-G.C.- Sono trascorsi 32 anni, da quel 3 settembre del 1982, quando, in Via Carini, a Palermo, perdeva la vita il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Erano le 21.15, si era in piena guerra di mafia. Il potere dei corleonesi si faceva violentemente spazio nelle strade del capoluogo siciliano, chi si opponeva andava eliminato. Gli anni dei "cadaveri eccellenti": poco prima dell'arrivo, in terra siciliana, del generale, erano morti ammazzati Boris Giuliano, Pio La Torre, Gaetano Costa, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella. Cosa Nostra faceva paura, incuteva terrore e iniziava a intimorire anche lo Stato, quel tanto che bastava per decidere di inviare a Palermo l'uomo simbolo della giustizia, colui che aveva pressoché sconfitto, in Piemonte, il terrorismo rosso.
Era il generale, che però non mancò mai di ripetere l'assoluto abbandono che percepì nei pochi giorni della sua presenza sull'isola: ""Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì", denunciava. Eppure, proseguiva nella sua missione: in poco più di tre mesi, fu in grado di mappare la presenza della mafia nella città e condurre indagini scottanti; forse fu la sua stessa fama a costargli la condanna a morte, la sua incorruttibilità e la sua onestà, perseguita a scapito dei rischi e del pericolo.
Venne ammazzato mentre usciva dalla prefettura,, per recarsi a cena con la moglie, Emanuela Setti Carraro, che lo attendeva a bordo di un'A112 bianca. Poco lontano, un'Alfetta, guidata dall'agente della scorta Domenico Russo. Improvvisamente, però, l'inferno: una motocicletta affiancò quest'ultima vettura e Pino Greco, sicario di Cosa Nostra, freddò il poliziotto. Intanto, a bordo di una Bmw 518, Antonio Madonia e Calogero Genchi finivano il generale che, come ultimo gesto eroico, si parò tra i killer e la moglie, tentando di farne scudo, inutilmente, e lasciandosi trivellare dai colpi. Moriva così "la speranza dei palermitani onesti".
Oggi si sa chi furono i mandanti della strage di via Carini. A richiedere la mattanza furono Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. A eseguirla, invece, Vincenzo Galatolo, Giuseppe Lucchese e Antonino Madonia. Eppure, restano ancora tanti misteri attorno all'eccidio, ombre incombenti, che lasciano presumere una volontà di Stato.
D'altronde è difficile non intravedere la mano nera dei mandanti occulti, dietro quanto avvenne quella sera. Dalla Chiesa era stato in grado di configurarsi come il nemico per eccellenza delle Brigate Rosse, in anni in cui i poteri criminali avevano trovato modo di intersecarsi e complementarsi, all'insegna di un disegno perverso di corruzione e sangue. E a queste si collegavano anche le sue indagini sul delitto diAldo Moro: il generale aveva, poco prima di morire, recuperato un memoriale del democristiano e, presumibilmente, era riuscito, attraverso quelle pagine, a ricostruire qualcosa di inedito, a scoprire "troppo". Tale memoriale sarebbe poi stato consegnato ad Andreotti, l'uomo che Dalla Chiesa stesso aveva definito alla guida "della "famiglia politica più inquinata". Era stato poi lo stesso politico a spingere affinché il generale si recasse nel capoluogo siciliano, ma, una volta lì, avrebbe fatto pressioni sul suo operato. Scriveva Dalla Chiesa: "Ieri anche l'on. Andreotti mi ha chiesto di andare (da lui, ndr) e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori". "Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno", proseguiva, "lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione e circostanze." Particolare non irrilevante: nel '79, poco prima di essere ammazzato, il giornalista Mino Pecorelli si era recato dal generale per ricevere informazioni sul Memoriale di Moro, consegnandogli documenti riguardanti il Divo.
Tra coloro che, per primi, sostennero la presenza di apparati statali nell'ambito dell'attentato, ci fu Giovanni Falcone. Secondo il giudice ammazzato dieci anni dopo a Capaci, Dalla Chiesa era risultato l'obiettivo da eliminare nell'ambito di una stretta collaborazione tra politica corrotta, servizi segreti deviati e Cosa Nostra. Una "holding criminale" in grado di ammazzare e far sparire le prove, tanto più che, appena dopo il suo omicidio, qualcuno trafugò la valigetta marrone del generale, che si trovava nell'auto in cui venne ucciso: un anonimo raccontò che, all'interno, vi erano documenti riservatissimi, contenenti nomi "scottanti" emersi in alcune indagini che il generale stava conducendo autonomamente. Lo stesso anonimo raccontò che la valigetta era stata trafugata da un ufficiale dei carabinieri.
Impossibile non intravedere un parallelismo tra quest'episodio e la sparizione dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino, rubata dalla scena di via D'Amelio nel '92. Con una differenza sostanziale: il taccuino del giudice risulta tutt'oggi scomparso, mentre la valigetta di Dalla Chiesa è stata, alla fine, ritrovata. Nascosta nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo, ma inesorabilmente vuota. I documenti spariti nel nulla, così come quelli che il generale conservava all'interno della cassaforte nascosta nella propria abitazione.
Una storia già vista, appunto. Una in cui i poteri dello Stato criminale si fronteggiano contro lo Stato dei giusti e nascondono per decenni la verità. Confondendo le acque, rendendole torbide, e permettendo ai colpevoli di scivolare nell'oblio, protetti dal tempo trascorso. Una storia d'Italia, una delle tante, in cui a perdere la vita sono i giusti, coloro che credono in un paese migliore. Fatto di verità e memoria. Quella che non può mancare, anche e soprattutto in rispetto al loro sacrificio.
http://www.articolotre.com/2014/09/dalla-chiesa-spedito-a-palermo-per-morire/
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