sabato 30 novembre 2013

Sono uscito dal cimitero dei vivi


Ha trascorso tredici lunghissimi anni nelle carceri di tutto il Messico, accusato da un avversario politico, senza alcuna prova, di aver ucciso sette agenti di polizia. L’ultimo giorno di ottobre, una grande campagna ha finalmente imposto la sua liberazione. Alberto Patishtán, professore indigeno tzotzil, ora si batte per la libertà di tutti gli altri detenuti innocenti. “Cambiare le cose sembra quasi impossibile, eppure bisogna farlo”, dice in una delle prime interviste che ha rilasciato
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di Blanche Petrich
Guardando avanti, col cuore più che con gli occhi, i quali a poco a poco hanno perso la capacità di vedere, a causa di un tumore al cervello. Alberto Patishtán, insegnante, è stato appena liberato dopo 13 anni di ingiusta prigionia. Ora misura i grandi compiti ancora da affrontare per risanare il sistema giudiziario ed evitare che nelle carceri messicane restino “almeno la metà dei detenuti con accuse senza prove, persone innocenti, tenute lì a pagare i reati di altri a causa della cecità delle autorità”.
Nell’intervista con La Jornada, il professore parla dei detenuti che ha conosciuto nelle carceri dove se n’è andata la sua prima gioventù: “Come posso dimenticarli se io stesso ho vissuto la prigione ingiusta?” È il caso di Alejandro Díaz Santiz, tzotzil come lui, di Mitontic, che ha già scontato 15 anni, ma gliene restano altri 15, nel penitenziario Cereso 5 di San Cristóbal. Alejandro è stato arrestato e giudicato a Veracruz con l’accusa di avere ucciso il proprio figlio. Díaz si dice innocente e indica un’altra persona come omicida, ma la sua dichiarazione non è stata neanche presa in considerazione. Ha avuto un traduttore, però in lingua nahuatl (la sua è lo tzotzil, ndt). “Dicono che il suo processo sia stato giusto. Che menzogna!”, commenta Patishtán.
Quarantadue anni, per le affermazioni di non-violenza e la spiritualità, Patishtán sembra quasi un “Ghandi”: “Sembra impossibile cambiare le cose ma bisogna farlo. L’autorità parla di giustizia, democrazia e di tutte queste cose, ma non è così. Se abbandonassero tutta l’ambizione, se liberassero la mente e prendessero coscienza della verità… Gli presterei i miei occhi affinché possano guardare al fondo delle cose. Credo che sarebbe differente”.
Lei cosa propone?
Vorrei aiutare tanta gente. Credo però che il compito principale spetti allo stesso detenuto. È lui che deve cominciare a gridare da dove si trova. Perché se non si fanno conoscere, se non fanno conoscere i loro nomi, non avviene il collegamento con la gente che vuole aiutare da fuori.
Patishtán torna sempre sulla perseveranza: “Con l’estate e con l’inverno, affamati o meno, soli o in compagnia, dobbiamo avere sempre perseveranza”.
Indigeno tzotzil, insegnante di diverse materie, aderente a un movimento di resistenza, nel 2000, in una comunità remota negli Áltos del Chiapas, ad Alberto Patishtán è piovuta addosso la fabbricazione delle prove per l’omicidio di sette agenti della polizia di Stato. Condannato a 60 anni di prigione, era il candidato ideale a restare dietro le sbarre fino alla fine dei suoi giorni. È diventato, invece, il volto di un ampio movimento di solidarietà cominciato da un piccolo collettivo, Ik, che è poi cresciuto fino ad incorporare le organizzazioni dei diritti umani del Messico e del mondo con una qualche competenza sulla questione indigena.
Lei ha detto che semmai dovesse essere considerato un simbolo, lo sarebbe di quel che c’è ancora da fare. Cosa manca?                               
La gente adesso potrebbe dire: ‘Ce l’abbiamo fatta, Patishtán è uscito. È finita bene’. No, c’è ancora molto da fare perché non si ripeta la stessa storia. Non possiamo più permetterlo. Ci sono molti compagni incarcerati che meritano di uscire e non escono. Abbiamo già visto che l’autorità è inflessibile, senza coscienza.Quando entri in prigione, ti dicono: qui il diritto è finito. Ma se uno, pur essendo incarcerato, mantiene la propria libertà, può fare molte cose. Il potere giudiziario esiste per applicare la legge, ma non la giustizia; loro cercano qualcuno che paghi un reato, non il colpevole. Quando mi hanno arrestato, ho chiesto loro di usare i progressi tecnologici, di sottoporre me e chi mi accusava a una macchina della verità. Non sapevo nemmeno se questi strumenti esistessero, ma li chiedevo. Non mi hanno nemmeno fatto caso….”
Patishtán è stato un prigioniero indomabile. Fin dal primo momento, a Cerro Hueco, Tuxtla Gutiérrez, ha organizzato i detenuti nella Voz de la dignidad rebelde. Per smontare il suo lavoro lo trasferirono nella prigione di El Amate, a Cintalapa, dove fondò La Voz del Amate. Per questo fu trasferito di nuovo in un carcere federale di massima sicurezza, a Guasave, Sinaloa.
Patishtán chiama quella prigione il cimitero dei vivi, “l’unica prigione che conosco senza alcuna assistenza medica. Rinchiuso tutta la settimana, con un’ora d’aria, senza un orologio, proibito parlare, tutto morto. Ho perfino imparato il linguaggio dei segni dei sordomuti.
Lì non ha potuto organizzare i detenuti…                                             
Sì, ci sono riuscito invece, ma per poco. Solo nella mia cella, con i miei compagni. Raccontavo loro delle storie con una morale, perché molti di loro volevano morire. E poi cantavo per loro.
Non c’è dubbio, lei è un uomo che guarda alle avversità in maniera differente.                                                  
È quello che mi hanno insegnato i miei nonni, Mariano e Andrea da parte materna e Lorenzo e María, già scomparsi, dal lato paterno. Mi hanno insegnato che bisogna saper ascoltare più che parlare. Per questo abbiamo due orecchie e una sola bocca. Per ascoltare molto e parlare poco. Mi chiedevano di dire le cose come stanno, di non perdere credibilità, altrimenti nessuno si sarebbe fidato di me. E mi hanno insegnato a fare attenzione alla natura. Quando bisogna tagliare l’albero per la capanna? Se si taglia con la luna crescente non va bene, solo con la luna piena non ci  sarà il pericolo delle tarme. E quando le formiche camminano in fila trasportando il loro cibo, vuol dire che quella stessa settimana pioverà. Quando l’uccello tzuntzerek cambia il suo cinguettio, come una seconda voce, sta avvisando che qualcosa succederà. E se succede, chi lo sa se è per coincidenza o volere di dio….”
Quanto sono serviti questi insegnamenti in prigione?
Potevo vedere al fondo delle cose, andare oltre quello che si vede in superficie.
Al momento dell’insurrezione zapatista, Patishtán aveva 23 anni. Era già impegnato nella lotta, simpatizzava con i compagni comprendendo che, se la gente si era ribellata, era stato a causa dell’oppressione, del caciquismo. Ha partecipato alla creazione del Movimiento del Pueblo di El Bosque e del municipio autonomo San Juan de la Libertad, poi smantellato con un massacro durante il governo di Roberto Albores Guillén, nel 1998.
“Il mio villaggio, El Bosque – dice –, non è grande ma nemmeno tanto piccolo. C’è molta emarginazione. Sembrava che i presidenti dei municipi governassero bene, ma non era così. Loro si prendono sempre qualcosa, rubano dalle risorse della gente”.
Nel 2000, quando avvenne l’imboscata nella quale morirono sette poliziotti, il presidente del municipio Manuel Gómez rivolse una falsa accusa contro Patishtán e altri compagni.
Che cosa accadde a El Bosque?
 Fecero germogliare i semi che avevo regalato a ognuno…
Cosa significa essere un portatore di semi?
Il seme me lo dà un uomo molto conosciuto… il mio Dio. Mi dà questi semi ed io non me li posso tenere, li devo condividere. Ed ecco lì il frutto, il Movimiento del Pueblo di El Bosque, che si mantiene fermo, che dice sempre la verità. Non esige né chiede più di ciò di cui ha bisogno la gente, ma solo ciò che merita. Purtroppo, disgraziatamente, le autorità non la vedono così, non siamo ben visti. Anche la mia prigionia, però, ha fatto sì che le persone solidarizzassero di più; che l’organizzazione, invece di scemare, crescesse per la rabbia, il coraggio. La gente sapeva che ero innocente, la gente lo sa.
È difficile contare quante marce sono state organizzate a El Bosque per la sua liberazione, vero? 
Fin dal giorno che mi hanno arrestato hanno fatto un presidio per un mese, hanno occupato il municipio. Il governo di Albores Guillén ha firmato con loro un accordo: dovevano lasciare il municipio in cambio della mia liberazione, il governo poi non ha mantenuto la parola e non mi hanno liberato. Per questo la gente ha continuato a manifestare, a San Cristóbal, a Tuxtla, e perfino a Città del Messico, una piccola rappresentanza a causa delle risorse limitate. Così è stato per 13 anni, fino a pochi giorni fa.

Fonte: la Jornada  www.jornada.unam.mx
Traduzione per Comune-info: m.c.

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