sabato 2 giugno 2012
FISCAL COMPACT: L’IRLANDA ACCETTA IL RIGORE DELL’EUROPA
di SALVATORE ANTONACI
Alla fine la paura e la rassegnazione hanno prevalso nel referendum sul fiscal compact europeo svoltosi in un Irlanda depressa e commissariata dalla quasi onnipossente troika. In una delle giornate più piovose dell’anno meno della metà degli elettori si sono recati alle urne, dato addirittura più basso della già non esaltante media locale. Contrariamente ad occasioni precedenti, la scarsa affluenza non ha inficiato il sostanziale vantaggio di cui godevano, sin dall’inizio della campagna elettorale, i fautori del sì all’euro-disciplina.
Il risultato finale, infatti, ha visto prevalere costoro in una proporzione vicina al 60/40 vaticinato da tutti i sondaggi della vigilia. Dei tradizionali partiti irlandesi, il Fine Gael, il Fianna Fail (all’opposizione dopo decenni al timone dell’isola) e il Labour si erano schierati a favore. Il solo Sinn Fein, espressione della sinistra nazionalista, poi raggiunto dalla United Left Alliance, una coalizione di partiti e movimenti più radicali, hanno portato avanti, alla loro maniera, le ragioni del no al trattato-capestro fortemente voluto da Berlino e da Frau Merkel.
Dicevamo alla loro maniera, perché se lo scontro frontale sull’austerity ed il diktat esterno aveva motivazioni sacrosante non altrettanto brillante era la pars construens propagandata da questi resistenti al disordine (finanziario) costituito: più investimenti pubblici per la crescita. Al che l’irlandese medio, da persona adusa ad una quasi atavica concretezza contadina, avrebbe potuto replicare: per noi andrebbe anche bene, ma chi ci mette il peculio? Meglio allora ingoiare l’amara medicina del rigore per continuare l’ossigenoterapia somministrata da Bruxelles? Questa sembra essere stata la scelta della maggioranza di quella metà che ha risposto alla chiamata. Una matematica un po’ precaria per lanciarsi in proclami e commenti trionfalistici come accadrebbe, per esempio, dalle nostre parti.
La verità è che l’illusione di un possibile allentamento della morsa continentale ha influito non poco sul responso finale. Una specie di effetto placebo e di horror vacui che si è impadronito di quel milione di dublinesi e non che ha deciso di continuare l’esperimento che li vede protagonisti nel ruolo di cavie da laboratorio, il laboratorio dei Dottor Stranamore (o Frankenstein, se preferite) dell’integrazione coatta europea. Non adesione alla nobile retorica dell’affratellamento dall’Atlantico al Mar Nero, quindi, ma terrore di non potercela fare con le proprie forze dopo essersi allontananti dalla casa-madre.
Eppure, forse, il portato più significativo della giornata è il riflusso di quella ondata di contestazione genuinamente anti-UE ed antistato che si era palesata con il boicottaggio della nuova tassa sulla casa introdotta dal governo di Enda Kenny qualche tempo fa. Guarda caso in quelle settimane convulse quasi la metà dei proprietari di immobili si era rifiutata di onorare l’iniquo balzello; oggi un’altra metà (o la stessa, chissà…) ha preferito restarsene a casa. Non è però detto che lo scoramento debba essere la prova inconfutabile del rompete le righe. Il fuoco continua a covare sotto la cenere e sbaglierebbe chi vedesse in questo ammainabandiera la volontà di omologarsi al disegno egemonico dell’eurocrazia. Secoli di fiera resistenza agli assalti della Corona britannica non sono trascorsi invano ed i discendenti di Brian Boru stanno solo prendendo la rincorsa per saltare più lontano. Per tornare ad essere le tigri celtiche del mito cantato e favoleggiato in ogni antica corte d’occidente.
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