La rivolta degli spazzini
La rivolta dei migranti contro le autorità saudite è finita ieri, con il ritorno al lavoro dei netturbini, quasi tutti stranieri, nella capitale Riyadh e a Gedda, e dopo due morti, 68 feriti, oltre 100 autoveicoli dati alle fiamme e centinaia di arresti. La settimana di «caccia all’immigrato» che le autorità saudite avevano lanciato il 4 novembre, allo scadere della proroga di sette mesi concessa ai lavoratori stranieri irregolari per lasciare il Paese, ha avuto il momento più drammatico sabato scorso con gli scontri violenti esplosi a Manfouah, quartiere di Riyadh dove vivono migliaia di etiopi, somali ed eritrei in condizioni durissime, in dieci in due stanze, in topaie che i proprietari si ostinano a chiamare appartamenti. A un certo punto è scoppiata una rissa, tra sauditi e immigrati, scatenata, pare, dal lancio di pietre degli stranieri arroccati nelle stradine del quartiere, decisi a resistere all’arresto. Negli scontri, un cittadino saudita e un etiope sono rimasti uccisi. Ma il governo di Addis Abeba accusa la polizia saudita di aver sparato senza motivo mentre le unità speciali penetravano nel quartiere per portare via gli immigrati con la forza.
E’ stata una sommossa, che per poco non è finita in strage, contro un Paese che dopo avere sfruttato il lavoro dei stranieri – milioni di persone alle quali sono destinate le briciole degli immensi proventi del petrolio – ora ne rispedisce una buona parte a casa.
I netturbini erano in sciopero perché la «società di collocamento» che li aveva portati in Arabia saudita non li ha mai regolarizzati, la stessa condizione di altre migliaia di lavoratori. Molti degli «irregolari» di fede islamica invece avevano usato il pellegrinaggio ai luoghi santi della Mecca e Medina per entrare in Arabia Saudita e rimanerci in cerca di un lavoro. Per anni è andata avanti così, con le autorità che fingevano di non vedere questa massa enorme di diseredati pronti a lavorare per pochi dollari al giorno. Stava bene a tutti, soprattutto agli imprenditori. Poi è arrivata la stretta, improvvisa e dura, ufficialmente per ragioni di sicurezza e per «alleviare» la disoccupazione tra i sauditi (al 12,5 per cento che tocca principalmente i giovani). La monarchia ora invoca la «saudizzazione» per nascondere il problema delle enormi spese che il Paese deve sostenere per portare avanti la sua politica contro Siria e l’Iran e per contenere i fermenti sociali che potrebbero tramutarsi in una nuova rivolta araba. Lo slogan perciò è il «lavoro ai sauditi». Eppure le autorità sanno bene che ben pochi disoccupati sauditi si abbasseranno a fare i lavori umili svolti per anni dai clandestini. Così negli ultimi sette giorni la polizia ha effettuato ispezioni ovunque, senza sosta, facendo terra bruciata intorno agli «irregolari». Centinaia di migranti ieri erano in fila per costituirsi al centro per il rimpatrio di Riyadh e per evitare le pesanti sanzioni previste dalla campagna anti-clandestini. Intere famiglie sono state caricate sui pullman verso un centro di detenzione prima di essere espulsi dal Paese. Circa un milione di stranieri – dalle Filippine, India, Pakistan e Yemen – hanno già lasciato l’Arabia saudita approfittando della proroga offerta sette mesi fa.
La maggioranza dei giornali si è schierata con la linea del pugno di ferro scelta dal governo. Ha applaudito all’intervento della Guardia nazionale in appoggio alle forze speciali della polizia. Ha avallato ispezioni e blitz contro il «pericolo alla sicurezza causato dai clandestini». Non la pensano così gli imprenditori abituati a sfruttare i manovali a basso costo, per accumulare fortune immense. Le ispezioni infatti hanno causato l’arresto dei lavori del 50% delle società di costruzione, 100 mila secondo il quotidiano Arab News. Molti negozianti hanno preferito chiudere non potendo registrare i loro commessi clandestini. In varie zone del Paese non è stato fatto e distribuito il pane per mancanza di lavoratori. Alcuni servizi pubblici sono bloccati e non si sa quando potranno riprendere. Un caos che secondo il governo rappresenta il prezzo da pagare per «il futuro dei giovani sauditi».
Fonte: il manifesto
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