martedì 2 settembre 2014

Frutta e verdura al veleno, dall’Aversano sulle nostre tavole

Nell’Agro aversano campano, 193 kilometri quadrati abitati da circa 270mila persone, la terra a confine con il “triangolo della morte”, come è stato definito anche dalla rivista scientifica The Lancet, di Nola-Acerra-Marigliano. E secondo uno studio dell’Istituto nazionale tumori “Fondazione Pascale”sull’andamento della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta, in quest’ultima si registra un incremento del 32,27% nelle donne e del 28,4% negli uomini. In provincia di Napoli, invece, si è arrivati al 40% nelle donne e al 47% negli uomini.
Acque di falda e terre inquinate, utilizzate per le colture agricole, crescono prodotti ricchi di metalli pesanti che finiscono sulla tavola delle nostre case: «Per obbligo di legge sui terreni dove vengono riscontrati scientificamente evidenti fenomeni di inquinamento non si possono coltivare prodotti a uso agroalimentare», spiega il dott. Antonio Marfella dell’Istituto Pascale. «Di fatto non esiste un solo metro quadro di terreno in tutta la regione Campania che abbia ricevuto l’inibizione all’uso agroalimentare o che sia stato realmente inibito. Ad esempio nell’agro aversano pochi mesi fa sono stati dichiarati da chiudere decine di pozzi utilizzati a scopo irriguo. Tuttavia nessuno è stato chiuso e nessuna attività agricola è stata sospesa».
Secondo Alessandro Gatto, presidente del Wwf Campania, che ha scritto al governatore campano Stefano Caldoro, «il territorio a nord di Napoli è pieno zeppo di tonnellate di rifiuti pericolosi per la salute dell’ambiente e degli esseri umani che ci vivono. Secondo le indagini degli inquirenti», sottolinea Gatto «questi territori costituiscono le localizzazioni più estese e più pericolose di tutta Italia». Solo nell’agro aversano e nel litorale domizio sono state individuate 163mila aree inquinate tra suoli, laghetti, cave, e invasi vari utilizzati come discariche abusive. «Il problema è che mancano discariche “ufficiali” in questo pezzo d’Italia», spiega Aurora Brancia, igienista industriale e ambientale. «In compenso sono massicciamente inquinati terreni, acque superficiali e di falda profonda». Mentre il dott. Marfella dell’Istituto Pascale sottolinea che «ad oggi si continuano a ricevere smaltimenti illeciti di rifiuti industriali. Non nella zona dell’agro aversano, in quanto fisicamente satura, ma nelle altre zone. Non ci sono controlli. La nostra salute è legata alla volontà dei camorristi che decidono o meno di sversare rifiuti».
È lungo l’elenco delle sostanze tossiche sotterrate nel terreno: polveri da abbattimento dei fumi dell’industria siderurgica e metallurgica, morchie oleose, ceneri da combustione di olio minerale, morchie di verniciatura, pitture e vernici di scarto ricche di solventi organici alogenati e non, inchiostri da scarto, fanghi da trattamento acque di processo e di acque reflue industriali, melme acide, fanghi di potabilizzazione e chiarificazione delle acque, e probabilmente, rifiuti radioattivi. «Con l’operazione Cassiopea gli inquirenti hanno rilevato la presenza di queste sostanze inquinanti», ha precisato Gatto di Greenpeace. «Purtroppo si è conclusa con un non luogo a procedere per i 95 imputati, per decorrenza dei termini».
Brancia definisce la situazione un risultato «terrificante e ancora misconosciuto». E aggiunge: «Sino al 1982 era normale seppellire i rifiuti industriali nel terreno interno allo stesso perimetro industriale. Inoltre, il progressivo abbandono delle terre coltivate, legato a motivi speculativi e all’inquinamento ha stroncato alcune colture più sensibili. Di fatto, si è diventata più semplice l’illegalità dello smaltimento, spesso appoggiata dagli stessi agricoltori dietro compenso economico». La contaminazione sembra senza soluzione di continuità in questi territori e ciò emerge chiaramente quando Aurora Brancia fa riferimento alle audizioni, presso la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse”, del colonnello Carlo Jean della Sogin, (società di Stato incaricata anche della bonifica ambientale degli impianti nucleari italiani, della gestione e messa in sicurezza di rifiuti radioattivi) si parla della presenza di solventi, «verosimilmente da verniciatura», a valle della Fiat di Pomigliano d’Arco e presso Acerra. L’agro aversano è a valle idraulico di questi posti, ossia l’acqua sotterranea dopo esser stata contaminata nel “triangolo della morte” scorre, sempre via sotterranea, fino a raggiunge il mare». Constata infatti che: «Nelle falde superficiali della zona di Acerra sono stati riscontrati di clorurati cancerogeni, non utilizzati nelle verniciature bensì nelle sgrossature dei metalli che si sgrassano con il tricloroetilene. Ovvero un cancerogeno che degradandosi dà luogo agli altri ancora più cancerogeni». La Fiat di Pomigliano d’Arco fa sapere che «Fiat non ha mai ricevuto contatti o richiesta  su tale vicenda di cui ne ignora totalmente i contenuti».
Ma se il fenomeno del contaminamento è così esteso cosa fare con il cibo? Risponde con queste parole Aurora Brancia, igienista industriale: «Non compro cavoli, verza, e carciofi perché in gran parte continuano a essere coltivati proprio nell’area agricola immediatamente a valle idraulica di questo triangolo della morte. Faccio eccezione per quelli di un mio cliente che li coltiva su un’area di cui ho analizzato (per questioni lavorative) più volte le acque di pozzo. In generale preferisco comprare alimenti solo se conosco i risultati delle analisi dei terreni di provenienza e delle relative acque». Ma non basta. «Evito le albicocche che in grandissima parte sono coltivate nella zona di terreno attorno alle ecoballe stoccate dal governo Berlusconi in prossimità dell’inceneritore di Acerra».
Secondo i dati Istat, nel 2011 nella sola provincia di Caserta, sono stati raccolti 107mila quintali di albicocche, quelle proveniente dai terreni attorno alle ecoballe, chi le ha mangiate? Vanno ricordate anche la coltivazione delle fragole di Parete, «coltura tipica del posto e abbondantemente esportata, che però si trova a pochi chilometri dall’area delle discariche pericolose di Giugliano», osserva Alessandro Gatto. In generale, dunque, che mercato ha l’ortofrutta di queste zone inquinate?
Il cibo diventa veicolo di contaminazione? Neanche coloro che coltivano ortaggi nel proprio orticello si possono dire al sicuro perché, pur non usando pesticidi, rimane il problema dell’acqua contaminata usata inconsapevolmente per irrigare. Forse, l’unica difesa possibile, data anche la mancanza di bonifiche, è quella che Aurora Brancia definisce «un trucco. Da anni lascio frutta e verdura, fuori dal frigorifero: se comincia da subito ad andare a male, a ingiallire o presentare delle macchie la mangio perché vuol dire che non ha troppo veleno per i batteri e quindi neanche per l’uomo, altrimenti la butto». E continua: «Scarto immediatamente le cose “abnormi”. Le sostanze chimiche se sono in eccesso provocano “mostruosità” nei frutti vegetali». Ma si può ancora salvare l’agro aversano? «Tecnicamente il discorso è lungo si tratterebbe di adottare azioni da ottimizzare nel medio lungo termine, nell’immediato è di fatto impossibile».   (Anna Simone)

http://infosannio.wordpress.com/2012/02/29/frutta-e-verdura-al-veleno-dallaversano-sulle-nostre-tavole/

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