Ne avevamo davvero tante di cose da discutere con Massimiliano Smeriglio, il ragazzo della Garbatella che da grande ha lasciato la Camera dei deputati per fare il vicepresidente della Regione Lazio. Così siamo andati a fare il pane con lui al forno popolare di Casetta Rossa, nel quartiere più bello di Roma. Vi raccontiamo una densa e appassionata conversazione su come e dove dar vita ai cambiamenti profondi nella società: la ribellione del fare e la conversione ecologica, il lavoro e il reddito, il superamento di una protesta rivendicativa e subalterna, la violenza e le nuove soggettività, la memoria e l’autonomia dei territori. E poi abbiamo parlato dei partiti e della militanza, della cultura dei movimenti e dell’approccio tecnocratico della sinistra al Comune e del comune, dell’Europa e del mondo. “Dovremmo riscoprire una centralità della parola, del linguaggio. Qualcosa capace di rimettere insieme tutta questa nostra ricchezza, di raccontarla e darle una soggettività che la spinga oltre se stessa”, ha detto Smeriglio. Per una volta, le parole non sono mancate
Cari Compagni, sì, Compagni, perché è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane (…). Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere.
Mario Rigoni Stern
di Comune
È la luce della fine dell’autunno. Di solito, è alla fine dell’autunno che la prima mattina di certi quartieri romani ha quella trasparenza opalina, come a segnalare un tempo trascorso che sembra poter illuminare le ore che verranno. Capita così di camminare in fretta, quasi per caso, nella lunga via in cui s’è venuti al mondo. Alzi lo sguardo e vedi stupefatto l’insegna che ti racconta dove stai andando: pane.
Per arrivare a fare il pane, di là dalla Circonvallazione Ostiense, alla Casetta Rossa della Garbatella, manca ormai molto poco. C’è appena il tempo per i tre sorsi (e relativi desideri) alla Fontana Carlotta, ed ecco, attraversato il parco dedicato aTashunka Witko, il Cavallo Pazzo dei Lakota, il cancello di via Giovan Battista Magnaghi, maestro nella misurazione della velocità delle correnti d’acqua.
Piove che dio la manda, adesso. Il cancello è socchiuso, non si vede nessuno. Si affaccia Badru, sorriso aperto e spazzolone alla mano, e ci fa segno di entrare. È piccola, bella, accogliente, la Casetta. Domina un rosso chiaro ma profondo, come nella storia di questo quartiere. Non sembra una “realtà” importante, come ebbe a scrivere un arido addetto alla tastiera nel 2011, quando la casetta sembrava poter essere oggetto della solita vendetta politica (del Campidoglio).
Una casetta è molto di più di una realtà, è un luogo dei sogni. Quello dell’autogoverno, qui l’hanno capito da tempo, può essere solo il sogno della vita di ogni giorno, altro che utopia. Come in uno splendido diario, il sogno si nutre così della progettazione condivisa dell’area del parco, del forno popolare a legna (il Gas è riservato agli acquisti solidali), e del laboratorio di percussioni per i più piccoli. Non mancano, com’è ovvio in uno “spazio del popolo”, gruppi di persone che mangiano insieme, mentre altre, come ovvio non è, insieme leggono libri. Magari “disturbate” da fantasiose incursioni artistiche. Questa è la casetta di una comunità, e le comunità non sono, si fanno.
Tra i libri offerti a chiunque, sugli scaffali delle pareti interne, molti i testi che hanno segnato o aperto vorticose discussioni nelle società in movimento di questi anni. Ci sono, poi, due romanzi daititoli un po’ avventurosi, entrambi ambientati tra i labirintici vialetti dei lotti disseminati qua intorno. Sono di Massimiliano Smeriglio, che di mestiere non fa esattamente lo scrittore ma da questo quartiere ha avviato una cavalcata che l’ha portato a comporre pagine significative della sinistra romana politica e istituzionale: presidente del Municipio, deputato, assessore provinciale, di nuovo deputato e, infine, adesso, vice-presidente della Regione Lazio.
È con lui che faremo il pane, dipanando una densa, piacevole e a lungo rimandata conversazione. Noi, Comune, quelli che non hanno speso nemmeno mezza riga per le molteplici elezioni tenute a Roma (foss’anche per invitare all’astensione) rischiando così di crepare molte e diverse amicizie ultra-ventennali. Lui, che finora le elezioni le ha vinte sempre, e che, forse anche per questo, più o meno sottovoce, viene accusato dai maligni di usare l’intuito politico fine e selvaggio per gestire ormai solo situazioni di potere.
Quando arriva, con il suo staff, Massimiliano, ci guarda e sorride. Non ci vediamo da un po’. Ha ancora quello sguardo miope, timido, sornione, garbatellaro. Lo stesso che aveva un secolo fa, mentre parlava di un libretto dal titolo avventuroso che allora ci parve straordinario. Si chiamava “Se Henry Ford avesse risposto al telefono”, Magma edizioni, una ricerca su telelavoro e disabilità. È cambiato addirittura il millennio. Potrà sembrare strano dopo dieci anni di vertiginosa ascesa, eppure oggi, come allora, per Smeriglio la politica è militanza ma è soprattutto un’impresa sociale.
Siamo qui per il pane, no? Ci avviciniamo al tavolo, dietro il quale prende posto, in piedi, accanto alla nostra Annarita, che lo aiuterà e lo proteggerà dalle insidie. Accompagnare un’esperienza inedita di manualità con una conversazione affabile ma impegnativa può anche non essere una passeggiata. Occorre concentrarsi, agire con garbo, bisogna sappecce fa’.
- Allora, che devo fa’?
- Bravo Massimiliano, veniamo al sodo: questa è la pasta madre, con un po’ d’acqua. Comincia a scioglierla con le mani. Non sarai mica preoccupato?
- Veramente ‘n po’ d’ansia cell’ho.
- No, per carità! L’ansia non va bene, gliela la trasmetti.
- A chi?
- Alla pasta madre, è sensibile. Ci vuole cura, pensa che io quando vado in vacanza mica l’abbandono. Me la porto, col cane, i bambini e il marito.
La pasta madre è una cosa ma è viva, un ossimoro interessante. A proposito di vita, la tua, e di cose, il pane, che immagini, ricordi o suggestioni ti suscita?
È uno degli alimenti che uso di più, ho una confidenza quotidiana col pane. Dal punto di vista culturale, lo associo molto all’etica. L’immagine più nitida è quella del refettorio delle scuole elementari: lì il pane era il pane di dio, non si poteva sprecare né buttare. Noi ci volevamo pure giocare: per fare i carri armati toglievamo la parte di sopra della rosetta e inserivamo uno stecchino, oppure tiravamo le classiche palline di mollica. La pressione disciplinare, però, era davvero molto forte. Un elemento repressivo negativo, dunque, che, col trascorrere del tempo, ha lasciato il posto a una certa forma di rispetto, il rispetto dovuto a uno dei simboli più forti della vita stessa. Ancora adesso, se vedo uno dei miei tre figli sprecare del pane, e purtroppo capita, lo soffro e lo faccio notare un po’ di più che con gli altri cibi.
Qui alla casetta c’è un forno importante…
Anche troppo, è impegnativo, esagerato. Ne discutiamo amabilmente ma molto spesso con i compagni.
- Ecco, sciolta la pasta madre e aggiunto un po’ di malto d’orzo, che rinforza e serve per la lievitazione, mettiamo un misto di farine. Quando la massa si sarà rafforzata, potremo cominciare a impastare. Diventerà un po’ appiccicoso, soprattutto all’inizio, e potrai ammassare come fanno le belle massaie.
- Allora vado tranquillo. Si fa per dire
Dicevamo del fare il pane. Con gli orti urbani, le palestre popolari e alcune altre cose, è una delle forme classiche dell’autoproduzione, un’espressione di quello che noi di Comune chiamiamo “Ribellarsi facendo”, con evidente assonanza a quel “Camminare domandando” degli zapatisti che è stato piuttosto importante nella tua formazione politica. Tu come la vedi, alla luce del percorso che ti ha portato dal centro sociale la Strada alla Camera dei deputati e poi alla vicepresidenza della Regione Lazio, questa ribellione del fare?
Quelle pratiche sono la cosa più interessante che si è prodotta negli ultimi anni, forse l’unica possibilità di costruire un’alternativa che ha a che fare con la nuda vita, con i comportamenti quotidiani, le trasformazioni che vivono in un tempo lungo. Per stare alla strettissima attualità, vorrei dire che quelle pratiche disertano il tipo di contrapposizione sterile che abbiamo visto ieri sera (18 novembre, ndr) a Roma (un corteo per il diritto alla casa e contro il Tav era stato bloccato dalla polizia in via dei Giubbonari, parte dei manifestanti ha aggredito i militanti e danneggiato le targhe della sede del Pd, ex sezione storica del Pci, ndr): da una parte un governo sordo, incapace di capire le ragioni di una comunità, quella della Val di Susa, dall’altra l’assalto a una sezione storica come quella di via dei Giubbonari, con una signora, forse una compagna, che sta lì a spiegare le ragioni della sua militanza. A me, vedere cose come quelle, fa male. In passato ho fatto i conti diversamente con certe forme di rabbia, rancore, violenza, oggi mi angosciano. Non ci vedo alcuna possibile costruzione di un altrove ma solo un urlo disperato che rimane tutto interno a una certa logica dell’evento, dell’estetica della mobilitazione. Un nostro compagno e amico ha scritto oggi che quando uno vede i torti di una situazione non vuol dire che non ne riconosca le ragioni. Rimango convinto che quella della Val di Susa sia una vicenda straordinaria, con una comunità in lotta nonostante livelli ormai ventennali di repressione e di controllo militare del territorio. Voglio però mantenere la libertà di dire che quello di ieri non è un episodio giustificabile con le ragioni generali della lotta contro il Tav. A subire quella contestazione non c’erano parlamentari, ministri, segretari di partito ma militanti che nel 2013, forse, credono sia ancora possibile cambiare il Pd, cosa che sembra davvero impossibile (e pensare che molti accusano noi di essere utopisti!). A mio modo di vedere, però, anche quella posizione va rispettata.
- Che dici, sto a fa’ ‘n casino col pane?
- No, no, tranquillo vai bene.
Veniamo al 16 novembre, che invece, tradendo il copione cucinato dai media mainstream, non è rimasto prigioniero di quella logica. Si è vista una interessante novità nella relazione, non estetica ma concreta, tra territori distanti e diverse modalità di rappresentare il conflitto muovendosi dal basso. Che ne pensi?
Penso si sia espressa una soggettività interessante, nuova. Ha saputo evitare la logica della militarizzazione dello scontro, questione sulla quale discuto spesso con i compagni e che oggi vedo proprio come una roba che ci riconsegna alla dimensione delle falangi, o almeno del Novecento. Anche per questo credo che se quella soggettività si prendesse sul serio, senza riproporre schemi vecchi, aiuterebbe un po’ tutti. Non ho alcuna difficoltà, poi, a dire che noi di Sel non siamo stati in grado di prevedere e di comprendere prima la portata innovativa del legame tra quei territori e tra situazioni tanto diverse. I rischi però mi paiono ancora presenti.
Forse non si tratta di porre per l’ennesima volta l’accento sulla violenza, quella del capitalismo o quella, reciproca e subalterna, di alcune delle forme che lo avversano, un profilo indispensabile solo allo spettacolo inscenato dai tiggì…
Sì, appunto, a me non preoccupa il teatrino violenza-nonviolenza come clava ideologica. La violenza mi preoccupa per il modo in cui trasforma i linguaggi e i comportamenti dei soggetti che agiscono in quel processo. Guardando indietro, a tante esperienze nostre, mi pare che abbiamo sempre una memoria breve, una Ram che dura pochissimo. Tendiamo a riprodurre sempre i soliti meccanismi. Sarebbe importante disarmare le parole e i corpi.
- Che dici, sta venendo bene?
- Sì, è morbida. Bisogna essere delicati ed energici, e ci siamo. Ora la lasciamo riposare e fra una mezz’oretta la riprendiamo. Se vuoi, puoi sciacquarti le mani…
Torniamo all’autogestione e all’auto-produzione, forme di negazione del modello egemone che possono apparire meno radicali solo se si resta ancorati a una concezione geometrica della lotta antisistemica. Uno degli aspetti più interessanti è proprio il superamento del connotato rivendicativo. Il livello dello scontro è più basso ma non c’è subalternità: non si chiede più allo Stato, alle istituzioni l’affermazione di un diritto. Lo si mette in pratica saltando la mediazione. Non si tratta più di rivendicare o di accumulare potenza per un momento giusto successivo ma di fare le cose in un altro modo subito. Che te ne pare?
Che mi convince molto. Non so se queste siano pratiche più o meno radicali di altre, ma penso anch’io che la fase rivendicativa sia finita. Lo si vede anche nelle organizzazioni più tradizionali. Se pensi a quello che succede in Italia, o in Europa, a quello che non fanno i sindacati… La mancanza di protagonismo non si verifica perché sono cattivi o hanno un gruppo dirigente venduto ai padroni. È che non sono più in grado di muoversi. Nella crisi, senza una fase espansiva, senza la possibilità di investire dall’alto nel welfare, non c’è re-distribuzione. Se non c’è re-distribuzione, le pratiche sindacali tradizionali – quelle nate nel Novecento e basate sul fatto che l’economia consentiva comunque l’accumulazione, e dunque uno spazio almeno potenziale di re-distribuzione, – perdono legittimità. Non esistono più per motivi quasi oggettivi. Se non nella dinamica della concertazione ma quando la politica glielo permette, non perché quelle modalità siano in grado di esprimere conflittualità. Noi con la Regione abbiamo presentato un bando per il mondo della scuola che si chiama FuoriClasse: secondo me è una bella cosa, che investe sull’autonomia dei territori, dei comuni, dei municipi e delle scuole. So però che in alcuni ambiti esiste un certo nervosismo perché non abbiamo concertato il bando. Ecco, a me non sembra opportuno concertare un bando. Il bando deve esprimere quello che pensiamo noi, deve rispondere a quello che ci pare di avvertire, di sentire nella realtà.
A ognuno le sue responsabilità?
Assumersi la responsabilità, per se stessi e le proprie comunità, è per me una questione centrale. Riguarda il co-working, l’autogestione e tutti gli altri elementi di progetto che hanno senso qui e ora. Ognuno di noi può e deve fare la sua parte, in modo consapevole, per mutare gli stili di vita individuali e collettivi. La dimensione rivendicativa tradizionale dice invece che la soluzione dei problemi possiamo chiederla a qualcun altro. Non c’è autonomia, si resta dentro uno schema di subalternità. È uno schema che trenta-quaranta anni fa ha avuto pagine nobili, lo so, ma c’erano le condizioni per fare una specie di gioco delle parti anche dentro conflitti durissimi. Oggi quello schema rischia di abbaiare alla luna e di non costruire una cultura e un linguaggio dell’alternativa. È, in termini molto diversi, un po’ lo stesso limite di cui parlavo per via dei Giubbonari. Rimane da sciogliere, invece, un gigantesco nodo: il rapporto con la politica, con chi assume le decisioni. Per quel che mi riguarda, ben conscio dei limiti che questo comporta, affronto la questione con la militanza in un partito…
Ma sei sicuro che abbia ancora un senso parlare di militanza e di partito?
Beh, Sel è più uno stato d’animo che un’organizzazione politica, una categoria dello spirito…
Dicevo in generale. Se è per questo, quello di Grillo è molto peggio di un partito, ma ora non importa come sia…
Eh no, importa. La cosa cambia, e cambia parecchio…
Allora vediamo: come cambia?
Bisogna chiarire cosa s’intende per partito. Noi chiamiamo partito il Pd, per esempio, e invece quello non è un partito. Mi ha colpito parecchio che nella contestazione di ieri a Roma un ragazzo abbia scritto “Pci bastardi”. A volte, sembra che questo paese sia immobile, fermo dentro una dinamica che non esiste più. Sono i partiti, in realtà, a non esistere più. Quelli che si chiamano partiti oggi sono un’altra cosa e poi ognuno fa storia a sé, non si somigliano neanche. Non c’è alcuna tendenza prevalente che ci consenta di dire: ecco i partiti si sono riorganizzati così. Sfido qualsiasi osservatore a dire cosa sia oggi il Pdl dal punto di vista dell’organizzazione. Quello di Grillo è ancora un’altra cosa e noi di Sel siamo una piccola cosa che allude a un’altra cosa ancora e che, da un punto di vista diciamo comunitario, non esiste. Non scherzavo mica tanto quando parlavo di categoria dello spirito. In alcuni luoghi, come a Roma e nel Lazio, soprattutto in alcuni quartieri, Sel è più radicata e visibile, ma in giro per l’Italia a volte non esiste. A volte è una cosa simpatica, altre volte è orribile. In ogni modo, seppur dentro un’evidente crisi di sovranità, il tema di come incrociare certe questioni col “decisore” politico resta aperto. Questo, alla fine della fiera – pur tra miliardi di difficoltà e de-legittimazioni della sfera politica, che avvengono, attenzione, dall’alto che dal basso – mi porta a ribadire una scelta che rende possibile favorire alcuni processi. È qui che io colloco le cose come il bilancio partecipativo, gli orti urbani, i bandi sulle terre, il co-working e tutto quello che penso possa avere senso nella ricostruzione di processi di alternativa.
La memoria delle prime esperienze di bilancio partecipativo mi fa venire in mente quando, una decina d’anni fa, presentammo insieme, prima all’università poi alla Strada, “Cambiare il mondo senza prendere il potere”. Mentre John Holloway svolgeva il suo discorso sul potere, mi dicesti sottovoce: “Ma allora, secondo lui, il bilancio partecipativo, il nuovo municipio, tutto quello che stiamo facendo e dimostrando qui, a che serve?”. Di tempo ne è passato, ma credo resti quella la regina delle nostre domande: dove avvengono i cambiamenti veri, quelli profondi? Non dal basso ma “in basso”, nelle casette rosse, come pensiamo ancora noi; oppure nella gestione politica della cosa pubblica, nell’esercizio di un potere democratico che, inevitabilmente, si espone ai rischi, non dell’alternanza ma di quella che il nostro amico Raúl Zibechi chiama la “staffetta” tra i governi?
Sì, forse su questo c’è ancora una importante diversità nel modo di vedere le cose. Anch’io penso che i cambiamenti profondi avvengano qui, alla casetta, nei quartieri, ma avvengono se, senza clamore né sventolìo di bandierine, questi processi sono in qualche modo facilitati dai nessi amministrativi. Senza quei nessi, invece, i cambiamenti vivono molte più difficoltà. E questo, francamente, adesso mi pare proprio dimostrato. So bene che tante realtà di base vivono con diffidenza il rapporto con il potere. Anche se poi inneggiano ai governi latinoamericani. Io la vivo come una possibilità, la possibilità di potere, di poter fare, di orientare ciò che è pensato per conservare, la Pubblica Amministrazione, verso il cambiamento. Per dirla come il Pt brasiliano, vivere il governo come soggetto promotore. L’altra questione che, almeno nella mia testa, ora sembra diventata molto più chiara è che il cambiamento non avviene senza quella che Vendola chiama una “narrazione”. Non saprei bene come definirlo ma parlo di un processo culturale in grado di comprendere, mettere insieme, l’interezza delle singole esperienze. Il cambiamento di cui parliamo non avviene con la somma delle lotte dei senza casa più quelli che fanno il pane, più questi o meno quegli altri. Ci vuole un’accumulazione di cultura politica, la cultura di un diverso approccio alle cose. Per questo vedo una differenza sostanziale tra i movimenti con quella cultura, come ad esempio i Sem Terra del Brasile, e quello di lotta per la casa che esiste da noi. Lì hai l’elemento dei bisogni collocato in una sorta di pedagogia della trasformazione generale.
E qui?
Qui, tranne l’esperienza iniziale di Action, che s’è posta il problema di un approccio culturale più complessivo – ma è stata un po’ una parentesi – restiamo di fatto in quella che prima chiamavamo dimensione rivendicativa. Possiamo occupare dieci, cento, mille, diecimila case – beh, diecimila non sarebbe la stessa cosa, non voglio banalizzare – ma non facciamo veri passi avanti nell’approccio generale della trasformazione. Qui la mia critica è radicale. Insomma, il cambiamento profondo, è vero, si verifica in basso, ma deve essere sostenuto da nessi amministrativi. Dovremmo riscoprire, inoltre, una qualche centralità della parola, del linguaggio. Qualcosa capace di rimettere insieme tutta questa nostra ricchezza, di raccontarla e darle una soggettività che la spinga oltre se stessa.
Discutiamo da un po’ di cambiamenti profondi e di un qualche fare sociale e non abbiamo ancora pronunciato la parola “lavoro”. Tempo fa, abbiamo messo su Comune un articolo di Francuccio Gesualdi con un titolo provocatorio: “Smettiamola di preoccuparci del lavoro”. Sai, ha sorpreso perfino noi quanto sia stato letto e commentato. Viviamo in un tempo nel quale, senza eufemismi, molti non lo possono neanche comprare, il pane. Eppure, in una crisi così pesante, c’è una parte di società, e una parte importante dei nostri lettori, che ha il coraggio di pensare alla conversione ecologica, a come re-inventare non uno stile di vita ma la vita stessa…
Mi è capitato di fare l’assessore al lavoro per cinque anni e, in tutto quel periodo, credo di aver utilizzato molto poco la parola “lavoro”. Penso sia perché ho un approccio culturale al tema piuttosto diverso da quello tradizionale. Certo, mi pongo il problema dei cassaintegrati che ogni giorno stanno sotto la Regione: devono fare i conti davvero col problema del pane, ci sono condizioni realmente disperate. D’altra parte, so bene che quella è tutta una sfera di politiche passive che devi fare, quando ci riesci, perché altrimenti la gente non riesce a mangiare, ma poi c’è tutto un altro tema, riguarda sia l’oggi che il domani, che non possiamo affrontare con quegli strumenti là. C’è la questione del reddito, che stiamo provando a far entrare anche nella dimensione regionale. Ho sentito alcune affermazioni in questo senso da parte del ministro Giovannini, ne aveva fatte anche la Fornero, ma in realtà, al di là di un sacco di parole, si è visto poco o niente. Noi stiamo provando a inventare delle cose con la leva della formazione, un tentativo di porre al centro nuovamente il tema del reddito.
E poi che altro?
Mi affascina molto la connessione tra stili di vita e produzione di nuove economie: c’è dentro anche il lavoro ma insieme alla conversione ecologica, ai processi di innovazione tecnologica, le reti infrastrutturali, l’energia. E poi non è detto che il lavoro debba essere un fatto esclusivamente individuale, potrebbe essere collettivo e, appunto, non solo rivendicativo. Magari si recupera il valore della cultura cooperativa, quella sana dimensione del mettersi in gioco, quasi al limite dell’auto-sfruttamento. Ecco, questo sì mi affascina, e su questo investiremo per quel che riguarda il reddito e i processi formativi a sostegno di questo ambito. D’altro canto, per il 2014-2020, l’Unione europea ci dà delle indicazioni assolutamente condivisibili mettendo al centro l’inclusione, la sostenibilità e l’intelligenza. Per una volta che ce lo chiede l’Europa, dunque, andiamo avanti spediti. Mi sto agganciando a quelle parole, che interpreto come un sostegno allaconversione, all’altra economia, all’agricoltura della legge sulle terre ma anche a dei processi culturali, di conoscenza, dei linguaggi, delle parole che possiamo sostenere. Se riesco a dare un senso a quello che faccio, è proprio questo: sostenere con risorse economiche e leggi adeguate questi processi di cambiamento. È in questo senso, dunque, che la parola lavoro sfuma o, meglio, viene compresa in un contesto più ampio. Il lavoro non può non esserci, altrimenti la gente muore di fame, ma dobbiamo provare a dargli un significato diverso.
Con l’elezione alla vicepresidenza della Regione, ti sei dimesso da tutti gli altri incarichi. Eri stato nominato anche responsabile nazionale dell’economia per Sel. Hai potuto seguire un po’ la discussione nazionale e internazionale sul ruolo che deve giocare l’intervento pubblico nella crisi?
In Italia il dibattito mi pare aperto solo tra chi non ha responsabilità dirette. Non ho notato molti interventi degli economisti main stream, di esponenti politici di rilievo…
Beh, Stefano Fassina è un esponente del governo, responsabile economia del Pd…
Fassina è una bravissima persona, lo conosco e lo stimo molto ma, bontà sua, mi pare si muova con uno schema anni Cinquanta. E, probabilmente, lui è il più avanzato. Prova almeno a mettere insieme una lettura politica e la leva governativa, però è costretto in uno schema che, a volte, fa un po’ impressione. Francamente, in un paese impazzito come il nostro, Fassina dimostra come il fatto di essere una persona per bene diventi il massimo a cui si possa aspirare. C’è poi un dibattito europeo, più impegnativo: penso che su grandi questioni infrastrutturali, materiali e immateriali, la dimensione statuale, che per me non può essere nazionale ma europea, debba assolutamente svolgere una funzione. È tale e tanta la mole di risorse finanziarie da mobilitare che non puoi pensare solo alle piccole opere. Non puoi fare il cablaggio dell’Italia in quel modo. La manutenzione, gli interventi contro il dissesto idrogeologico in Sardegna chi li paga? Deve pagarli il pubblico.
Non solo per far fronte a un impegno, ma soprattutto come investimento. Ecco, per me il pubblico è la dimensione europea. Poi, se ci si chiede chi può gestire questo intervento infrastrutturale, potrebbero tornare in campo le piccole opere, i beni comuni, l’auto-organizzazione sociale territoriale. Resto molto affezionato all’idea che abbiamo elaborato insieme alcuni anni fa, quella che vuole il perno dell’azione nelle autonomie locali e, fondamentalmente, nei comuni. Penso che lì ci possa essere davvero innovazione, perché si può garantire l’infrastruttura – altrimenti non lo fa nessuno: l’intervento contro il dissesto, dal punto di vista del mercato, non è remunerativo -, quindi va garantito. La manutenzione ordinaria però non può avvenire dentro i grandi carrozzoni. Voglio dire che c’è pubblico e pubblico: c’è Acea, che a Roma è sostanzialmente pubblico, dal punto di vista formale, e poi c’è il Comune di Corchiano che invece fa la battaglia sull’acqua e avvia il bio-distretto con un sindaco straordinario che ne ha messi insieme altri dieci per fare ottime cose. Sono due concezioni del “pubblico” completamente diverse.
- Ti sei rilassato? Bene, abbiamo fatto rilassare anche il glutine. Comincia ad abbassare la pasta, stendila come per creare un rettangolo
- Ho capito, so che devo fa’…
- Beato te!
- Somiglia ai massaggi, che mi piacciono un sacco. Ho deciso di fare un corso di massaggio ayurvedico…Anche quella è ‘na forma di benessere importante, no?
- Beh, qui si unisce il rilassamento del massaggio al piacere di mangiare il pane buono che hai fatto tu. Se massaggi qualcuno, è sconsigliabile mangiarlo… Sei vegetariano?
- No, ma mangio pochissima carne, in realtà non mi piace.
- Adesso lavora in modo che tutte le pieghe vadano a finire sotto. Bene, perfetto. Se vuoi, puoi tracciare sopra un piccolo segno, di solito si fa una croce ma c’è chi ha fatto la ruota di una bicicletta. Ora c’è solo da aspettare la lievitazione
.
Vuoi dire ancora qualcosa sul nesso tra il Comune, inteso come la gestione politico-amministrativa più vicina alla gente, il tuo cavallo di battaglia già dai tempi della Rete del nuovo municipio, e il discusso concetto di commons, beni comuni o, come preferiamo dire noi, di “fare, mettere in comune”?
Beh, questo nesso è il centro di quello che stiamo provando a fare ormai da parecchi anni. Oggi però devo dire che vedo più difficile l’affermazione di questo tentativo, perché l’approccio tecnocratico alla dimensione del Comune, inteso come Campidoglio, è davvero invasivo. Arriva fin dentro le viscere della sinistra. E allora anche questo tema, un tema che avevamo messo a fuoco qualche anno fa con una certa chiarezza, con qualche speranza, oggi rischia di fare qualche passo indietro con un approccio così pragmatico, “spiccio”, completamente privo di una “visione”. A Roma mi pare che si corra questo rischio: presi dall’emergenza, dai numeri, da tutto quel che ci sta crollando addosso, non difendiamo lo spazio per un pensiero della trasformazione. Una trasformazione fatta di scelte concrete, naturalmente.
Dici che serve una visione. Strano, perché l’invito a essere moderati, realistici, è sempre più pressante. Facciamo un esempio: ti sembra realistico, oggi, parlare di critica all’alienazione o di imprese senza padroni? Oppure, possiamo solo aspirare al diritto al lavoro (un qualsiasi lavoro), e lottare per un’improbabile ripresa, alla ricerca della “piena” occupazione?
Il problema è che mentre trenta-quaranta anni fa potevi discutere con un filone, diciamo “lavorista”, sul piano squisitamente culturale, considerando la tendenza alla piena occupazione come un’opzione possibile, oggi quella roba è falsa. Oggi chi dice che non si può discutere di reddito, o di altre forme di socialità non strettamente lavorative, perché il tema da porre è quello della battaglia per la piena occupazione, lo può dire solo in uno studio televisivo. Perché se lo dice al mercato lo azzannano.
* Alla conversazione hanno partecipato: Marco Calabria, Riccardo Troisi, Gianluca Carmosino e Annarita Sacco. L’incontro non sarebbe stato possibile senza l’accoglienza di Casetta rossa.
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