domenica 14 settembre 2014

E nell' ufficio di Marlowe un giorno entrò Stan Laurel

Per ogni autore un libro è o una favola o un sogno. Un' autobiografia, per esempio, è il ricordo favoleggiato della propria vita. Un romanzo, invece, è un sogno (o un incubo) che si vuole condividere con qualcuno. Triste, solitario y final, di Osvaldo Soriano, è un sogno autobiografico al quadrato: il protagonista si chiama Osvaldo Soriano, è un giornalista argentino spiegazzato dalla propria vera quotidianità, che sogna di vivere un' avventura con i protagonisti di alcune dorate favole per adulti, Philip Marlowe, Stan Laurel e Oliver Hardy, Charlie Chaplin e Elizabeth Taylor e John Wayne, proprio nel paradiso delle favole, Hollywood. Se questa sintesi del bestseller che Repubblica offre questa settimana ai suoi lettori pare un po' complicata da seguire, non c' è da spaventarsi. Il romanzo si spiega benissimo da solo attraverso una scrittura trasparente, la brevità del testo, il divertimento irreale e incalzante delle sequenze, il patto non scritto stretto sin dall' avvio tra autore e lettore: godiamoci un' ora di sospensione dalla realtà insieme con quei personaggi che sin da adolescenti, quando il mondo intorno a noi sembrava insensibile e ostile, ci hanno fatto sognare, ridere, vincere, piangere e sopravvivere. Una storia del genere presuppone un' incancellabile malinconia di fondo, la malinconia dell' autore-clown, ormai non più adolescente, che veste la giubba e, mascherando la propria pena di vivere sotto la faccia infarinata, affronta il mestiere di far ridere gli spettatori paganti (nel caso di un romanzo, poi, il biglietto costa anche poco). Si spiegano così il titolo e lo scambio di battute quasi a conclusione del libro: Marlowe, all' autore: «La storia la fa Chaplin, Soriano. Noi siamo soli e il copione ci è contro». «Sì - disse Soriano - è un copione di merda». Non c' era da ribattere, nel 1973, quando il romanzo fu scritto. Osvaldo Soriano aveva allora 29 anni. Il suo paese era in preda a convulsioni politiche che tre anni più tardi si sarebbero cristallizzate in una dittatura militare assassina. Lui, giornalista di sinistra, lavorava per un quotidiano liberale, che con molta difficoltà, continuava a uscire. Nel 1976, dopo il colpo di Stato che aveva portato la giunta al potere, Soriano venne mandato in Europa per un reportage su un incontro di pugilato. Non tornò più indietro. Triste, solitario y final gli diede di che vivere a Parigi, dove sarebbe rimasto per otto anni, con tutta l' amarezza, la malinconia, la nostalgia e la povertà materiale degli esuli e di coloro che si sentono politicamente sconfitti. Il copione della sua vita era davvero di merda. Non c' è lettore maschio che non abbia sognato, almeno per una stagione, di essere Philip Marlowe, l' investigatore di Raymond Chandler che ne ha viste tante, che nasconde quel che pensa del genere umano sotto la falda abbassata del cappello, che cura i lividi dei pugni che dà e prende con una sigaretta, un gimlet o una tazza di caffè («ma che sia forte e nero, amico!»). Nella Parigi senza soldi degli esuli, nella colonia argentina di sconfitti, con la solitudine nelle ossa come un' umidità di novembre, Soriano visse il sogno di essere Soriano e di vivere, alla grande, una vera avventura a Hollywood insieme con Philip Marlowe. E che avventura! All' inizio lui, Soriano, ha timore a entrare direttamente in scena. Manda avanti due suoi grandi idoli, Marlowe e Stan Laurel. E' Laurel («il magrolino») a introdurre la storia con la più classica delle entrate «gialle»: Laurel spinge piano la porta, «logora, con un vetro smerigliato», e la scritta «Entrate senza bussare», del leggendario ufficio di Marlowe e... Non una parola di più: è molto scorretto, quando si parla di gialli, raccontare «come va a finire». Basti dire, però, che dopo una trentina di pagine il vero protagonista, Soriano, non si trattiene più e, con un coup de théâtre da narratore impaziente, capovolge il racconto e diventa lui, «il grassone», a movimentare il suo sogno hollywoodiano a suon di pestaggi, bambole e sigarette. E così, anche per il lettore la storia diventa affascinante al quadrato: perché ci si identifica sia con il personaggio immaginato Marlowe sia con il personaggio vero Soriano. Chandler, il creatore di Marlowe, era un inglese trapiantato in California. Marlowe è come un non-americano si immagina debba essere uno scapolo americano romantico di mezza età: professione detective, «hard boiled», con il trench di Humphrey Bogart, il Borsalino di Robert Mitchum, la camminata a gambe arcuate di Elliot Gould, alcuni degli attori che hanno interpretato Marlowe sullo schermo. Il Marlowe dello scrittore argentino è proprio così, con le manie di un intellettuale europeo o latino tanto amate dai non-americani: è un intellettuale senza illusioni, gioca a scacchi, la sua prima virtù in un mondo infido è l' amicizia leale e disincantata, come prima delle virtù. Soriano sa, naturalmente, che migliaia di ammiratori di Chandler lo aspettano ad ogni pagina col fucile spianato, pronti a fargli notare che Marlowe non guidava una «jalopy» (carretta), non usava una Luger, non c' erano in circolazione tanti dobloni Brasher, non ci si mettono tre ore in automobile tra Los Angeles e Berdoo (San Bernardino)... e sa, naturalmente, che proprio questo dà all' appassionato lettore la sensazione di saperne su Marlowe quanto e più dell' autore, di poterlo trattare con condiscendenza e affetto come se anche lui fosse «uno di loro» specialisti, ma non altrettanto bravo. Il romanzo ebbe subito un successo clamoroso. Era il primo romanzo di un argentino che con quel libro si aprì la carriera di scrittore e di rappresentante non monumentale (il monumento nazionale era e sarebbe rimasto Borges) della letteratura e della hybris del suo paese. Era la dimostrazione pratica che anche uno sfigato cronista sportivo della Boca, un ex calciatore di serie B, poteva vincere alla roulette del successo lasciandosi andare con impudenza e senza freni alle proprie fantasie adolescenziali, con l' inspiegabile volubilità dei fumetti. Nei ventitré anni che gli restarono da vivere e scrivere, Soriano rimase per i suoi lettori quel «grassone» vero e immaginato che per una sera aveva fornito a tutti gli spettatori paganti il sogno di un' avventura con Philip Marlowe. Nei titoli delle sue opere a venire ci sarebbero state parole come «ombre», «fantasmi», «pazzi», «artisti», «criminali», etichette di ciò che si portava dentro. Fu, per dirla con Marlowe, uno scorcio di vita come «un lungo addio», ironico, solitario, tra sigari e gimlet, fino a un troppo precoce final.
GIANLUIGI MELEGA
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