Per meglio comprendere le dinamiche sociali insite nella grande “C” cerchiata che compare sulla maggior parte dei prodotti dell’ intelletto, conviene partire da dove è più solito farlo, dalla Storia.
Mentre nell’ antichità, anche a causa di una diffusa analfabetizzazione, raramente si è sentita la necessità di tutelare legalmente l’ autore di un opera, è in tempi abbastanza recenti e solo con l’ avvento della stampa che si inizia a parlare di “diritti di copia” (copyrights).
Nell’ Inghilterra del XVI secolo, a seguito dei nuovi mezzi di stampa “di massa” iniziarono a circolare documenti di ogni sorta in grandi quantità, talvolta riportando contenuti non graditi al monarchia dell’ epoca. Costoro ebbero quindi la bella idea di fondare una corporazione privata – la London Company of Stationer – il cui compito era controllare i testi in circolazione per approvare soltato quelli autorizzati dal governo.
Per rendere tutto perfettamente legale furono ideati, appunto, i cosiddetti copyrights, diritti di copia concessi agli editori autorizzati che diventarono così unici detentori delle nuove opere, ottenendo l’ esclusiva della stampa di queste, garantendosi il monopolio editoriale e svolgendo un ruolo inquisitorio nei confronti della libera circolazione di idee.
Il copyright, insomma, fu concepito dai governi al semplice scopo di privilegiare le case editrici e attuare una dura censura.
Le cose rischiarono di cambiare quando, nel 1649, venne a scadere il Decreto regio e i privilegio editoriali, portando maggior libertà di pubblicazione ai librai di provincia, i cosiddetti “pirati” irlandesi e scozzesi.
Nel frattempo inoltre, la situazione politica inglese era stata rovesciata più e più volte, in un alternarsi di monarchia e repubblica, con l’ approvazione del Bill of Rights nell’ imporsi di idee liberali, contrarie alle tradizionali politiche censorie.
Le cas(t)e editoriali, vedendo mancare l’ appoggio che erano solite vedere nei poteri, tentarono di ottenere comunque un buon compromesso, sfruttando con un po’ di arguzia il rapporto tra autore ed editore.
Data la scarsità dei mezzi necessari per la stampa e la distribuzione di opere, soltanto nelle mani di pochi, gli editori avrebbero lasciato agli autori il diritto di proprietà (cosa che prima non avveniva), ma gli autori avrebbero potuto cedere tramite contratto questo diritto per usufruire dei mezzi necessari alla diffusione dell’ opera cartacea. L’ editoria non avrebbe quindi guadagnato da una censura commissionata ma dal necessario trasferimento di diritti d’ autore da parte degli scrittori. Disposizione, queste, che videro la luce con la prima norma moderna sul copyright, lo Statuto di Anna.
Terminando qui la favola e sperando di non aver annoiato nessuno, partiamo subito dall’ estrapolare da questi fatti uno degli aspetti più importanti dell’ analisi sul copyright: il copyright non è un diritto-d’-autore bensì un privilegio in mano ai detentori dei mezzi di distribuzione, dalle case editoriale alle lobby discografiche, quella che già in questo blog, discutendo del caso Megaupload avevamo definito con le parole di Wark McKenzie “classe vettoriale”.
Riproducendo le classiche dinamiche capitalistiche all’ interno della produzione intelettuale, l’ “operaio cognitivo” – autore – è in questo caso ancora soggiogato dai proprietari dei mezzi di produzione, ai quali deve vendere i propri diritti non disponendo delle stesse risorse.
Il copyright, indicato anche come “proprietà intelettuale” è infatti il tentativo di esportare il concetto di proprietà nel mondo dell’ intangibile. Ma i beni immateriali, idee in primis, non soffrono di scarsità, perchè riproducibili all’ infinito e senza costi aggiunti. Essendo però la scarsità caratteristica necessaria della merce per un corretto funzionamento del sistema capitalistico, ecco che questa viene immessa, creata artificialmente, dichiarando illegale la copia di un opera intelettuale.
Parlando appunto di pirateria informatica, streaming, e delle possibilità che il Web offre nella libera diffusione di opere ci rendiamo conto di un altro aspetto fondamentale, che è la progressiva obsolescenza di cui sta soffrendo la “classe vettoriale” a causa delle nuove tecnologie.
Diffondere gratuitamente da casa un libro, scaricare musica o qualsivoglia contenuto, scrivere e addirittura stampare un testo in maniera così semplice era cosa impensabile tempo addietro, ma soprattutto è grazie a questa difficoltà che l’ editoria londinese ha potuto far leva sui poteri per ottenere i privilegi. Motivo per cui è tempo per il copyright, così come ora concepito, di fare un passo indietro.
Le politiche di repressione attuate da alcune case discografiche cercando di colpevolizzare con video insulsi l’ utilizzo del file sharing e aumentando la durata di reclusione a tempi da capogiro dimostrano l’ inadattabilità dell’ economia ai nuovi tempi, e non potranno far altro che nuocere ancor più la diffusione commerciale. Il mondo si sta evolvendo in una direzione dalla quale è ben difficile tornare indietro, indi per cui sarà necessario re-inventare i processi produttivi, quando possibile limitando inutili trasporti, e possibilmente senza difendere obsoleti processi per il semplice fatto che creano occupazione.
A dover indicare la nuova rotta per le decisioni in materia, dovrebbe essere anche la tutela per la libera cultura, cosa che le attuali norme in materia di copyright mettono seriamente in pericolo, occultando inoltre l’ aspetto di prodotto collettivo che è connaturato in ogni sapere.
Ogni inventore, per quanto concependo un’ opera di sua iniziativa, attinge sempre ed inevitabilmente ad un calderone di conoscenze e saperi prodotto inconsapevolmente da ogni individuo, e lo fa prendendo qualsiasi spunto da testi diversi, rimodellando un invenzione di un autore precedente, e soprattutto permettendosi il suo lavoro grazie alla libera circolazione di queste idee. Circolazione che il capitale sfrutta per “catturare” prodotti di un lavoro intelettuale comunitario per mercificarli attraverso una vera privatizzazione. Per dirla con le parole di un vecchio filosofo francese la proprietà intelettuale è un furto!
A maggior ragione, contrariamente all’ opinione comune secondo la quale il diritto di paternità è un incentivo alla produzione, il copyright è invece un enorme ostacolo per quella condivisione che è alla base di qualsiasi innovazione, fatto per giunta ripetutamente dimostrato nell’ arco dei secoli, da quando il brevetto della macchina a vapore a nome di Watt ha bloccato le sue stesse ricerche e ritardato la rivoluzione industriale di trent’ anni, fino ai casi recenti, in cui la proprietà intellettuale diventa un grandissimo vincolo per il diritto alla vita, qualora paesi del Terzo Mondo o in via di sviluppo sono costretti a pagare cifre spropositate per poter conseguire ricerca in campo medico.
D’ altro canto, la storia insegna anche che tante belle opere dell’ ingegno possono nascere senza il bisogno della paternità, come dimostrano i grandi testi dell’ epoca antica, dal Decameron alla Divina Commedia, opere eterne nate quando il diritto dell’ autore non sapevano neanche cosa fosse.
Anche in termini recenti i casi non mancano, e tante sono gli scrittori che decidono di pubblicare i loro scritti sotto licenze libere, senza aver paura di finire sul lastrico.
D’ altronde non è difficile immaginare come la diffusione di un opera, anche gratuitamente online, possa rendere il pubblico a conoscenza di un autore, portare in giro il suo nome, diffondere le sue parole, e poi inevitabilmente portargli introiti.
Le alternative al copyright sono sì tante, applicate ognuna ad un ambito diverso della produzione e attingenti tutte dall’ idea originale di licenza Copyleft che Richard Stallman coniò in ambito informatico (GPL), per preservare il software libero prodotto collettivamente dalla comunità del web dalle grinfie delle grandi case di software. Da allora tanti sono stati i tentativi di simulazione – tra cui le licenze Creative Commons, applicate appunto all’ editoria e all’ arte - e tante anche le proposte alternative, come l’ interessante idea di copyfarleft introdotta da Dmytri Kleiner. Kleiner nel suo “Manifesto Telecomunista” accusa le licenze Creative Commons (“Copyjustright”) di non risolvere il problema di fondo, ovvero l’ emancipazione della classe produttrice nei confronti di quella editoriale, e arriva ad ideare una licenza “estrema”, appunto il copyfarlefto, che a differenza delle CC-”Non Commerciale” permette soltanto alle cooperative di lavoratori-proprietari di ricavare tramite l’ utilizzo dell’ opera mentre nega questo diritto alle imprese private fondate sul lavoro salariato. Insomma in poche parole non “Non commerciale” ma “commerciale-ma-dipende-da-chi”.
Un idea forse di difficile applicabilità, certo è che un obiettivo fondamentale oltre la circolazione di sapere è anche tutelare il lavoro cognitivo, garantire i diritti necessari di quella classe emergente che sono i lavoratori dell’ intelletto, obiettivo questa che può esser raggiunto soltanto estirpando dal mondo della cultura e della scienza ogni superfluo tentativo di mercificazione, e per il quale una garanzia come un reddito garantito potrebbe essere benissimo un passo considerevole.
La lotta prefiguratasi è certo ardua, un campo in cui da ambo le parti si gioca d’ astuzia e con grande strategia, da un lato difendendo il libero accesso alla cultura ed i diritti dei lavoratori, dall’ altro approfittando qualsiasi circostanza per monopolizzare, monetizzare e accaparrarsi il possibile nello sconfinato recinto dei beni comuni. Se a questo aggiungiamo le recenti
lotte contro SOPA e ACTA ci possiamo rendere conto di come ancora oggi, a livello globale, in nome della proprietà intelettuale si possano compiere grandi azioni censorie. Insomma, i tempi passano ma la Storia è sempre la stessa.
Che alla fine vincano i pirati o la marina, l’ importante è sin da ora conoscere contro chi abbiamo a che fare.
FONTE:Six Degrees of Freedom
http://www.tzetze.it/2012/08/copyright-diritto-deditore-diritto-di-censura.html
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