"Placido Rizzotto sparì da Corleone il 10 marzo 1948. Aveva trentaquattro anni. Alle diciotto del giorno successivo, esponenti del Partito comunista denunciarono la sua scomparsa ricordando che era stato visto per l’ultima volta in paese intorno alle ventitré. Un mese prima, il sindacalista aveva difeso alcuni ex partigiani di passaggio a Corleone su un camion dell’Anpi. Un gruppo di ragazzi li aveva insultati e si era preso gioco di loro, dei nomi di battaglia, dei gradi rivestiti ai tempi della guerra civile. Rizzotto si era messo in mezzo e aveva cacciato i balordi. Quelli non l’avevano mandata giù: come si permetteva questo di mancarci pubblicamente di rispetto? Si erano allontanati per preparare un’imboscata ai danni dei partigiani. Avevano atteso il passaggio del camion in uscita da Corleone, ma anche lì furono affrontati a testa alta dal sindacalista. Volarono insulti, e nella successiva zuffa Rizzotto colpì un ragazzo con un pugno.
Tutti quei giovani erano riconducibili alla «scuderia» di Liggio, erano piccoli delinquenti che ambivano a grandi carriere criminali. Corsero dal giovane capo. Liggio li ascoltò e si imbufalì: aveva un prestigio da difendere, un nome da far rispettare. Nessuno doveva nemmeno permettersi.
Una settimana dopo la sparizione del sindacalista, «Chicco di fuoco» incrociò casualmente una pattuglia dei carabinieri e fuggì, per cominciare una latitanza quasi ventennale. Inizialmente non si mosse da Corleone. Era convinto che l’energia che le forze dell’ordine avrebbero messo in campo per ricercarlo si sarebbe presto esaurita, e il mistero sulla fine di quel sindacalista avrebbe avuto lo stesso destino degli altri morti ammazzati di Corleone: indagini archiviate senza un colpevole. La storia si sarebbe ripetuta, ciclica e identica. Del resto quanti delitti erano stati risolti in paese? Lo Stato metteva forse paura? Lui stesso, Luciano Liggio, era o non era il simbolo vivente di come a Corleone comandassero i corleonesi? E allora che venissero pure, carabinieri e poliziotti, si dannassero l’anima e sarebbe già stato un miracolo per loro aver salva la pelle.
Al caso di Placido Rizzotto vennero subito destinati uomini e risorse come mai era capitato per nessuna indagine siciliana del dopoguerra. Tutti i venticinque carabinieri della caserma del paese furono convogliati su quell’unica inchiesta, con gli altri fascicoli momentaneamente accantonati. Altri trentadue militari arrivarono di rinforzo dai vicini comuni di Contessa Entellina e Palazzo Adriano.
Da Palermo furono spediti anche un commissario di polizia, accompagnato da quattro agenti, e dodici ulteriori carabinieri. Il capitano Filippo Rosati fu richiamato d’urgenza da Caltanissetta dov’era di stanza: aveva già comandato la caserma di Corleone, conosceva il territorio, forse conservava ancora fonti confidenziali. Avrebbe potuto essere prezioso.
Eppure l’impegno non sortì effetto. I carabinieri e i poliziotti si trovarono in mano una lista di nomi, alcuni estranei a ogni accusa e altri forse colpevoli, ma senza uno straccio di prova che li inchiodasse.
Le profezie di Liggio sembravano avverarsi. Cercavano e cercavano, le forze dell’ordine, ma giravano in tondo. I partiti di sinistra e alcuni giornali rimarcavano gli insuccessi. Su Palermo si abbatteva la rabbia del Governo per la mancanza di risultati. Dai suoi rifugi sicuri «Chicco di fuoco» si teneva informato e godeva. Ma non aveva fatto i conti con uno sconosciuto: il capitano dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, che aveva assunto il controllo del Gruppo squadriglie di Corleone, ricevendo precise direttive dai superiori per «far luce sui gravi e numerosi delitti di sangue verificatisi negli ultimi anni e rimasti a opera d’ignoti». E, fra i delitti, «quello che maggiormente aveva impressionato l’opinione pubblica si riferiva al sequestro e alla successiva scomparsa di Rizzotto Placido di Carmelo…». Era stato un episodio che «andò via via acquisendo forme e reazioni, sia perché pur attraverso la diligente opera investigativa di precedenti funzionari non si erano mai potuti tradurre in concreto gli indizi allora raccolti a carico di determinate persone, sia perché il ritrovamento del Rizzotto, ovvero del suo cadavere, divenne vieppiù problematico con lo scorrere del tempo, sia infine perché la figura dello scomparso, quale segretario della Camera del lavoro e dell’Associazione nazionale combattenti e reduci, era circondata in luogo da simpatia e molta notorietà». Come si legge in queste parole scritte nel rapporto dello stesso capitano sull’omicidio del sindacalista, il caso Rizzotto aveva un’urgenza (per la notorietà della vittima, per il suo peso specifico all’interno della comunità di Corleone) ma era gravato dal bottino inconcludente dei predecessori di dalla Chiesa. Eppure lui arrivò fino in fondo. Da neofita di cose siciliane. Lo fece con un’indagine che, nella strategia e nella precisione con cui venne stilato il rapporto, ancora oggi, a quasi settant’anni di distanza, stupisce per qualità, compattezza e dono della sintesi."
Testo e foto da "Dalla Chiesa. Storia del generale dei Carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia", Andrea Galli, Mondadori 2017
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