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Far coincidere la fine della smobilitazione con il ventesimo anniversario dell’11 settembre equivale ad ammettere che la sconfitta dei talebani del 2001 e l’eliminazione di Osama Bin Laden non sono servite a nulla mentre i 20 anni di guerra, la più lunga mai combattuta dall’America, si sono rivelati uno scialo di vite e risorse.
E mentre i talebani preparano il colpo finale Pechino e Mosca sono pronte a ringraziare.
I simboli a volte contano più dei fatti. Le devastanti immagini dell’addio americano a Saigon dell’aprile 1975 rappresentano ancora oggi l’icona della più grande sconfitta statunitense. Un’icona assai più persuasiva delle teorie secondo cui la potenza a stelle e strisce si ritirò senza perdere una sola battaglia ed infliggendo perdite devastanti al nemico. La forza di quelle immagini è tutt’altro che illusoria.
Il filmato dell’ultimo diplomatico pronto alla fuga dopo aver ammainato la bandiera dal tetto della rappresentanza statunitense e gli elicotteri decollati trascinandosi dietro grappoli di vietnamiti sono solo l’antefatto di quanto successo subito dopo. Ovvero la conquista del paese per mano vietcong, l’unificazione con il nord comunista e l’internamento in campi di concentramento di tutti i collaboratori filo-americani.
Tre fatti seguiti, a livello geo-politico, da un ridimensionamento dell’influenza statunitense e da un sostanziale abbandono delle politiche d’intervento durato fino all’ottobre 1983 quando l’invasione dell’isola di Grenada segnò il ritorno dell’America sulla scena internazionale. Con questi precedenti far coincidere l’addio all’Afghanistan con le ricorrenze del prossimo 11 settembre non sembra una grande trovata. Il primo a saperlo dovrebbe essere un Presidente Joe Biden che nel 1975 ricopriva già la carica di senatore. Per capirlo bastano alcune analogie.
La prima è quella tra le presunte vittorie del Vietnam e i principali successi dell’Afghanistan ovvero la caduta del regime talebano nel 2001 e l’uccisione di Osama Bin Laden. Due successi destinati a venir cancellati dalla decisione di far coincidere l’abbandono dell’Afghanistan con il ventesimo anniversario della strage delle Torri Gemelle. Concludendo il ritiro in quel funesto anniversario gli americani finiranno con l’ammettere che né la sconfitta inflitta ai talebani nel 2001, né l’uccisione di Bin Laden sono servite a granché.
Al di là del simbolismo i fatti inducono alla stessa riflessione. Il rapporto del Direttore dell’Intelligence Nazionale (l’autorità che coordina tutti i servizi segreti statunitensi) dello scorso 9 aprile parla chiaro.
“Constatiamo - scrive il rapporto - che le prospettive di un accordo di pace rimarranno assai basse per il prossimo anno. I talebani probabilmente avanzeranno sul terreno mentre il governo afghano avrà difficoltà a contenerne l’avanzata se la coalizione ritirerà il suo appoggio.”
Dopo il ritiro, insomma, la capitolazione di Kabul sarà praticamente garantita. Il tutto dopo una guerra lunga venti anni (la più lunga mai combattuta da Washington) in cui americani ed alleati non sono riusciti a garantire né la stabilità, né una parvenza di democrazia. Stando ad un indagine condotta tra il novembre e il febbraio scorso dall’agenzia afghana Pajhwok Afghan News, oggi i talebani controllano il 52 per cento del territorio mentre il 59 per cento della popolazione si concentra nelle zone governative. Ma in molte delle cosiddette aree governative il potere è nelle mani di signori locali su cui il governo di Kabul esercita un autorità solo nominale. Senza l’aiuto economico e militare degli americani il governo del presidente Ashraf Ghani rischia insomma di dissolversi nel giro di pochi mesi. Esattamente quanto successe in Vietnam tra il 1973 e l’aprile 1975 quando, ritiratisi gli americani, le forze di Saigon subirono un rovescio dopo l’altro.
A rendere ancor più precarie le sorti del governo Ghani s’aggiunge la mancanza di qualsiasi intesa con i talebani per la formazione di un esecutivo di unità nazionale. Un tema su cui i talebani non hanno nessuna intenzione d’impegnarsi come confermato dalla cancellazione dei colloqui con la controparte governativa previsti per la seconda metà d’aprile in Turchia. Consapevoli che l’uscita di scena di americani ed alleati regalerà loro una facile vittoria gli insorti islamisti hanno tutto l’interesse a dribblare impegni vincolanti.
Ma i primi a regalar loro questa opportunità sono stati gli americani. Trump pur di raggiungere un’intesa sul ritiro in tempi brevi decise di negoziare solo con i talebani escludendo gli alleati di Kabul. Un atteggiamento confermato da Biden che si è ben guardato dal coinvolgere il presidente Ashraf Ghani. In virtù di queste scelte l’Afghanistan sembra condannato a far nuovamente i conti con non solo con i talebani, ma anche con i terroristi di Al Qaida e Stato Islamico già attivi in varie zone del paese. Ma lasciare Kabul non significherà soltanto abbandonare il paese ai talebani e al terrorismo jihadista. Analogamente a quanto successo in Vietnam l’addio a Kabul regalerà nuovi spazi alle potenze considerate nemiche dall’America di Biden.
La Cina sarà la prima a cantar vittoria. Grazie ad un alleanza strategica con il Pakistan, resa ancor più vincolante da ingenti crediti economici, Pechino potrà contare sull’assistenza dell’intelligence di Islamabad, grande regista occulto delle attività talebane, per trasformare l’Afghanistan in uno dei principali corridoi della Nuova Via della Seta. Un corridoio che le garantirà le forniture di petrolio provenienti dal vicino Iran e lo sfruttamento di quei giacimenti di metalli e terre rare, individuati fin dagli anni 70, su cui né i sovietici, né gli americani hanno mai potuto metter mano. Ma la vittoria sarà ancor più evidente sul fronte strategico. Controllando l’Afghanistan Pechino completerà l’accerchiamento continentale di un India stretta alleata di Washington. Un colpo non da poco in vista di un possibile scontro nel Pacifico con l’America. Ma gli accordi con talebani e pakistani finiranno con il rendere molto complessa anche l’attività del cosiddetto “Movimento Islamico del Turkestan Orientale”, il braccio armato degli islamisti uighuri che usa l’Afghanistan come retroguardia in vista di una possibile insurrezione della provincia musulmana dello Xinjiang.
Senza contare la maggior libertà di manovra garantita ad una Russia interessata a stabilizzare un territorio per incanalarvi le proprie risorse energetiche e arginare lo smercio delle partite di droga contrabbandate in Russia. Non a caso dal 2019 ad oggi Mosca ha ospitato vari incontri tra delegazioni talebane e governative favorendo le intese per la formazione di un esecutivo di unità nazionale. Tutti fattori che garantiranno alla Russia una presenza politica ed economica dopo l’addio americano. A conti fatti, insomma, l’addio a Kabul rischia di trasformarsi in una resa a chi inflisse all’America il colpo più duro dopo Pearl Harbour e in una ritirata da quei territori del sub-continente indiano decisivi in caso di scontro con la Cina.
https://it.sputniknews.com/opinioni/2021050410495933-afghanistan-se-il-ritiro-di-biden-e-una-resa/
Putin71
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