Il massacro dei Conestoga è una di quelle storie che la retorica coloniale preferirebbe lasciare a marcire in qualche archivio polveroso, nascosta dietro l’immagine patinata dei pionieri coraggiosi, dei padri fondatori, della frontiera eroica. È una ferita aperta che rovina la scenografia: una verità che non si lascia domare, che stride e graffia. Perché quel dicembre del 1763 in Pennsylvania non fu un “incidente”, non fu un eccesso improvviso, non fu un errore di valutazione: fu un atto deliberato di violenza programmata, eseguita da uomini che si autoproclamavano difensori della civiltà mentre comportandosi con la delicatezza di un ariete impazzito. Fu la manifestazione purissima della paranoia coloniale, dell’arroganza travestita da missione divina, dell’idea tossica che il mondo dovesse piegarsi al capriccio di chi brandiva la forza e la chiamava ordine.
I Conestoga erano una comunità pacifica, talmente pacifica da sembrare quasi stonata in un’epoca in cui la frontiera ribolliva di tensioni, scontri e vendette incrociate. Vivevano tranquilli, non minacciavano nessuno, non assaltavano fattorie, non facevano imboscate. Eppure proprio questa loro innocenza fu la loro condanna. Perché nell’ottica malata dei Paxton Boys (il gruppo di coloni che si autoproclamò giudice, giuria e boia) la semplice esistenza dei Conestoga rappresentava un problema. Non perché avessero fatto qualcosa, ma perché erano nativi. E tanto bastava. Una semplificazione brutale, primitiva, catastroficamente ignorante: nativi uguale nemici. Nessuna verifica, nessuna prova, nessun contatto effettivo con la realtà. Bastava un pregiudizio e ci si costruiva sopra un massacro.
E così il primo attacco fu rapido, disumanizzante, feroce. I Paxton Boys entrarono nel piccolo villaggio come un branco di cani sciolti affamati di sangue. Uccisero sei persone, senza pietà, senza distinzione d’età, senza un minimo tentativo di giustificare ciò che stavano facendo. Sparavano prima e, ammesso che lo facessero, pensavano dopo. Il governatore provò a fare qualcosa, o almeno a sembrare che stesse facendo qualcosa: mise i Conestoga rimasti sotto custodia protettiva nella workhouse di Lancaster. Una specie di rifugio improvvisato che avrebbe dovuto garantirne la sicurezza. Sembrava un minimo sindacale di responsabilità. Ma era solo la quiete finta prima della seconda tempesta.
Perché i Paxton Boys, lungi dal fermarsi, decisero che nessuna autorità avrebbe impedito loro di completare l’opera. Si sentirono investiti di una missione superiore, un mandato non scritto che autorizzava qualsiasi brutalità. Così irruppero nella workhouse come se stessero entrando in un deposito di oggetti inanimati e non in un luogo dove persone terrorizzate cercavano protezione. Uccisero tutti i Conestoga rimasti. Tutti. Senza un momento di esitazione, senza una scintilla di umanità, senza la minima volontà di comprendere la mostruosità delle loro azioni. L’ultimo respiro della comunità Conestoga si spense lì, in un edificio che avrebbe dovuto proteggerli e che invece divenne la loro camera mortuaria.
La cosa più nauseante fu l’autogiustificazione moralistica con cui i Paxton Boys avvolsero il loro gesto. Si vantavano della loro azione come se avessero reso un servizio alla colonia, come se avessero eliminato una minaccia. Ma quale minaccia? Persone disarmate, che non avevano mai attaccato nessuno, che vivevano pacificamente da generazioni. Il massacro dei Conestoga fu un delitto consapevole travestito da gesto di autodifesa; un linciaggio spacciato per dovere civile; una carneficina che pretendeva addirittura un’aura di necessità. Il paradosso supremo: chi commetteva l’atto barbarico si presentava come custode della civiltà.
E l’aspetto più sconcertante fu la reazione della società coloniale. Certo, ci furono condanne, indignazione, proteste. Benjamin Franklin scrisse una denuncia vibrante, pungente, lucida, smontando pezzo per pezzo le pretese dei Paxton Boys. Ma nonostante tutto questo, nonostante la brutalità evidente, nonostante il carattere palesemente criminale dell’azione, i responsabili non furono mai puniti. Non un processo, non una condanna, non un briciolo di giustizia. Nulla. L’impunità totale. La società coloniale si affrettò a voltare pagina, come se i Conestoga non fossero mai esistiti, come se la loro distruzione fosse stata poco più di un contrattempo.
È qui che si rivela il vero volto della violenza coloniale: non solo l’atto sanguinario in sé, ma l’intero apparato mentale e istituzionale che lo rende possibile, lo giustifica, lo assolve e poi lo rimuove. Il massacro dei Conestoga fu il risultato naturale di un sistema che classificava le vite in categorie: quelle che meritavano protezione e quelle che erano sacrificabili. I Conestoga appartenevano alla seconda categoria. E ciò non perché fossero colpevoli di qualcosa, ma perché il potere del tempo aveva costruito una gerarchia razziale e culturale che li relegava all’irrilevanza. Un popolo intero poteva essere cancellato senza che il mondo si fermasse.
Il pensiero dominante dell’epoca aveva un talento particolare nel trasformare la crudeltà in virtù. I Paxton Boys erano celebrati da alcuni come difensori dei confini, eroi della sicurezza, uomini d’azione che prendevano in mano la situazione quando le autorità erano troppo deboli o troppo lente. La retorica coloniale aveva sempre una scusa pronta, un’autoassoluzione elegante, un mantello ideologico da stendere sopra qualsiasi misfatto. Bastava evocare parole come “difesa”, “ordine”, “stabilità”, e tutto diventava miracolosamente accettabile. Anche l’annientamento di un’intera comunità.
E i Conestoga? Erano vittime doppiamente. La prima volta perché furono massacrati. La seconda perché furono cancellati dalla memoria collettiva. La loro storia non entrò a far parte del pantheon ufficiale degli eventi fondativi. Nessuna commemorazione adeguata, nessun monumento proporzionato all’orrore, nessuna riflessione pubblica all’altezza della tragedia. Erano diventati invisibili, come se il mondo avesse deciso che la loro scomparsa fosse un dettaglio marginale nella grande narrazione della colonizzazione.
L’atteggiamento delle autorità fu un capolavoro di ipocrisia. Si limitavano a esprimere rammarico, a condannare l’accaduto con parole più o meno tiepide, senza mai affrontare il nodo strutturale: la mentalità che aveva reso possibile quella violenza. Perché ammettere questo avrebbe significato riconoscere che il sistema coloniale, nel suo insieme, poggiava su un disprezzo sistematico per la vita dei popoli nativi. Le istituzioni dell’epoca erano bravissime a produrre documenti, proclami, dichiarazioni altisonanti; ma quando si trattava di garantire giustizia effettiva, si dissolvano come nebbia al sole.
Ed è proprio questa incapacità, o rifiuto, di assumere responsabilità che rende il massacro dei Conestoga ancora più incandescente. Non fu solo un episodio di violenza brutale, ma una dimostrazione limpida della disuguaglianza morale che impregnava l’intera struttura coloniale. I Paxton Boys agirono perché sapevano che potevano. Perché erano certi che nessuno li avrebbe fermati, che nessuno avrebbe difeso seriamente i Conestoga, che il loro gesto sarebbe stato letto da alcuni come eccessivo, certo, ma tutto sommato comprensibile. È questo che alimenta la rabbia: l’arroganza di chi si sente autorizzato a decidere chi vive e chi muore.
La vicenda mostra anche la fragilità della retorica della “frontiera come luogo di libertà”. Libertà per chi? Di certo non per i popoli nativi. Per loro la frontiera era un luogo di restrizione, minaccia, precarietà constante. Erano osservati, giudicati, controllati, puniti anche per colpe che non avevano mai commesso. Erano ostaggi di pregiudizi che li precedevano, ostaggi di un sistema che li riduceva a simboli negativi, ostaggi di milizie pronte a farsi giustizia sommaria senza alcun filtro. La loro libertà era un concetto talmente evanescente da risultare quasi una presa in giro.
E allora cosa rimane oggi di quella storia? Rimane la consapevolezza amara che la civiltà di cui i coloni erano tanto fieri sapeva essere spietata, predatoria, disonesta nelle sue autogiustificazioni. Rimane l’eco dolorosa di un popolo sterminato senza processo, senza colpa, senza motivo. Rimane la lezione corrosiva che ogni potere che non si sottopone alla critica e alla responsabilità tende a degenerare nell’abuso, e che l’abuso, quando è mascherato da virtù, diventa ancora più pericoloso.
Il massacro dei Conestoga non è solo un episodio nero della storia americana; è uno specchio frantumato che riflette tutte le distorsioni della mentalità coloniale. È la dimostrazione che il potere, quando si convince di essere nel giusto per definizione, può trasformare la brutalità in dovere, l’ingiustizia in normalità, la violenza in atto fondativo. È un monito contro qualsiasi ideologia che pretenda di classificare la dignità delle vite umane.
La storia non perdona l’oblio: lo aspetta, lo divora, lo sfida. E per quanto si sia cercato di minimizzare, ignorare, seppellire il massacro dei Conestoga, questa vicenda continua a gridare attraverso il tempo. Non si lascia addomesticare, non si lascia smussare. È una spina nel fianco della narrativa trionfalistica, una prova indelebile di quanto possa essere devastante la convinzione cieca di essere dalla parte giusta. Ricordarla non è solo un esercizio storico: è un atto di resistenza morale contro qualsiasi tentazione di ripetere le stesse dinamiche con altri nomi e altre vittime.
Storia & Dintorni

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