista, tutto questo mondo, almeno in Italia, deve fare i conti con la scomparsa della capacità di avere visibilità politica, e quindi un impatto generale che superi la dimensione locale. Questo arcipelago fatica a darsi una rappresentazione politica, cosa diversa dalla rappresentatività. Questo movimento, che è difficile definire con un aggettivo, come riesce a condizionare le scelte generali e non solo quelle della quotidianità? Come riesce ad andare oltre il livello locale? Nei prossimi giorni, ad esempio, si discuterà il decreto che renderà ulteriormente precario il mercato del lavoro: come facciamo a fermarli? Neanche il sindacato, che pur avrebbe una forza maggiore rispetto a quella di questi mondi, è in grado di influire su quelle scelte. Ecco, di fronte a questo, ci rendiamo conto della nostra debolezza. Non voglio contrapporre quell’arcipelago alla politica, soprattutto perché a livello locale quell’arcipelago ha dimostrato grandi capacità anche di influenzare certe scelte, il punto sul quale siamo deboli è la capacità di dare rappresentazione.
D’accordo, c’è questa debolezza, ma quell’arcipelago, come hai detto tu, incide nella quotidianità in modo profondo, in fondo non è questo l’obiettivo della politica del fare? Dedicare molte attenzioni alla politica generale in realtà significa sfibrare l’arcipelago… Che ovunque, come ha raccontato, ad esempio, Gustavo Esteva in “L’insurrezione in corso”, è in espansione in molte forme diverse, spesso spontanee.
Questo è un ragionamento condivisibile. Esperienze di diverse dimensioni si dimostrano capaci di influenzare una quotidianità, cioè la vita delle persone. Invece, le grandi costruzioni ideologiche a sinistra hanno sempre dato poca importanza al cambiamento concreto legato alla vita quotidiana.
marcon
Un movimento a cui hai sempre dedicato molte energie è quello per la pace. Il 25 aprile, con l’Arena di Verona, torna un appuntamento importante. Dove va questo movimento?
Anche per il movimento per la pace vale il discorso generale che abbiamo fatto finora: si tratta di un movimento carsico, molecolare, fatto di esperienze diverse che in alcuni casi lievitano quando ci sono rischi di conflitti importanti, come è stato per la guerra in Iraq e prima per il Kosovo. Quello presente in Italia resta un movimento significativo rispetto ad altri paesi, dove viene sempre percepito come qualcosa di vivace e valido, perché in grado di mettere insieme la protesta e la proposta di alternative. La Marcia della pace Perugia-Assisi, invece, ha mostrato negli ultimi anni alcuni limiti, perché molto istituzionale e poco aperta al confronto e alla pluralità delle culture pacifiste. Naturalmente resta molto importante per il nostro paese e vedremo in futuro quale volto assumerà. La vicenda degli F35 è importante perché dimostra le capacità di mobilitazione. L’Arena può effettivamente rappresentare un punto di svolta, soprattutto se sarà molto partecipata, se riuscirà a ricostruire uno spazio comune di dialogo, confronto e anche di iniziativa. Non credo si possa far nascere un coordinamento nazionale di gruppi per la pace, ma possiamo sperare di avere uno spazio, potrebbe essere l’Arena se diventasse un appuntamento annuale. Oppure c’è la Rete Disarmo o la Rete della pace, da poco costituita per mettere insieme le esperienze pacifiste più legate al disarmo, quelle legate all’educazione alla pace, incluso il Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace, e tanti altri gruppi, come il Movimento nonviolento o il Centro studi Sereno Regis. Trovare uno spazio dove queste anime possano incontrarsi e costruire un percorso comune, ognuno con la propria autonomia, resta una cosa importante, soprattutto per mettere in discussione l’idea di difesa che abbiamo conosciuto finora.
La campagna contro gli F35 dimostra che è possibile raggiungere grandi risultati sul piano dell’informazione. Oggi molte persone comuni sanno cosa sono i caccia F35 e, in gran parte, pensano sia una follia acquistarli…
E’ vero, in altre campagne analoghe, in passato, non siamo riusciti a ottenere gli stessi risultati. Per questo anche la battaglia in parlamento oggi ha senso. Ne sono convinto, quella partita non è chiusa: penso che nelle prossime settimane ci potrebbero essere delle novità importanti…
Noi restiamo un po’ scettici, ma ti pare davvero possibile un “ribellarsi facendo” in parlamento?
L’esperienza in parlamento per me è importante e a termine, ma ha un senso solo se resta in connessione con quello che facevo prima. Il mio sforzo resta di tradurre, per quanto possibile, in iniziativa parlamentare quello che prima facevo insieme alla campagna Sbilanciamoci e alle associazioni pacifiste. Per questo, ad esempio, la prima cosa che sono riuscito a fare è stata la mozione sugli F35, una battaglia a cui credo molto. Poi c’è stato il lavoro sui Corpi civili di pace, ora vogliamo mettere in cantiere una legge quadro sugli orti urbani. Sicuramente alcuni compagni di strada di Comune possono darci una mano su questo. Il mio lavoro, come quelli di altri all’interno di un’istituzione, ha senso se fai da sponda, se ti metti a servizio a quello che facevi prima. Quando ancora non avevo deciso di candidarmi ho chiesto il parere a un’amica, Chiara Ingrao, e lei mi ha detto: “Scusa, hai fatto per quattordici anni le contro-finanziarie, ora è giusto tentare di mettersi alla prova…”. Ecco, la mia ribellione in parlamento è quella di cercare di portare temi e proposte che altrimenti sarebbero trascurati dalla politica. Resta un’impresa difficilissima per diverse ragioni, due su tutte: perché il governo non fa che approvare decreti legge sostituendosi al parlamento, e poi perché la collaborazione con il Movimento 5 Stelle su alcuni temi è stata bloccata dai suoi capi. Serve una discreta capacità di resistenza ma io ho fatto un lungo allenamento.

Alla conversazione con Giulio Marcon hanno partecipato: Riccardo Troisi, Gianluca Carmosino e Annarita Sacco. L’incontro non sarebbe stato possibile senza l’accoglienza di Scup.

http://comune-info.net/2014/04/il-deputato-artigianale/

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