All'indomani dalla missiva di minacce ricevuta dal pg di PalermoRoberto Scarpinato, il sostituto procuratore, uomo simbolo del processo sulla trattativa Stato-mafia, rilascia un'intervista al Gr1 della Rai.
Nell’intervista, in poche battute, il pm tira le fila: “I singoli episodi di minaccia ai magistrati dei giorni scorsi vanno letti in un unico contesto, hanno un'unica matrice”, spiega. “Attraverso i loro contenuti, la spedizione di lettere anonime anche presso le abitazioni private dei magistrati, attraverso il gesto di posare una lettera anonima sulla scrivania del Procuratore Generale qualcuno evidentemente mira a destabilizzare la serenità necessaria per il nostro lavoro; anche tentando di provocare in noi una sensazione di vulnerabilità, della nostra sicurezza personale e perfino familiare".
Per Scarpinato, la minaccia è giunta all'interno. Qualcuno è riuscito a superare sorveglianza, sbarramenti, porte blindate e raggiungere il suo ufficio, in tutta tranquillità. Con facilità ha dunque depositato la propria missiva, nella quale, con una cura quasi maniacale, ha ripercorso tutte le abitudini del Pg. Si tratta di un messaggio che chiunque comprenderebbe: “ti osserviamo, sempre”.
I titoli sono stati ridondanti: “Scarpinato nel mirino di Cosa Nostra”. Eppure, anche volendo, diventa difficile credere sul serio che un mafioso, sia esso un picciotto o un boss, riesca in tale impresa. Muoversi per la Procura di Palermo senza che nessuno -proprio nessuno- lo fermi, anche solo per domandargli chi sia e cosa voglia. Senza che nessuno lo noti, perché nessuno ha visto o sentito niente. Non è credibile. Lo è, invece, supporre che si sia trattato di un altro soggetto, qualcuno vicino al procuratore, che lo conosce e lo studia costantemente.
Vale la pena, in questo contesto, fare qualche passo indietro, ritornare alla fine degli anni Ottanta: Falcone e Borsellino erano ancora vivi e davano fastidio, non soltanto alla mafia.
Come ha ricordato il collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, chiamato a testimoniare nell'ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia, nel maggio dell'89 alcuni agenti dei servizi segreti, accompagnati da Arnaldo La Barbera, si recarono da lui, in carcere in Inghilterra, per chiedergli un aiuto finalizzato ad allontanare Falcone da Palermo, laddove “stava facendo troppi danni”.
Un mese dopo, il 21 giugno, sulla spiaggia di fronte alla villa del magistrato, all'Addaura, venne rinvenuta una borsa piena di dinamite. Il giudice non ebbe dubbi: si trattava di una strategia messa a punto non tanto da Cosa Nostra, quanto da“menti raffinatissime”, apparati istituzionali deviati.
Qualche mese dopo, Falcone iniziò a ricevere lettere da parte del Corvo.
Un individuo ignoto che lo metteva in guardia: nelle sue missive ripercorreva esattamente tutte le abitudini del giudice. Finché, nel '92 non emerse un episodio clamoroso, in grado di far tremare i palazzi di potere: un incontro, avvenuto tra il febbraio e il marzo dello stesso anno, tra “un esponente Dc, ex sindaco di Palermo”, e Totò Riina. In breve si fece vivo “il Corvo due”, a ricordare a Falcone che, ai tempi di quella “riunione”, Lima era ancora vivo. Si trattava del “prologo della trattativa” e il magistrato, probabilmente, lo intuì. A maggio, il giudice saltò in aria a Capaci.
Il materiale passò al collega Paolo Borsellino, che ricevette il faldone l'8 luglio: subito incontrò Subranni e De Donno, si focalizzò sull'identità del Corvo, probabilmente iniziò a intravedere i contorni di quei patti tra Stato e mafia. Ciò che non doveva scoprire: il 19 luglio venne ammazzato.
E torniamo ai giorni nostri, o quasi.
E torniamo ai giorni nostri, o quasi.
Nell'aprile del 2013, Nino Di Matteo ricevette una missiva, quella degli “amici romani” di Matteo Messina Denaro. Essa conteneva avvertimenti espliciti: “Ditegli di evitare i passaggi stretti”, recitava. Si profilava l'ipotesi di un attentato, ma, stavolta, diverso da quelli del '92. Era un Corvo a parlare, rivolgendosi al pm occupato nel processo sulla trattativa e in quello contro Mori e Obinu, accusati di aver favorito la latitanza di Provenzano, proprio in nome di quegli accordi tra Stato e Cosa Nostra. Nonostante tutto, I due furono assolti.
Ma il Corvo lo sapeva, che sarebbero stati prosciolti dalle accuse. A testimoniarlo, un'altra lettera, questa volta inviata a Massimo Ciancimino, superteste del processo sulla trattativa: “Vedrete che brutta figura farete con il processo Mori Obinu, il presidente Fontana, un giudice serio che riesce ancora a scindere la ragion di stato dalla semplice criminalità organizzata, saprà come demolire tutta la sua già poca credibilità ribaltando l'impianto accusatorio”, si leggeva in essa.
“Il dottor Di Matteo è stato giustamente seguito dai nostri uomini sul posto nei suoi spostamenti sia dal bar all'angolo di casa sia da un negozio di sanitari sito nello stesso stabile fino alla scuola dei figli”, proseguiva la missiva.
“Lo stesso per lei e la sua famiglia, per il giudice Morosini ed anche tutte le passeggiate del pm nisseno Gozzo, il pm del teorema dei Sistemi Criminali."
La lettera era datata maggio, ma fu ricevuta a settembre.
Un anno dopo, eccoci nuovamente a parlare del Corvo, proprio in merito a Scarpinato. Frattanto, l'opinione pubblica è ormai assuefatta dalle continue dichiarazioni di Riina, carpite durante le sue ore di socialità con il capomafia della ScuAlberto Lorusso. Rivelazioni che sembrano talvolta messaggi, talvolta testimonianze estratte con fin troppa astuzia dal boss pugliese, tanto da farlo ritenere un infiltrato dei Servizi o una pedina nell'ambito del cosiddetto Protocollo Farfalla. E, mentre tutti sono impegnati nell'ascoltare le rivelazioni del Capo dei Capi, altri avvertimenti sono stati lanciati a chi si è avvicinato troppo alla verità.
Non solo nei confronti dei magistrati: neanche i giornalisti sono rimasti immuni.
E' il caso di Enrico Bellavia, intimato per ben due volte di smettere di occuparsi della trattativa e di intervistare Franco Di Carlo. “Avevamo raccomandato a lei e al suo amico Di Carlo di non occuparsi del passato, ma così non è stato. Sappiamo che è in progetto altro, meglio che tutto venga interrotto e che Di Carlo non deponga a Caltanissetta”, si legge nell'ultima missiva, del maggio scorso.
La procura nissena è quella che si occupa delle stragi. Inoltre, la lettera fa riferimento ad un'altra minaccia, ricevuta due anni prima dal giornalista di Repubblica, relativa all'intervista in cui il collaboratore di giustizia ricordava l'episodio della visita in carcere.
“È un indizio inquietante”, ha dichiarato Bellavia, “perché dimostra che le testimonianze di Di Carlo sono preziose, utilissime per approfondire le indagini sul coinvolgimento nelle stragi degli apparati deviati dello Stato, che volevano porre fine al lavoro di Falcone e Borsellino.
Probabilmente da questo stesso ambiente, legato a Cosa Nostra ma non appartenente alla mafia militare, sono partite le lettere di minaccia destinate a me”.
Quello che, in sostanza, sostiene anche Di Matteo: nell'intervista dei giorni scorsi, il pm ha infatti ricordato come simili episodi abbiano “riguardato me e altri magistrati che si occupano con me delle inchieste importanti”.
Quelli, ossia, che si sono imbattuti o si siano occupati di indagini concernenti “il tema del rapporto tra i vertici di Cosa nostra e apparati dello Stato”: “Non credo che questi episodi abbiano riguardato proprio questi magistrati rappresenti una mera coincidenza”, ha sottolineato il pm. “Credo che per questo sia ancora più preoccupante l'incrociarsi della saldatura nei nostri confronti di minacce e avvertimenti che apparentemente hanno una provenienza e delle caratteristiche sicuramente diverse: da una parte minacce ed avvertimenti tipicamente mafiosi dall'altra provenienza dichiarata o apparente istituzionale o pseudo istituzionale".
Scarpinato e Di Matteo, in particolare, si stanno concentrando sul passato di Mario Mori, imputato nella trattativa, su cui pesa l'ombra della P2. Indagini scottanti e riservatissime -ma, all'indomani del ritrovamento della missiva, finite su tutti i giornali- che hanno convinto qualcuno a intervenire e mettere in allerta. Soprattutto, tentare di far sentire i magistrati isolati nella loro battaglia, vulnerabili.
Soli.
“Chiunque abbia un minimo di conoscenza e consapevolezza dell'argomento”, ha concluso Di Matteo, “sa quanto in questi casi contino i segnali che si mandano all'esterno e quanto sia pericoloso e dannoso rischiare di diffondere la sensazione di isolamento dei bersagli delle minacce".
http://www.articolotre.com/2014/09/mafia-le-minacce-a-magistrati-collaboratori-e-giornalisti-hanno-ununica-matrice/
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