ALCIBIADE E LA SPEDIZIONE ATENIESE IN SICILIA
Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo il suo [di Alcibiade] autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lui stesso; gli furono inoltre assegnati due colleghi, Nicia e Làmaco. Mentre si facevano i preparativi, prima che la flotta uscisse dal porto, accadde che in una stessa notte tutte le erme della città venissero abbattute tranne una, che si trovava davanti alla casa di Andòcide: così quella fu in seguito chiamata il Mercurio di Andòcide. Siccome era evidente che l’azione era stata compiuta con la complicità di molti, che non avevano di mira faccende private, ma dello Stato, la gente fu presa da una grande paura che all’improvviso scaturisse nella città un colpo di mano per sopprimere la libertà. Sembrava che tutto questo si addicesse a pennello ad Alcibíade, dato che era ritenuto abbastanza potente e più che un privato cittadino: infatti molti aveva legato a sé con la sua generosità, più ancora aveva fatto suoi sostenitori con la sua attività forense. Per questo motivo, ogni volta che si presentava in pubblico, attirava su di sé gli occhi di tutti e nessuno nella città era considerato pari a lui. Così riponevano in lui non solo grandissima speranza ma anche timore, perché poteva fare del bene o del male in sommo grado. Godeva inoltre di cattiva fama perché si vociferava che in casa sua praticasse i misteri, cosa empia per gli Ateniesi e si riteneva che ciò avesse a che fare non tanto con la religione quanto con una congiura.
Nell’assemblea popolare era accusato di questo crimine dai suoi nemici. Ma incalzava il tempo di partire per la guerra. Pensando egli a questo e ben conoscendo le abitudini dei suoi concittadini, chiedeva che se volessero intraprendere un’azione penale contro di lui, si facesse subito l’indagine giudiziaria piuttosto che essere citato assente per un’accusa dei malevoli. I suoi nemici però capivano che per il momento bisognava star calmi, perché non si poteva nuocergli e decisero di aspettare quando fosse partito, per attaccarlo durante la sua assenza. E così fecero. Infatti, quando ritennero che fosse giunto in Sicilia, lo accusarono, assente, di aver profanato i misteri. Per questo gli fu spedito in Sicilia un messo dal magistrato, con l’ordine di ritornare per difendersi ed egli, che pur nutriva molte speranze di poter adempiere bene alla sua missione, non volle disubbidire e si imbarcò su una trireme mandata apposta per riportarlo. Arrivato con questa a Turii in Italia, riflettendo molto tra sé e sé sulla licenza senza freno dei suoi concittadini e sulla loro crudeltà contro i nobili, ritenne la soluzione migliore di evitare l’imminente tempesta, e quindi si sottrasse di nascosto ai suoi guardiani e da lì andò prima ad Èlide, poi a Tebe. Quando poi venne a sapere di essere stato condannato a morte, alla confisca dei beni e, cosa che accadeva spesso, che i sacerdoti Eumòlpidi erano stati costretti dal popolo a scomunicarlo e che copia della scomunica, incisa su una colonnetta di pietra, perché l’atto fosse meglio attestato, era stata esposta in pubblico, se ne andò a Sparta. Là, come soleva ripetere, condusse una guerra non contro la patria, ma contro i suoi avversari, perché questi erano anche i nemici della città; essi infatti, benché capissero che lui poteva essere di grande aiuto allo Stato, lo avevano cacciato e avevano ubbidito più al proprio risentimento che all’interesse comune. Così dietro suo suggerimento gli Spartani strinsero amicizia con il re di Persia; quindi fortificarono Decelèa nell’Attica e, posto ivi un presidio permanente, strinsero d’assedio Atene. Sempre per opera sua allontanarono la Ionia dall’alleanza con gli Ateniesi. Da quel momento cominciò la netta supremazia degli Spartani nella guerra.
Cornelio Nepote - "De excellentibus ducibus exterarum gentium" in Alcibiade, 3-4
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