DIREZIONE FEDERALE DEL 9 MARZO - RELAZIONE DI MASSIMO POMPILI i ( coordinatore seg. DS Roma)
DIREZIONE FEDERALE DEL 9 MARZO - RELAZIONE DI MASSIMO POMPILI
Care compagne e compagni,
credo che stiamo vivendo, per molti aspetti, una situazione politica
di
grande movimento.
Non ritornerò su cose risapute, e dette mille volte nei nostri
organismi
dirigenti nazionali e locali.
Mi preme sottolineare un dato nuovo. Che a me sembra essere quello che
anche
i gruppi dirigenti della destra italiana, in qualche modo, cominciano
a
riconoscere o a sentire: il loro fallimento, la distanza delle
promesse
fatte, la difficoltà della situazione italiana e il malumore della
gente.
D’altra parte il fallimento non è davvero occultabile.
Berlusconi vinse promettendo crescita, maggiore libertà, meno tasse e
più
sicurezza.
Basta scorrere alcuni dati di oggi.
L’Ocse ha confermato che il nostro Paese è l’unico tra quelli del G7
che
resta fermo.
Idem l’ISTAT.
La pressione fiscale è aumentata nel 2003 a confronto con il 2002 dal
41,7%
del PIL al 42,1%.
Rispetto al 2001 essa aumenta del 19% per pensionati e lavoratori
dipendenti. Mentre crollano le entrate da contrasto all’evasione fiscale,
da
32,5 miliardi di euro a 15 miliardi.
Infine, l’insicurezza aumenta. Perché aumenta il costo della vita, non
si
trova lavoro per le nuove generazioni, si mettono in discussione le
pensioni
e fondamentali servizi sociali e di sicurezza per i cittadini.
Tutto questo mentre si restringono le libertà.
Si limita contro le donne la procreazione assistita.
Si uniforma l’informazione ai voleri del premier e si licenziano i
giornalisti scomodi.
Si prepara una legge sulla droga che mette sullo stesso piano spacciatori
e
piccoli consumatori e Telekom Serbia ci dice qual è l’uso che viene
fatto
delle istituzioni.
Viene fuori l’immagine di un Paese sfiduciato, incapace di scommettere
sul
futuro, in crisi e ingessato da un autoritarismo strisciante.
La novità, dicevo, è che l’affanno sta diventando evidente nel
governo.
Serpeggia e non si nasconde più.
E, tuttavia, le loro risposte non sono univoche.
Anzi, a me appaiono contraddittorie e frammentarie.
C’è stato, e c’è, il tentativo di un posizionamento autonomo di Fini
e
Casini. Una ipotesi pensata per il dopo Berlusconi. L’idea di poter
scommettere su una destra più seria, moderata, rispettosa delle
istituzioni.
In grado di stabilizzare il bipolarismo e di raccogliere, nel futuro,
il
grosso dell’elettorato di Forza Italia.
Questo tentativo appare fragile: Fini ha spinto su Israele e immigrati.
Ma
ha dovuto, subito, recuperare su droga e procreazione assistita.
Finchè c’è Berlusconi, il suo guinzaglio è davvero corto.
C’è, poi, rispetto alla crisi, la risposta di Berlusconi.
Quella che egli tenta di mettere in campo personalmente.
Un rilancio solitario, populista, qualunquista, autoritario e sprezzante
del
suo comando personale.
I politici sono ladri. Le tasse troppo alte vanno evase. I magistrati
sono
comunisti. Così anche alcuni membri della Corte Costituzionale.
E’ un crescendo. Sostenuto da una massiccia esposizione mediatica e da
un
attivismo nelle relazioni internazionali, basato più su presunti rapporti
di
amicizia bilaterali che non su una strategia dignitosa, credibile e
autorevole dell’Italia.
Ma non va sottovalutato Berlusconi.
La sua miscela può sempre attecchire, in assenza di alternative
democratiche
convincenti.
Anche se egli appare ai più, una farsesca estremizzazione di se stesso,
che
pone seri dubbi ai suoi stessi alleati.
Ma la testimonianza più chiara dell’inquietudine che cammina dentro
il
governo è stata l’intervista di Tremonti a Repubblica.
La proposta di cambiare metodo. Di utilizzare per le questioni di fondo
che
investono le prossime generazioni, il metodo repubblicano. La ricerca di
una
convergenza tra maggioranza e opposizione.
Nel merito ha già risposto Fassino.
Ha detto: vengano i fatti; sulle pensioni, sulle regole parlamentari,
a
partire dal decreto sull’Iraq e poi sull’informazione. E così via.
Non c’è dubbio, però, che l’uscita di Tremonti è la dimostrazione di
una
debolezza di cui è consapevole.
La sensazione di non avere né strategia, né consenso per affrontare
questo
tornante difficile della via italiana.
La mia convinzione, in conclusione, è che il centrodestra pur tentando
varie
strade di ripresa, alla fine, finchè c’è alla guida Berlusconi, a lui
si
deve riferire. E a lui tutti sono indissolubilmente legati fino al
voto
politico, dovendo condividere le sue iniziative, mosse e sorprese. Le
quali
nei prossimi mesi saranno sicuramente e ulteriormente numerose ed
eclatanti.
E con le quali, anche noi, siamo tenuti a fare bene i conti senza
sottovalutazioni.
Il primo compito, tuttavia, che noi abbiamo, la prima vera misura che
noi
dobbiamo prendere con la situazione, é quella di non lasciare un
vuoto
politico.
E’ quella di impiantare sempre più una alternativa allo sfascio e
alla
confusione provocati dalla destra.
E una larga alleanza del centrosinistra, da Rifondazione a Di Pietro, è
la
premessa di questo.
Così come un credibile profilo programmatico.
Amato ha preso in mano l’ufficio del programma per la Lista Unitaria.
E’ una garanzia di autorevolezza ed efficacia.
Ma non va lasciato solo. Nelle assemblee che ho svolto in questi
giorni,
qualche compagno mi ha posto il tema che non dobbiamo lasciarci
appannare
dall’iniziativa delle altre componenti della Lista Unitaria. Sono
d’accordo.
In una lista come questa, proprio perché unitaria, ci vuole più DS ed
inoltre il programma deve crescere con una partecipazione di massa ed
una
elaborazione collettiva. Con un contributo che dobbiamo raccogliere
fuori
dai luoghi di elaborazione strettamente dei partiti.
Anche noi da Roma siamo tenuti a continuare il nostro originale lavoro
di
idee per dare un contributo, che in molti momenti è stato decisivo.
Se dovessi dire oggi, anche alla luce della grande assemblea unitaria
del
PalaLottomatica, qualcosa su questi aspetti, direi che il profilo del
nostro
programma dovrebbe delinearsi su quattro versanti fondamentali.
Primo. Dare una sicurezza sociale, ormai ampiamente perduta.
Alcuni servizi non si barattano. Non dovrebbero essere oggetto di
compatibilità economiche .Dovrebbero essere considerati minimi comuni
denominatori per un calcolo elementare di civiltà.
La scuola, la sanità. Innanzitutto.
Insomma. Occorre stipulare una intesa vera, profonda con l’elettorato
sulla
sicurezza ed anche su un minimo di stabilità della vita delle persone:
il
lavoro, le pensioni e così via. Questo dovrebbe dire e fare il
centrosinistra; su questo dovrebbe costruire una forte complicità con
l’
elettorato.
Secondo. Data la sicurezza, occorre stimolare la voglia creativa del
Paese.
La voglia di fare, di lavorare, di intraprendere. Dobbiamo, per
questo,
essere i campioni di una semplificazione della vita amministrativa,
delle
leggi, delle procedure. Dobbiamo essere tenaci nel rompere
corporazioni,
caste professionali, chiusure nel mondo del lavoro che impediscono l’
apertura ai giovani.
Terzo. Dobbiamo dare il senso che la libertà di ognuno si esprimerà
davvero,
e fino in fondo, se prevarrà anche il senso della comunità.
Se c’è il rispetto delle regole, delle istituzioni, delle relazioni
sociali.
Se c’è l’etica nell’azione pubblica.
Verrebbe da rispondere a Tremonti che questo è il solo vero metodo
repubblicano sul quale tutti dovrebbero convergere.
Naturalmente, per rendere credibile tutto ciò, gli uomini e le donne
del
centrosinistra debbono dare l’esempio in prima persona.
Serietà, sobrietà e lavoro collettivo.
L’ovazione a Prodi, presentato all’Eur come l’infaticabile mediano
che
costruisce il gioco, insieme alla squadra, rende del tutto evidente
quello
che la nostra gente si aspetta da noi.
Quarto. Dobbiamo, infine, porre l’Europa e l’europeismo come il vero
discrimine tra noi e i nostri avversari.
L’Europa come il luogo per vincere la sfida per un’Italia più moderna,
colta
e giusta. E per un mondo multipolare, di pace, ecologicamente sostenibile.
E
in grado di dialogare con quel movimento immenso, di miliardi di persone,
e
ormai irreversibile che bussa alle porte della storia contemporanea.
Vedete, care compagne e compagni,
qualsiasi programma ha, tuttavia, bisogno di un assetto politico forte
e
credibile che lo sostenga.
Non vorrei tornare sulle ragioni della Lista Unitaria.
Semmai vorrei fare un primo, precoce, bilancio.
Penso che in queste prime settimane il progetto unitario abbia già
dimostrato sul campo la sua validità.
La manifestazione dell’Eur ha comunicato una giusta voglia di rivincita,
una
voglia grande di unità, una autorevolezza di comportamenti e una base
di
valori e di contenuti ampiamente comuni.
Dovunque si siano fatti incontri, manifestazioni, iniziative dei DS,
la
risposta dei cittadini è stata buona ed incoraggiante.
Non mi riferisco, quindi, ai sondaggi che, pure, vanno bene. Parlo di
una
autonoma forza politica che la linea messa in campo sta dimostrando
di
avere.
Tuttavia qualche problema si registra ancora nell’insieme della
classe
dirigente che guida il processo. E’ fisiologico. Ma vanno fatte correzioni
e
prese meglio le misure.
Penso, per esempio, alla polemica sulle iniziative personali dei
leaders.
Ma penso anche a noi, alla misura e al modo di vivere da parte nostra
il
progetto unitario.
Non mi preoccupa tanto qualche De Gasperi di troppo nella Convenzione
dellEur. Come qualcuno ha detto. Giustamente, beninteso.
Però è utile che la Margherita nell’unità porti orgoglio e il meglio
della
sua storia.
Quello che mii preoccupa è se noi, per qualche prudenza eccessiva,
non
dovessimo fare altrettanto.
La Lista Unitaria ha bisogno dell’orgoglio e della storia di tutti i
riformismi italiani. Ecco perché dicevo più DS. Non è un paradosso dentro
un
’esperienza unitaria.
Che ha bisogno che l’unità non si viva in modo statico, come fu per
la
stagione sfortunata dell’unità nazionale. Ma in modo creativo,
dinamico,
aperto alla società e ai movimenti. In modo coerente, ma serenamente
libero.
Sottolineo che non pongo, quindi, un tema astratto di identità.
La nostra identità è via via il contributo che la nostra
straordinaria
comunità di persone sa portare nei processi politici reali e nelle
battaglie
che ci attendono.
E sempre stato così.
Tant’è che non c’è una nostra identità fissa.
Ma, oggi, c’è appunto uno specifico apporto che principalmente noi
possiamo
dare alla Lista Unitaria, al suo progetto politico e programmatico.
Vedete: Prodi, e tutto un certo mondo che lo circonda, è indispensabile
per
vincere.
Interpreta e rappresenta una parte d’Italia alla quale, probabilmente,
noi
non arriviamo completamente.
Prodi porta un pezzo di classe dirigente fondamentale: forze economiche
e
finanziarie, pezzi d’industria dello Stato, una rete nell’informazione
e
nella stampa che fa opinione.
E poi lui, la Margherita, il cattolicesimo democratico, portano una
attenzione a certi valori sociali o ideali, che poi sono anche i nostri:
la
pace, la solidarietà, e per certi aspetti si presenta in modo perfino
più
intransigente del nostro.
Ma noi portiamo qualcos’altro che loro non hanno.
Ed è quella consapevolezza che la politica di cambiamento si fa con le
masse
organizzate. Con un protagonismo consapevole della gente. Con soggetti
ben
radicati nella società e tra i cittadini.
E che questo comporta fatica. Ma è l’unico modo per innervare la
democrazia,
per inverare la costituzione, per portare trasparenza, controllo e
funzionalità nello Stato.
Per esercitare un vero e profondo rispetto della Repubblica.
Sappiamo come i ceti borghesi in Italia abbiano ampiamente disertato
questo
compito.
Quello, cioè, di costruire istituzioni democratiche, solide, moderne
e
riconosciute. Essi si sono abbandonati troppo spesso ad opportunismi e
ad
avventure. Per questo la democrazia italiana è fragile.
E’ toccato così, molto spesso, alla sinistra democratica riempire un
vuoto.
Errori ne abbiamo commessi. Ma il rigore, la serietà, la passione civile,
la
sobrietà di uomini come Berlinguer, Petroselli, Ingrao, Nilde Iotti,
Pertini
ha consolidato in Italia quell’amore per la Repubblica indispensabile
per
superare i momenti difficili e tenere aperta una prospettiva per
tutti.
Ed oggi questo patrimonio appare essenziale.
Contro lo scardinamento populistico-autoritario di Berlusconi, appare
essenziale, appunto, metter in campo la forza del potere di Prodi e
il
valore dell’anelito solidaristico. Ma amalgamati, tuttavia, da quella
pratica e visione della politica a cui facevo riferimento. Da quel
senso
dello Stato, della democrazia partecipata, del soggetto politico
collettivo
che è la linfa vitale della nostra storia e del nostro riformismo e a
cui
noi nella nostra storia non abbiamo mai rinunciato con slancio e
senza
complessi. Occorre dare questo contributo non per noi stessi, ma per
la
riuscita dell’impresa comune. Con slancio e senza complessi.
Care compagne e compagni,
il partito, così come la Lista Unitaria, in queste settimane sono
stati
travagliati dalla vicenda dell’Iraq.
Un po’ perché ci sono dissensi reali, un po’ perché c’è stata molta
confusione.
Oggi la discussione tra tutti i militanti, e tra tutte le componenti,
dalla
sintesi che traggo dalle molte assemblee svolte, appare più serena.
Non
composta. Ma sicuramente più serena.
Sono stati ribaditi con forza due punti fermi.
Primo. Ora, ancor più di ieri, giudichiamo la guerra in Iraq
sbagliata,
ingiustificata, gravissima nelle sue conseguenze.
La causa che la scatenò e cioè la presenza di armi di sterminio di massa,
si
è rivelata falsa. Il cosiddetto dopoguerra, invece di vedere sconfitto
il
terrorismo si sta trasformando in una scia continua di attentati,in
una
guerra civile, in una destabilizzazione estesa a tutta l’area.
Le responsabilità degli USA sono enormi.
E, come dicono anche i democratici americani: Bush le deve pagare.
Secondo. Siamo tutti contrari alla missione militare italiana in
Iraq.
Non c’è la copertura dell’ONU.
Non svolge funzioni di pace.
Non ha un compito chiaro ed esplicito.
Si trova in una situazione pericolosa, senza essere attrezzata a ciò.
Questi sono due punti fermi che stanno guidando in queste ore la
nostra
condotta parlamentare.
Tant’è che il gruppo alla Camera ha deciso di presentare un’eccezione
di
incostituzionalità sul decreto in riferimento all’articolo 11 della
Costituzione ; di svolgere, poi, una battaglia incisiva per articolare
il
voto, separando quello sull’Iraq da quello sulle missioni di pace con
copertura dell’ONU e da noi condivise;denunciando, così, il
comportamento
arrogante e furbesco del governo che vuole mantenere,
ingiustificatamente,
tutto insieme per metterci in imbarazzo.
Infine, se non passa lo scorporo, di presentare un emendamento
soppressivo
dell’articolo 2 del decreto, quello sul rifinanziamento della
missione.
E se, come prevedibile, non passa neppure la soppressione dell’articolo
2,
di non partecipare al voto finale come atto di protesta (da non
sottovalutare quanto alla sua forza), per non cadere nella trappola
di
Berlusconi che ci vorrebbe far votare contro provvedimenti da noi promossi
e
condivisi.
E’ una condotta che ha una sua linearità, e che io condivido
pienamente.
Il punto è che questa linearità, nelle settimane passate, non era
affatto
riuscita ad emergere.
Abbiamo avuto un lungo periodo in cui sono emersi, invece, messaggi
contraddittori, legittime opinioni di merito diverse, iniziative
personali.
Tant’è che ad un certo punto molti cittadini hanno creduto che la
posizione
dei DS fosse quella dell’astensione sulla missione in Iraq.
Quindi la confusione non l’hanno fatta ad arte solo gli avversari, o
certi
settori estremi del pacifismo lanciando accuse infamanti e volgari.
La confusione l’abbiamo fatta anche noi. E diciamocelo serenamente,
per
farne tesoro.
Credo che il recupero di una chiarezza nei media, nella stampa, in
una
incisiva condotta parlamentare sia stata possibile anche grazie alla
battaglia condotta da alcuni compagni della maggioranza del partito,
che
hanno segnalato onestamente il pericolo, l’insoddisfazione della
nostra
gente e l’opportunità di valutare, allo stato dei fatti di allora, un
voto
finale per il NO.
Posizione, quest’ultima, sostenuta con molta forza dai compagni della
minoranza.
Tale recupero di chiarezza sdrammatizza, secondo me, il dissenso sul
voto
finale. Stabilisce ( e non mi sfuggono gli scarti dello SDI ma nemmeno
un
terreno di unità più largo del Centrosinistra nella condotta
parlamentare)
un terreno comune molto solido di tutto l’Ulivo e il centrosinistra.
Ci
permette di partecipare con la nostra piattaforma e a testa alta alla
grande
manifestazione pacifista del 20 marzo, dove con grande senso di
responsabilità noi dobbiamo impegnarci per una mobilitazione che
travalica
il partito e muove la città.
So che resta, oltre che sul voto finale, un dissenso sulla questione
del
ritiro immediato del contingente.
La mia opinione è che c’è coerenza tra il ribadire un netto no alla
missione
in Iraq (chiedemmo una svolta per rimanere, e la svolta non c’è stata), e
il
porre il limite del 30 giugno per verificare un cambiamento possibile
ed
auspicabile. Oltre il quale, se il cambiamento non ci fosse, il ritiro
dei
soldati sarebbe obbligato.
Il 30 giugno è il momento del passaggio dei poteri al governo
provvisorio
iracheno. La situazione è in movimento, anche se tragica e aperta ad
ulteriori peggioramenti. Nelle prossime settimane si tratta di premere
con
tutte le energie, per affidare all’ONU il coordinamento delle operazioni
di
pace.
Non appare plausibile neppure, penso, sul terreno logistico -
organizzativo
richiamare subito i soldati dal campo, per poi magari rispedirli subito
dopo
se le cose dovessero mutare.
A me pare più plausibile, invece, indicare un confine chiaro, entro il
quale
svolgere un’azione positiva, per poi assumere, se necessario,
decisioni
comunque dolorose e difficili.
In tal senso andrà l’ordine del giorno che ha deciso di presentare il
gruppo
alla Camera. Un ordine del giorno, ma soprattutto un paletto politico
non
più eludibile. Che io penso non possa essere messo in discussione da
una
riapertura del dibattito da parte di chi qualora vi sia nel Partito,
pensa
che si debba rimanere comunque in Iraq oltre il 30 giugno in assenza
della
svolta richiesta.
Rispetto davvero, comunque, l’opinione di molti compagni che mantengono,
con
argomentazioni serie, sia la posizione del NO sul voto finale, sia la
posizione del ritiro immediato. Io ho verificato la genuinità di
questa
posizione nelle assemblee svolte.
In questi giorni, nel gruppo parlamentare e nelle sezioni c’è stata
una
discussione alta.
Va valorizzata. Così come vanno valorizzati i punti comuni, ampi e
solidissimi, che costituiscono la nostra piattaforma ideale e concreta
sulla
pace, l’Europa, l’Iraq, le relazioni internazionali. Che è alternativa
ai
fallimenti clamorosi, anche su questo terreno, del governo Berlusconi,
che
ha fatto rapidamente perdere all’Italia nella politica estera il
prestigio
accumulato negli anni passati durante i governi del centrosinistra.
Ora vorrei fare una considerazione politica un po’ fuori del tema.
Ai bordi della discussione sull’Iraq, sono emerse oltre a considerazioni
di
movimentismo a volte un po’ estremista, anche concezioni del nostro
riformismo un po’ astratte e ideologiche.
Il riformismo non è mimare schemi libreschi, non è voglia di
legittimazione,
né fregola di governo. Non è dire qualcosa di meno, o di più moderato,
per
sembrare più di governo.
Questo modo di pensare, di atteggiarsi perfino, è puro politicismo, Cioè
il
contrario del riformismo.
Il quale riformismo deve avere l’ambizione di governare le spinte
sociali,
la voglia di cambiamento nella prassi concreta, nel fare. Mettendo le
mani
nei conflitti, nella società, nel governo reale e nei movimenti.
La scolastica del riformismo, porta a dire a Michele Salvati sul
Corriere
della Sera, cito tra virgolette, “che il riformismo richiede di pensare
in
termini di sistema, economico, internazionale o altro: ma questo non si
può
fare altrimenti... Quest’altro invece, poco, si può fare, ma occorre
cautela”.
Pur rispettando le posizioni di Salvati, su questa impostazione, io non
sono
d’accordo. Il riformismo non è la riserva indiana che ti lasciano le
compatibilità degli altri.
Il riformismo, se deve essere appunto foriero di cambiamento, è il
tentativo
di spostare in avanti i confini delle compatibilità. Secondo un
programma
realistico, condiviso, possibile. E deve avere un’anima che gli dia il
senso
di marcia.
E dunque è governare l’anelito per la giustizia e il riequilibrio dei
poteri, in un continuo processo di verifica, di aggiustamento, di
dialogo
con la società e nell’ambito del concreto sviluppo storico.
Care compagne e compagni,
in questo quadro dobbiamo prepararci alla prova elettorale per
l’Europa.
Il partito di Roma ha di fronte a sé un grande sfida ed occasione.
Noi non abbiamo elezioni amministrative.
Quelle le abbiamo già vinte.
E bene.
Saremo chiamati, quindi, a concentrarci sul voto alla Lista Unitaria.
E il voto di Roma, come al solito, lo guarderanno tutti e peserà
enormemente
sul piano nazionale.
Siamo sicuramente esposti per il fatto che a Roma ci può essere
un’influenza
forte di alcuni settori più radicali dei movimenti e dei girotondi e
della
lista Di Pietro-Occhetto.
Ciò ci impone una condotta della campagna elettorale intelligente, ferma
ma
dialogante e molto aperta alla società. A partire, come dicevo, dal
programma.
Ma siamo nettamente avvantaggiati dal fatto, fatemelo dire con un pizzico
d’
orgoglio, che proprio Roma è stata la culla anticipatrice di
esperienze
unitarie, di un governo riformista unitario.
Qui è nato l’Ulivo e c’è la consuetudine ad una pratica unitaria di
tipo
nuovo.
E, poi, qui c’è l’esperienza dei due anni e mezzo di governo del
Sindaco
Veltroni.
C’è un modo sereno della coalizione di stare insieme, di lavorare ad
un
tempo con impeto ideale e con quotidiana concretezza.
Veltroni ha dato un messaggio di onestà, di laboriosità, di dialogo e
di
apertura verso tutti. Che diventa, però, fermezza metallica quando si
vedono
in pericolo valori e pilastri della convivenza civile e democratica.
Le
posizioni assunte su Bossi o su Priebke.
Il Sindaco è stato ed è questo. Ed è riuscito a realizzare ciò, lo
abbiamo
vissuto in prima persona e gliene siamo grati, con un rispetto profondo,
ma
mai cerimonioso, per l’autonomia del partito e del gruppo consiliare.
Ha già detto in una sua intervista al Messaggero in che misura e come
egli
vorrà partecipare direttamente alla competizione europea.
Ma egli, ben prima che l’incompatibilità diventasse un dato acquisito,
ha
dichiarato che quando i cittadini danno un compito da svolgere, quel
compito
va svolto fino in fondo e al 100% delle proprie energie.
Anche questo è un messaggio politico. Certo non possiamo curvarlo
utilitaristicamente su noi poiché Veltroni è il Sindaco di tutti. Ma
è
chiaro il vantaggio che ci porta.
E conferma la forza e la serietà di un leader, che rimane una delle
risorse
fondamentali del centrosinistra italiano.
Ma al di là della misura di un intervento diretto e soggettivo, dovrà
essere
in campo alle Europee la forza della Roma che cambia: che aspira sempre
più
ad essere capitale moderna, viva, funzionante e colta di un’Europa
più
utile, più unita, più forte ed autorevole.
Dunque, ripeto, partiamo anche con dei vantaggi, in una campagna
elettorale,
e concludo, nella quale dovremo cercare nell’ambito di una battaglia
più
generale e nazionale che si dovrà dispiegare, di dare un nostro
specifico
contributo.
Primo. Contribuire da Roma all’arricchimento della piattaforma e del
profilo
programmatico della Lista Unitaria. Porre il tema delle sedi in cui è
possibile far arrivare questo contributo dove si traggono le sintesi
E poi fare un calendario di iniziative cittadine. La prima delle quali
può
essere collegata al ventesimo anniversario della morte di Enrico
Berlinguer.
Secondo. Far crescere la rete cittadina di comitati per la Lista
Unitaria.
Dobbiamo recuperare quelle punte di passione creativa, volontaria,
disinteressata, civile che fu determinante nella vittoria elettorale
(soprattutto a Roma) del primo Ulivo.
Non triciclo. O Ulivo dei partiti.
Qui si tratta di suscitare un vero e proprio moto democratico.
D’altra parte a Roma il voto a sinistra si conquista solo così.
Con una iniziativa politica convincente, unitaria, aperta.
La nostra esperienza ci dice che quando c’è un approccio burocratico
delle
forze democratiche, vince la destra.
Terzo. Far emergere il profilo positivo dei DS di Roma.
Una forza che ormai da anni si è identificata e ha creduto a progetti
unitari. Con generosità, ma senza mai perdersi all’interno di essi.
Fummo criticati per aver dato troppo sangue a Rutelli.
Non era vero. Fu indispensabile per vincere e aprire una stagione
politica
nuova.
E quel sangue, semmai fu dato, ci è tornato con gli interessi:se è vero
che
oggi siamo il primo partito della città e il Sindaco è un compagno
del
nostro Partito.
Ma noi avremo anche l’occasione della Lista e delle candidature per
raccogliere, simbolicamente, i frutti del nostro lavoro e per marcare
politicamente e in modo positivo la nostra presenza.
Il segretario regionale Meta ha avanzato la proposta di candidatura
del
segretario di Roma Nicola Zingaretti in una iniziativa pubblica alla
presenza di Piero Fassino. La proposta di Nicola vive ormai da mesi
nell’
animo e negli auspici di centinaia di compagni e compagne senza vincolo
di
mozione.
Penso che questa candidatura per Roma possa avere uno straordinario
valore.
Non solo per la storia e la competenza di Nicola.
Un compagno cresciuto nell’esperienza del lavoro Internazionale, a
contatto
con tutti i più importanti leaders della sinistra europea.
Ma soprattutto perché egli rappresenta davvero il partito di Roma e il
suo
percorso negli ultimi anni.
Uso questa espressione: è noi.
E il modo inusuale attraverso il quale viene avanti la sua candidatura,
con
una forte spinta dal basso, dimostra che ha fatto un percorso
appassionato.
Tra tanti problemi che non mancano mai, è stato segnato da vittorie
elettorali e però anche da un risanamento e rinnovamento del partito e
delle
sezioni per certi aspetti esemplare.
Un percorso sentito e nel quale si riconoscono come protagoniste
innanzi
tutto le sezioni, ma poi gli eletti e i tanti compagni che abbiamo
investito
nella rete dell’amministrazione. Nicola ha cercato di porsi come punto
di
riferimento di una rete, piuttosto che rivendicare prerogative e
comandi
formali.Questa funzione l’abbiamo cercata insieme e mi sembra che
l’abbiamo
trovata. Io questa sera formalizzo la proposta di candidatura di
Nicola
Zingaretti.
Compagne e compagni,
naturalmente tutta la lista dovrà essere discussa e decisa in sedi
appropriate e bisogna valorizzare al massimo quei criteri di
rappresentanza
di sesso, di apertura alla società e pluralismo che hanno già guidato
la
composizione della lista provinciale. Dobbiamo farlo con rigore.
E’ stato lo stesso Nicola a porre un altro tema importante alla
Segreteria
Nazionale: quello di non esaurire la rappresentanza dei DS, in una
sola
candidatura di Partito, proposta da ognuna delle nostre organizzazioni
nelle
regioni che compongono il Collegio. La richiesta è quella di investire
di
più, qui, nel Collegio dell’Italia centrale, con candidature prestigiose
che
aumentino il peso specifico politico dei DS nella Lista unitaria.
Investire di più significa rafforzare il nostro profilo per rendere
più
chiare le sensibilità politiche di cui siamo portatori. E’ su quelle
che
chiederemo voti alla Lista unitaria e agli elettori di indirizzare le
loro
preferenze sui nostri candidati.
Noi a Roma abbiamo, in questi mesi, già detto quali sono le nostre.
L’
assemblea con i lavoratori Alitalia, quella con i lavoratori della
Centrale
del Latte, i produttori, gli allevatori e la campagna sul carovita
conclusa
con Veltroni, Epifani e Zingaretti tracciano una linea.
Ma essa va sviluppata e al tempo stesso aperta per parlare all’insieme
della
società.
Io ho finito compagni.
Troveremo molte occasioni per approfondire strategie specifiche e
concrete
per lo sviluppo della nostra azione. La valenza politica delle
elezioni
europee è evidente. Dentro questo passaggio si giocano anche le
partite
elettorali dei prossimi anni.
Il pensiero è chiaro.
Io penso che già da oggi, nel quadro proposto, possiamo trovare l’
entusiasmo, la passione, l’unità e la forza per affrontare bene le
dure
prove che ci attendono e le responsabilità che, proprio per la forza che
i
DS e il centrosinistra hanno a Roma, tutta l’Italia ci carica sulle
spalle.
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