martedì 5 gennaio 2021

E' morto Franco Loi, la poesia contro il disincanto

 

Era stato operaio allo scalo merci di Milano, contabile alla Stazione centrale, aveva lavorato alla Rinascente, militato nel Pci e nella sinistra extraparlamentare. Scriveva sull’Unità negli anni di Marcello Venturi. Lunghi anni di lavoro nell’editoria, un sodalizio con Vittorio Sereni, che gli fece pubblicare le prime poesie. Del dialetto milanese in cui il poeta Franco Loi – morto oggi a Milano; stava per compiere 91 anni – ha scritto da sempre, Giovanni Raboni ha parlato come di «un luogo di infinite agglomerazioni e di accanita verifica del vero».

Una pronuncia autentica del vivere: una lingua senza veli né menzogne che possa dire – da I cart e Stròlegh degli anni settanta arrivando a L’angel, Amur del temp, Voci d’osteria – l’accucciarsi come cani per i bombardamenti, un padre capito davvero solo dopo morto, i quartieri di una vecchia Milano «cun l’aria sensa temp», l’allegria, la rabbia, la politica e gli errori, i morti che la storia ignora, l’idea di Dio (anzi, «non un’idea, ma un filo di spada che ti passa il cuore»), la fiducia nella poesia. Il fruscio del tempo che passa. E l’amore, di cui si può scrivere anche a tarda età: «Che lüs di öcc nel fâss carna l’amur!», «Che luce negli occhi nel farsi carne l’amore!».

Nel dopoguerra era stato fra gli animatori della Casa della Cultura a Milano, esperienza che ricordava come fondamentale. Il tentativo di svegliare le coscienze: «Andavamo quasi casa per casa, per sollecitare, sensibilizzare, per convincere che l’ignoranza rende deboli e subalterni. Non so se questo sogno sia fallito, ma mi pare che oggi la politica, l’economia e perfino la tecnologia non facciano che accentuare la frattura tra masse e cultura».

La fermezza e la delicatezza. Le convinzioni, le fedi salde; e un dire lieve, gentile. Parlare con Franco Loi era rimanere stupiti da questo: la voce sottile, flautata, e le idee spesse. Il militante comunista che, senza imbarazzo, parlava di Dio («non un’idea, ma un filo di spada che ti passa il cuore»). E sapeva farti alzare gli occhi, guardare in alto: non è un caso che la sua autobiografia abbia per titolo Da bambino il cielo (2010). Fa bene ritrovare le sue parole in una stagione così cupa: «Proprio nei momenti di crisi – mi disse anni fa, in occasione di un’intervista – la cultura diventa ancora più necessaria. Essenziale. Può salvarci solo la passione per il conoscere, il desiderio di capire. Se non so chi sono e dove sono, sarò sempre schiacciato da tutto ciò che di negativo viene da fuori; sarò raggirato, ingannato, costretto a correre dietro a bandiere e speranze ridicole. Senza conoscenza e auto-coscienza si va nel buio, si cede alla grettezza, si rischia di credere che l’economia sia tutto, che siano le sue leggi a salvare o a condannare gli uomini».

Gli domandavo come si potesse resistere al disincanto. Lui stringeva gli occhi, taceva per un po’ – e poi, delicatamente, le sue parole forti: «Restare fermi non ha comunque senso, anche se per pigrizia mentale o fisica può capitare di cedere alla stanchezza e alla sfiducia. In un tempo come questo di scarse certezze non è raro sentirsi impotenti, abbandonati a sé stessi». Che cosa può tirarci fuori dal peggio?  «Niente che venga dall’esterno. Solo le nostre stesse forze. La nostra capacità di prendere coscienza, di non giustificare sempre i mezzi della cattiva politica. Di aiutare anche gli altri a prendere coscienza. Ho fiducia nell’uomo, nel fatto che cento persone migliori sommate ad altre cento e poi ancora cento possono produrre speranza e cambiamento. Speranza e cambiamento sono possibili se sappiamo ciò che vogliamo, se lo difendiamo giorno per giorno assumendoci la responsabilità delle nostre scelte e dei nostri comportamenti».

E uno che scrive come contribuisce? «Facendo ciò che gli spetta, ciò che deve anzitutto come cittadino. Con il suo strumento, che è la parola, può poi indurre negli altri il dubbio, può spingere alla riflessione, può aprire un dialogo, alimentare un bisogno di giustizia e di verità che non è solo suo. Come sapeva Marx, un vero scrittore è un termometro del proprio tempo, e in quanto tale può avvertire prima o più a fondo le storture di un clima. Quando vado in una piazza a parlare di Dante, so che su cento persone solo dieci – quelle che magari si fermano fino alla fine e poi vengono a chiedere, a salutare – potranno comprendere tutto. Le altre però sono lì, ad ascoltare versi al posto della televisione. È già moltissimo, ed è per questo che non mi limito a leggere e a spiegare le terzine ma approfitto di Dante per far riflettere, per spingere le persone a porsi domande. Dalle più semplici – è accettabile che certa gente sia al potere? – fino alle più complesse e grandi, su Dio, su ciò che può farci partecipare al vibrare dell’universo intero, sul mistero dell’essere al mondo».

https://www.repubblica.it/cultura/2021/01/04/news/addio_franco_loi_la_poesia_contro_il_disincanto-281130097/

Dalema71

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