sabato 25 febbraio 2023

Gigi Meroni

 


"SE GLI ALTRI VANNO IN GIRO CON I CANI, PERCHÉ IO NON POSSO ANDARE A SPASSO CON UNA GALLINA?"


Luigi “Gigi” Meroni nacque a Como il 24 febbraio del 1943. Nella stessa città iniziò la propria a carriera calcistica nel campetto dell’oratorio di San Bartolomeo dove giocava la Libertas.

Successivamente crebbe nel vivaio del Calcio Como, insieme all’amato fratello Celestino. 

La carriera agonistica nella formazione lariana fu breve.

Nell’estate del 1962, a soli 19 anni, passò al Genoa, dopo 2 brillanti stagioni con la maglia della città natale. 

Gigi faticò a credere a ciò che stava accadendo: giocava nel club più vecchio d’Italia che, in quegli anni, era secondo solo alla Juventus per numero di scudetti vinti. Genova fece emergere il carattere estroverso e controcorrente che si manifesterà nella sua interezza dopo il trasferimento al Torino nel 1964.

Con i granata allenati da Nereo Rocco l’ala numero 7 si fece immediatamente apprezzare per le sue giocate, i suoi dribbling e i suoi goal che, anche se pochi (24), vengono ancora oggi ricordati.

Meroni era un calciatore eccezionale ma, soprattutto, era una persona fuori dall’ordinario

Ascoltava i Beatles e la musica jazz, dipingeva quadri, leggeva libri e scriveva poesie. Conviveva nella mansarda di Piazza Vittorio, a Torino, insieme a Cristiana, la “bella tra le belle” dei Luna Park, della quale si innamorò follemente tanto da presentarsi al matrimonio imposto dai genitori di lei cercando di fermare la cerimonia.

”Mister mezzo miliardo" lo chiamarono i giornalisti quando Agnelli cercò di portare l’ennesimo campione alla Juventus, sborsando una cifra per quei tempi impensabile. Ma una vera e propria rivolta dei tifosi del Toro impedì il trasferimento dell'amato calciatore che giocava con la maglia numero sette.

I giovani si identificavano in Meroni, il loro “calimero”, per via dei capelli lunghi e dei basettoni.

Divenne un esempio da seguire, in campo e nella vita, in quegli anni che precedettero il 1968.

Quando Edmondo Fabbri lo chiamò in nazionale gli impose la di tagliarsi i capelli. Lui che disegnava i vestiti che indossava sui modelli di quelli dei Beatles, che passeggiava per Como portando al guinzaglio una gallina, che si travestiva da giornalista e chiedeva alla gente cosa pensasse di Meroni, non avrebbe potuto rinnegare il suo ego e rifiutò la convocazione.

Purtroppo ogni favola ha un inizio e un epilogo.

La sera del 15 ottobre 1967, dopo l’incontro contro la Sampdoria, vinto dai granata per 4-2, Meroni non poté rientrare in casa poiché non aveva con sé le chiavi. Insieme al compagno Poletti andò al bar Zambon e telefonò a degli amici presso i quali si trovava la sua compagna, riattraversò, sempre con Poletti, corso Re Umberto nei pressi del civico 46.

I due percorsero la prima metà della carreggiata e si fermarono in mezzo alla strada, aspettando il momento giusto per completare l’attraversamento. Vedendo sopraggiungere un’automobile, fecero un passo indietro e furono investiti da una Fiat 124 Coupé proveniente dalla direzione opposta; Poletti fu colpito di striscio, Meroni, investito alla gamba sinistra, fu sbalzato in aria dall’impatto, cadde a terra nell’altra corsia e fu travolto da una Lancia Appia, che lo centrò in pieno e ne trascinò il corpo per 50 metri. Fu portato all’ospedale Mauriziano da un passante.

Vi arrivò con gambe e bacino fratturati e con un grave trauma cranico.

Morì poche ore dopo, alle 22.40.

La Fiat 124 Coupé era guidata da Attilio Romero, un diciannovenne di buona famiglia e grande tifoso del Torino. Dopo l’incidente, il giovane si presentò spontaneamente alla Polizia, che lo interrogò fino a tarda notte. Fu rilasciato e tornò a casa: abitava proprio in corso Re Umberto, a soli 13 numeri civici di distanza dall’abitazione di Meroni.

Più di 20.000 persone parteciparono ai funerali di Meroni e il lutto scosse la città. Dal carcere Le Nuove di Torino alcuni detenuti fecero una colletta per mandare fiori.

La stampa sembrò perdonargli le bizzarrie che gli aveva contestato in vita (capelli lunghi, barba incolta, calze abbassate), ma la Diocesi di Torino si oppose al funerale religioso di un “peccatore pubblico” e criticò aspramente don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino calcio, che lo celebrò comunque.


Fabio Casalini

Facebook 

Nessun commento:

Posta un commento