lunedì 11 marzo 2024

EPR

 


Nel 1935 Einstein, Podolsky e Rosen formularono il loro celebre paradosso EPR, dove descrivevano una situazione in cui due particelle si influenzavano istantaneamente a distanza, violando così il principio di località. Suggerivano dunque che la meccanica quantistica fosse una teoria incompleta e che ci fosse qualche altra variabile nascosta da ricercare. 

Fu Erwin Schrödinger, studiando questo particolare stato EPR, a introdurre il concetto di stato entangled in una lettera rivolta a Einstein. Qui utilizzò il termine tedesco “verschränkung”, che venne poi tradotto in inglese come entanglement (e che in italiano può essere tradotto con il termine intrecciato): 


“La funzione d’onda totale dopo l’interazione e la separazione spaziale dei due sistemi non permette di descrivere questi due come singoli, ma devono considerarsi ancora come un sistema unico. I due sistemi si possono ritenere separati e indipendenti solo dopo che è intervenuto un atto di misura, cioè solo dopo che c’è stato un collasso della funzione d’onda che distrugge l’entanglement.”


Dopo diverse modifiche, ad opera soprattutto di David Bohm, e dopo diversi abbandoni, il paradosso EPR-B ebbe un’importante evoluzione nel 1964 quando John Stewart Bell scrisse l’articolo “Sul paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen”. Quello che tentava di fare era scoprire se la non località fosse una caratteristica specifica del modello di Bohm oppure di tutte le teorie a variabili nascoste che puntassero alla riproduzione dei risultati della meccanica quantistica.


Il succo del lavoro di Bell può essere riassunto nella seguente maniera: una teoria locale (cioè dove le azioni a distanza non sono istantanee) delle variabili nascoste è incompatibile con le previsioni statistiche della meccanica quantistica, mentre risultano compatibili con esse teorie non-locali. Queste relazioni sono governate da quello che è chiamato Teorema di Bell e dalle sue disuguaglianze. Ma il più grande merito di Bell fu quello di aver indicato la via di come verificare a livello sperimentale l’ipotesi EPR. 

Prima di lui, infatti, quello che rimaneva del dibattito tra Bohr ed Einstein era circoscritto a un battibecco poco più che accademico e molti condividevano l’opinione di Pauli che troviamo in una lettera rivolta a Born nel 1954:


“Non ci si dovrebbe arrovellare più sul problema se qualcosa, di cui non si può sapere nulla, esista o meno, come per nell’antica questione di quanti angeli siano in grado di sedersi sulla punta di un ago.”


Entriamo leggermente più nel dettaglio. Nell’articolo Bell, partendo dalla versione EPR proposta da Bohm, introduce dei parametri supplementari (variabile nascosta) che indica con λ (è del tutto indifferente se denota una singola variabile, un insieme di variabili o un insieme di funzioni) e definisce una distribuzione di probabilità p(λ) per un insieme di coppie emessa dalla sorgente (si veda descrizione dell’esperimento mentale EPR-B). Inoltre, effettuando delle misure, i risultati per una data coppia sono date da funzioni A(λ,a) e B(λ,b) (dove a e b indicano le direzioni in cui sono posizionati gli strumenti di misura) che insieme alla p(λ) definiscono completamente la teoria. Se si va a calcolare i coefficienti di correlazione lungo diverse direzioni a,a’,b,b’ si ottiene che sono sempre compresi tra i valori ± 2 (disuguaglianza di Bell).


Ma il lampo di genio di Bell è quello di proporre di cambiare l’orientamento relativo tra i due rilevatori e di dimostrare che esiste una certa dipendenza dall’angolo che si forma tra di questi, ottenendo così che per certi valori la meccanica quantistica predice coefficienti di correlazioni che sono al di fuori dell’intervallo indicato dalla disuguaglianza di Bell.


Allora la questione, ridotta ai suoi minimi termini, è la seguente: se la disuguaglianza di Bell fosse valida la tesi di Einstein, secondo cui la meccanica quantistica era una teoria incompleta, sarebbe risultata corretta.

Ma se fosse violata avrebbe avuto ragione Bohr. Secondo Kumar (nel libro “Quantum. Einstein, Bohr and the great debate about the nature of reality”) il lavoro non ebbe inizialmente la giusta risonanza per un motivo curioso. La rivista più famosa in quegli anni era già Physics Review Letters pubblicata dall’American Physical Society (APS) ma questa, una volta accettato di pubblicare un articolo, faceva pagare una certa quota. Bell, nel 1964, aveva preso un anno sabatico ed era ospite alla Standford University e non voleva abusare dell’ospitalità chiedendo la quota che l’APS richiedeva. Decise quindi di virare sulla scelta più economica e pubblicò il suo lavoro sulla meno letta Physics.


L’articolo di Bell fu qualcosa di completamente inaspettato e in un certo senso di incredibile. Il fisico David Mermin racconta che in una occasione chiese a un illustre fisico di Princeton come avrebbe reagito, a parer suo, Einstein al teorema di Bell.


Rispose che Einstein sarebbe andato a casa e avrebbe riflettuto a lungo, forse per diverse settimane e che sarebbe stato sicuramente interessato ma molto infastidito. Aggiunse poi:

“Chiunque non sia infastidito dal teorema di Bell deve essere o uno sciocco o un pazzo.”


In foto John Bell, in piedi, con Martinus Veltman al CERN.

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