[n p c i] Rafforzare il Nuovo Potere a fronte del potere della Repubblica Pontificia!
Per cambiare
il corso delle cose, bisogna passo dopo passo
rafforzare il Nuovo Potere a fronte del potere della Repubblica Pontificia!
rafforzare il Nuovo Potere a fronte del potere della Repubblica Pontificia!
A introduzione dell’argomento di questo Avviso
riportiamo da il manifestino dei lavoratori Piaggio del 18 agosto un
quadro sia pur sommario e parziale della situazione di alcune aziende
capitaliste a Livorno e provincia premettendo, a proposito proprio della Piaggio
di Pontedera (Pisa), quanto scrivemmo nel Comunicato CC
3/2014 del 21 gennaio 2014:
“Per cambiare il corso delle cose imposto dalla borghesia
imperialista non bastano le proteste e le rivendicazioni sindacali, anche se
sono condotte con autonomia e perfino in opposizione alla destra che dirige le
organizzazioni sindacali di regime. Le vicende vissute dagli operai della
Piaggio di Pontedera (PI) nel corso degli ultimi anni sono la dimostrazione più
chiara e lampante di questa verità: le RSU combattive sono ridotte a dover far
fronte al contratto di solidarietà per quasi la metà degli operai ancora
presenti, che oramai sono ridotti a circa un quarto di quanti erano solo alcuni
anni fa. Non bastano sovvenzioni e alleggerimenti fiscali a beneficio delle
aziende che i padroni vogliono ridurre, delocalizzare o chiudere. Bisogna dare
il via a una trasformazione generale del sistema di relazioni sociali del paese.
E il primo paese imperialista che lo farà, mostrerà la strada e aprirà la via
anche alle masse popolari degli altri paesi, che hanno bisogno anch’esse di
cambiare il corso delle cose”.
il
manifestino del 18 agosto
titola (fonte:http://www.ilfattoquotidiano.it)
Livorno, la “scomparsa” degli operai. La crisi
dell’auto colpisce al cuore la città
Non solo il crac della
sinistra battuta alle elezioni dal M5S, ma anche il declino della
componentistica auto. Qui nascono sterzi, serrature, impianti a gpl: ma in 6
anni si sono persi mille posti di lavoro. La storia-simbolo: Mtm, da 800 operai
al rischio chiusura.
Grazie al boom degli
ecoincentivi per auto ecologiche era arrivata a occupare nel 2009 oltre 800
operai: adesso è rimasta con 108 dipendenti in cassa integrazione e rischia la
chiusura. La storia è quella dello stabilimento Mtm di Guasticce (paese alle
porte di Livorno) specializzato nell’installazione di impianti a gpl sulle auto.
“L’azienda – racconta Simone Puppo, responsabile componentistica della Fiom –
non sembra vedere all’orizzonte prospettive di rilancio e potrebbe chiudere.
L’80 per cento delle difficoltà di Mtm sono legate al progressivo taglio degli
ecoincentivi”. Il mercato delle auto a gpl era stato “drogato” dai cospicui
incentivi stanziati nel 2009 dall’allora ministro allo Sviluppo economico
Claudio Scajola. “Non dobbiamo inoltre dimenticare – aggiunge il sindacalista –
che adesso la maggior parte delle case automobilistiche ha internalizzato
l’operazione di montaggio dei kit per il gpl. La crisi del mercato dell’auto ha
fatto il resto”. Ilaria Landi della segreteria provinciale Uilm conferma:
“L’azienda ci ha comunicato che a Livorno non ha più volumi: il futuro è molto
incerto”. Nei giorni scorsi è stato raggiunto l’accordo per la cassa
integrazione in deroga fino a fine agosto, con il rinnovo dei sussidi per un
mese. Ai lavoratori l’azienda potrebbe però anche proporre una mobilità
volontaria e incentivata. Le tute blu erano venute a conoscenza della gravità
della situazione a metà maggio, quasi per caso. “Mi dispiace che da lunedì non
porteremo più auto nella vostra fabbrica”, aveva dichiarato un camionista ai
lavoratori. A quel punto era iniziato un presidio permanente all’interno della
fabbrica. E ora il futuro dello stabilimento labronico resta assai incerto.
L’azienda ha sede a Cherasco (in provincia di Cuneo): circa 800 i dipendenti
occupati in Piemonte. Il timore di molti lavoratori livornesi è che Mtm voglia
definitivamente chiudere lo stabilimento di Guasticce per concentrare la sua
produzione nel quartier generale di Cherasco: “Questo non deve assolutamente
succedere”, dice Landi [quando c’è un appiglio per trasformare la
contraddizione tra lavoratori e padroni in contraddizione tra lavoratori, la
scuola UIL non si smentisce mai! - nota nostra]. Mtm si era insediata nella
periferia livornese nel 2008 avviando la produzione con una sessantina di
addetti. La manodopera – gran parte della quale assunta con contratto a termine
– era poi progressivamente lievitata (oltre 800 operai a fine 2009) per far
fronte al boom delle vendite di auto a gpl. Con la drastica riduzione degli
ecoincentivi è però di conseguenza arrivata la progressiva sforbiciata ai
contratti in scadenza e il successivo ricorso alla cassa integrazione. La crisi
della Mtm rappresenta solo la punta dell’iceberg nel panorama della
componentistica di Livorno, settore industriale su cui si fondava una buona
parte della manodopera nella città che ha già subito il “crac della sinistra”
(con il trionfo M5S): “Dal 2008 a oggi – spiega Puppo – abbiamo perso un
migliaio di posti di lavoro, circa un quarto dell’intera manodopera occupata nel
settore”. Nei mesi scorsi era stato l’assessore regionale al lavoro Gianfranco
Simoncini a chiedere al governo di riconoscere il polo produttivo livornese tra
le aree di crisi industriale complessiva.
L’esponente Fiom
traccia poi una rapida radiografia del comparto. La Trw fabbrica sterzi (“l’80%
della produzione riguarda Fiat”) e occupa al momento 420 addetti: “E’ dal 2008
che si fa ricorso agli ammortizzatori”. Alla Magna (serrature per Audi e Fiat) i
dipendenti sono circa 540: “La fabbrica ha vissuto in passato anni difficili. La
situazione è leggermente migliorata: nessun ammortizzatore sociale è al momento
aperto”. L’unico grande soggetto che non sembra aver risentito della crisi è la
Pierburg (l’azienda produce pompe olio e occupa circa 300 lavoratori): “Negli
ultimi tempi si è anche ricorso agli interinali”. Notte fonda infine per i 130
operai della ex multinazionale Delphi (nel 2006 gli allora 400 dipendenti furono
licenziati via e-mail) assunti a inizio 2010 da Gian Mario Rossignolo
(l’ex manager Telecom è stato poi arrestato
con l’accusa di truffa allo Stato nel 2012) per il progetto De
Tomaso. La fabbrica inaugurata nel marzo 2011 avrebbe dovuto sfornare auto di
lusso, ma non è mai entrata in funzione. I 130 ex Delphi sono in cassa
integrazione da otto anni, ma non ci sono imprenditori interessati a investire.
“Mi auguro che il sindaco Nogarin – conclude Puppo – incontri quanto prima le
organizzazioni sindacali: oggi si parla di tutto tranne che dei problemi della
componentistica”.
Uno sguardo anche alla
realtà portuale, settore fondamentale per lo sviluppo livornese che occupa
direttamente 1500 addetti (più circa 6500 lavoratori dell’indotto). La
situazione appare delicata: “Dal 2008 a oggi nessun posto di lavoro perso –
spiega Simone Angella, responsabile di settore della Filt-Cgil – ma il dramma è
stato evitato grazie a un ampio ricorso agli ammortizzatori sociali. I
lavoratori hanno pagato con le proprie tasche questa crisi”. Il lavoro sulle
banchine scarseggia: negli ultimi 5 anni si è perso il 25% del traffico merci.
La storica Compagnia portuale di Livorno (400 lavoratori) “usufruisce da almeno
cinque anni dei contratti di solidarietà”, mentre gli addetti Alp (unico
soggetto autorizzato dalla legge 84/94 sui porti a poter fornire manodopera
temporanea per far fronte ai picchi di lavoro) “effettuano soltanto 9 turni al
mese”. Secondo Angella il porto necessita di nuove infrastrutture: “Da questo
punto di vista siamo fermi da 10 anni. L’ultima grande opera realizzata nel
nostro scalo, la Darsena Toscana, risale alla fine degli anni Settanta”.
L’intero territorio
livornese non sembra ancora essersi ripreso dagli effetti della crisi. Secondo
recenti dati Istat il tasso di disoccupazione generale nell’intera provincia si
aggira intorno al 9% (tra i 15 e i 24 anni si sale al 30%). “La situazione –
taglia corto il segretario provinciale Cgil Maurizio Strazzullo – resta
drammatica. Abbiamo dovuto giocare in difesa per tentare di salvare quanti più
posti di lavoro possibili: purtroppo all’orizzonte non sembrano esserci nuovi
imprenditori”. La preoccupazione maggiore (“la vertenza madre”) è per le sorti
del polo siderurgico piombinese: in ballo circa 5mila posti di lavoro tra
diretti (Lucchini, Magona e Tenaris Dalmine) e indiretti.
Il settore su cui la crisi ha pesato maggiormente?
“L’edilizia: dal 2008 a oggi si è perso il 40% della forza
lavoro”.
David Evangelisti
La crisi generale del
capitalismo rende instabile in tutti i campi e in ogni paese il dominio della
borghesia imperialista e del suo clero; porta la borghesia imperialista e il suo
clero a condurre una guerra di sterminio non dichiarata contro le masse popolari
in tutto il mondo anche nei paesi imperialisti (il numero dei disoccupati, degli
emarginati e dei disperati aumenta in ogni paese); la crisi per sovrapproduzione
assoluta di capitale porta ogni capitale a doversi aprire il terreno per la sua
valorizzazione eliminando altri capitali. Questa guerra dei capitalisti contro
le masse popolari e dei capitalisti tra loro si traduce nella politica di
eliminazione delle conquiste politiche, economiche e culturali delle masse
popolari all’interno di ogni paese e nella politica di guerra a livello
internazionale: le relazioni politiche sono l’espressione concentrata delle
relazioni economiche.
I gruppi imperialisti
considerano tutto il mondo un terreno che deve essere aperto alle loro scorrerie
(il TTIP in gestazione rafforza questo stato delle cose). I magnati della
finanza, delle banche e dell’industria formano raggruppamenti, nazionali come
negli USA o regionali come in Europa, che dispongono dei governi e degli Stati
dei singoli paesi e con essi in ogni paese impongono i loro interessi alle masse
popolari e li fanno valere nel mondo.
In ogni paese le masse
popolari e tra esse la classe operaia si trovano in condizioni analoghe a quelle
di un paese occupato dallo straniero. Non una classe dirigente che per
raggiungere i suoi obiettivi (valorizzare il suo capitale) organizza e
riorganizza la vita della massa della popolazione realizzando un progresso
complessivo della sue condizioni rispetto a quelle preesistenti, per quanto
operi “con il ferro e con il fuoco” e facendo pagare un prezzo di sangue e di
sudore (nella sua fase di ascesa principalmente questo fu la borghesia). Ma un
dominio straniero che sconquassa ogni giorno di più e senza che se ne veda un
limite (che in effetti non c’è) le condizioni della vita della massa della
popolazione. Questa subisce perché non ha proprie istituzioni statali e sociali.
Per porre fine al degradarsi della sua condizione, deve quindi crearsele nella
lotta per liberarsi dall’occupante. Non si tratta di perseguire una maggiore
partecipazione delle masse popolari al governo dello Stato che domina nel paese.
Per sua natura è uno Stato nemico. Indurre le masse popolari a considerare lo
Stato borghese come il proprio Stato è la sostanza dell’imbroglio con cui i
borghesi paralizzano la lotta delle masse popolari, dell’opera della sinistra
borghese, della concezione e della linea dei riformisti (parlamentaristi o
conflittuali, pacifisti o armati [“colpirne uno per educarne cento”] che siano)
e dei revisionisti. Il corso delle cose prodotto dalla crisi generale del
capitalismo è tale che sia chiedere sia pretendere qualcosa dallo Stato borghese
porta fuori strada. Bisogna che le masse popolari creino un proprio Stato. Mai
come ora fu così radicalmente vera la tesi marxista che “lo Stato borghese si
abbatte, non si cambia: le masse popolari devono creare un proprio Stato”.
Questa lotta è
inevitabile ed è la rivoluzione socialista: la guerra popolare rivoluzionaria
attraverso la quale si afferma il Nuovo Potere. Essa avanza grazie al Partito
comunista che la promuove; che grazie alla concezione comunista del mondo sa che
è necessaria e possibile ed è capace di comprenderne le leggi, le condizioni e
le forme; che la propaganda e raccoglie e forma le sue forze perché combattendo
imparino a combattere; che coglie ogni situazione in cui lo scontro può
svilupparsi con successo, lo promuove, lo sostiene e lo dirige; che coordina lo
sviluppo di tutti gli scontri in modo che si combinino fino a comporre la guerra
popolare rivoluzionaria che instaurerà il Nuovo Potere. A grandi linee come
avviene in un paese occupato che l’occupante sottopone a saccheggio e
spoliazione. La lotta incomincia in tutti i punti in cui creiamo le condizioni
favorevoli, senza che la popolazione abbia una propria autorità generale già
affermata: il nemico ha istituzioni e forze armate, noi no, abbiamo solo il
nucleo promotore della guerra, il Partito.
Questa è quindi una guerra per il
progresso perché trasforma la società borghese secondo la linea che le è propria
raccogliendo e valorizzando tutti i suoi apporti storici. Ma è anche una guerra
che alle masse popolari è imposta perché la borghesia e il suo clero sono oramai
una forza di devastazione e distruzione senza fine: per le masse popolari è una
guerra per la sopravvivenza. Quanto celermente si estenda e rafforzi, dipende
principalmente dalle forze che via via siamo capaci di far scendere in guerra,
perché la borghesia e il suo clero (lo straniero occupante) quanto a loro non
possono che proseguire la spoliazione e il saccheggio. Lo devono fare per
perpetuare il loro sistema di relazioni sociali nonostante la crisi generale del
capitalismo: è la condizione della loro sopravvivenza.
Un nemico occupa
quindi il nostro paese anche se parla la nostra stessa lingua e se il suo potere
si avvale di istituzioni e di procedure di lunga tradizione. Esso non solo sta
distruggendo una dopo l’altra le conquiste che le masse popolari hanno strappato
nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria, nella prima parte del
secolo scorso, e crea così condizioni peggiori di quelle di un tempo perché le
vecchie condizioni di vita (in sintesi: l’economia di sussistenza e di vicinato)
non esistono più, ma spreme e schiaccia senza limiti una parte crescente della
popolazione e stringerà la sua morsa finché non glielo impediremo; sta
privatizzando, riducendo e peggiorando i servizi pubblici in cui si
concretizzava la civiltà raggiunta; sta riducendo o eliminando le aziende
lavorando nelle quali il proletariato riceveva il reddito di cui vive; sta
distruggendo per una parte crescente della popolazione i rapporti sociali
attraverso cui ricavava da vivere e la riduce alla disperazione. Il suo dominio
tuttavia si protrae nel tempo principalmente perché le masse popolari non hanno
già pronto un altro modo di associarsi e condurre la loro vita sociale e solo
secondariamente perché una parte delle masse popolari ha riserve che la
borghesia imperialista e il suo clero non hanno ancora spremuto.
Disperarsi? Limitarsi
a protestare e denunciare? No! Proprio la vastità delle distruzioni che il loro
dominio produce e il fatto che la distruzione anche se graduale procede senza
termine, creano le condizioni perché le masse popolari instaurino nuove forme di
vita sociale atte a garantire i servizi, la produzione, la distribuzione e gli
altri vari aspetti della vita sociale che la borghesia imperialista e il suo
clero non assicurano più. Fare la rivoluzione socialista vuol dire portare le
masse popolari a instaurare, anche se per forza di cose gradualmente e
incominciando ora qui ora là man mano che in quel punto si hanno le condizioni
favorevoli, ma con continuità e su scala crescente, relazioni sociali
(politiche, economiche e altre, della società civile) loro proprie, le cui
forme, a grandi linee, esistono già come presupposti del socialismo nella
società attuale. Vuol dire caso per caso mobilitare le masse popolari e portarle
a organizzarsi e gestire la propria vita sociale senza la borghesia imperialista
e il suo clero, contro di loro. Non è un’impresa facile a farsi, ma è un’impresa
possibile e necessaria.
Non instauriamo di
colpo, né sarebbe possibile instaurare di colpo un nuovo ordine sociale in forme
compiute e in tutte le ramificazioni che la vita sociale comporta. Ma diamo caso
per caso un corso diverso al disordine che comunque la borghesia e il suo clero
creano man mano che, spinti dalla crisi generale del capitalismo, distruggono il
vecchio ordine che si è formato nel corso della prima ondata della rivoluzione
proletaria; caso per caso preveniamo l’attacco della borghesia e del suo clero
quanto più siamo capaci di farlo, quanto più impariamo a farlo; caso per caso
approfittiamo delle condizioni favorevoli per indebolire la resistenza della
borghesia ai nostri attacchi e neutralizzare la repressione.
Un caso particolare
ad esempio di molti: un’azienda che il capitalista decide di
chiudere
Per esporre più chiaramente il concetto,
esaminiamo a modo d’esempio un caso particolare, un ben definito atto della
guerra di sterminio non dichiarata che la borghesia imperialista e il suo clero
conducono contro le masse popolari. Consideriamo un’azienda che il capitalista
decide di chiudere. Quello che diremo per il caso particolare preso in esame è
estensibile, con adattamenti, a tante altre situazioni reali che si moltiplicano
man mano che la crisi del capitalismo segue il suo corso: la chiusura di un
ospedale o di un scuola, la riduzione o eliminazione di un servizio, l’impiego
di edifici per abitazione o altri usi, la salvaguardia del territorio e
dell’ambiente, le bonifiche di edifici e di territori, ecc.
Per il capitalista la
sua azienda è la materializzazione del suo capitale, una forma del suo capitale.
Egli la computa in denaro e il sistema di relazioni sociali di cui è esponente
richiede che questo denaro generi nuovo denaro, si valorizzi. Un’azienda
capitalista che non produce profitti non può esistere e che una data azienda
produca o no profitti dipende principalmente dal corso generale degli affari.
Anche se produce profitti ma lo stesso capitale può produrne di maggiori
impiegato altrimenti (in particolare ora attraverso la speculazione
finanziaria), l’azienda per il capitalista è condannata.
Ma noi comunisti non
guardiamo all’azienda solo dal punto di vista del capitalista. Secondo la
concezione comunista del mondo la società è divisa in classi con interessi
contrapposti. Dal nostro punto di vista, un’azienda capitalista è almeno anche
altre tre cose:
1. è un centro di produzione di beni e
servizi per il resto del mondo, con specifiche competenze, conoscenze e
corrispondenti attrezzature, organizzazione e relazioni;
2. è un collettivo di
lavoratori oggettivamente costituito capace di una vita politica, sindacale e
culturale più o meno intensa (l’intensità dipende sostanzialmente dallo stato
generale del movimento comunista cosciente e organizzato, ma anche dalla storia
particolare dell’azienda e del territorio dove è ubicata, dalla coscienza e
volontà dei lavoratori);
3. può essere (e in
una certa misura comunque già è) un centro di riferimento, di orientamento, di
aggregazione, di organizzazione e di direzione per le masse popolari della zona
circostante (della lotta di classe e della loro vita, ha strumenti (locali di
riunione e altro) per esserlo: lo si è visto in casi di calamità naturali e di
altre vicende) e di connessione di questo con la lotta di classe dell’intero
paese.
Quando il capitalista
chiude la sua azienda, questo secondo la prassi vigente comporta che gli operai
e impiegati che vi lavoravano sono o licenziati con una liquidazione o
buonuscita, o messi in mobilità, o messi in CIG o una combinazione definita di
queste tre sorti (ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione). Viene
comunque meno il vecchio rapporto di lavoro, in cui i lavoratori diretti dal
capitalista producevano merci che il capitalista vendeva e in questo modo
valorizzavano il capitale che il capitalista aveva investito nell’azienda. È la
morte lenta a cui oggi nel nostro paese sono già sottoposte centinaia di
aziende; è la morte lenta che attende molte altre aziende se non cambiamo in
tempo il corso delle cose, se non preveniamo i padroni, se non passiamo dalla
difesa all’attacco.
Supponiamo ora che il collettivo
aziendale non accetti di sciogliersi, si impadronisca dei locali, del
macchinario, dei magazzini, che abbia la forza e la volontà per
farlo.
Basta questo per
continuare a produrre? Evidentemente no, occorrono un sistema di direzione, vie
di rifornimento (di materie prime, semilavorati, materiale ausiliario, pezzi di
ricambio, energia, ecc.), sbocchi per i prodotti, danaro liquido (quello che per
il capitalista è il capitale circolante). È pensabile di imporre alla pubblica
amministrazione e alle banche di fornire il circolante necessario per pagamenti
e acquisti, come ora sborsano le liquidazioni, gli assegni di mobilità e di CIG,
i vari ammortizzatori sociali. Quanto agli sbocchi per i prodotti, è pensabile
di imporre alla rete commerciale di assorbire i prodotti dell’azienda, di
ridurre la quantità prodotta se eccede il fabbisogno per il mercato nazionale e
per gli accordi di esportazione e importazione che si riescono a stabilire, di
impiegare il tempo di lavoro così liberato in altri lavori o per le attività
politiche, culturali e formative dei lavoratori. Un elemento della crisi
generale del capitalismo consiste nel fatto che il tempo di lavoro (la durata
della giornata lavorativa) che il capitalista impone e deve imporre al singolo
operaio (perché il suo lavoro sia produttivo di plusvalore per il capitalista)
moltiplicato per il numero di lavoratori disponibili (i proletari) è enormemente
superiore al tempo di lavoro necessario a produrre (con le forze produttive
attuali) i beni e i servizi che il mercato è in grado di assorbire (e anche i
beni e i servizi che entrano nel consumo dell’intera umanità, anche se questo è
valutato al livello necessario perché tutta l’umanità conduca una vita civile):
è la contraddizione tra il contenuto del processo lavorativo e la sua forma
capitalista. Che i lavoratori (e tutti gli esseri umani) dedichino una parte
crescente del loro tempo alle attività specificamente umane (alla politica, alla
cultura, alla ricerca, allo sport, alle attività utili alla formazione fisica e
spirituale di ogni individuo, alle attività necessarie perché la massa della
popolazione impari a organizzarsi e a pensare, ecc.) è incompatibile con il modo
di produzione capitalista (“perché insegnare filosofia a uno che farà lo
spazzino?”, esclamano all’unisono Letizia Moratti della banda Berlusconi e Luigi
Berlinguer del circo PD), ma è del tutto conforme ai presupposti del comunismo
già presenti dalla società borghese. Quindi che si riduca la produzione alla
misura del consumo o fabbisogno previsto e che i lavoratori si dedichino ad
altre attività, è un aspetto della ricchezza del futuro di cui la società
borghese ha creato i presupposti, benché sia cosa che può imporsi solo in lotta
con la prassi del capitalista (Marchionne ha ridotto le pause agli operai che fa
lavorare, gli altri li ha gettati sulla strada - Renzi sopprime i permessi
sindacali).
Ritorniamo ora al nostro collettivo
aziendale: cosa fa sì che abbia la forza e la volontà necessarie per non
lasciarsi sciogliere e per prendere in mano l’azienda, per imporre il suo ordine
nell’azienda sottratta al capitalista?
Il percorso e le
misure fin qui indicate che esso deve imporre non corrispondono a quanto la
borghesia e il suo clero vogliono, a quanto sono abituati a fare e far fare. Ma
dal punto di vista economico non lo contrastano più di quanto lo
contrastano il versare ammortizzatori sociali, l’occupazione di uno stabile
vuoto, le manifestazioni di strada e altre azioni che la borghesia e il suo
clero ingoiano. È dal punto di vista politico, dei rapporti di potere,
che lo contrastano radicalmente. Il percorso e le misure indicate fanno sorgere
un centro di potere antagonista a quello della borghesia e del suo clero. Si
creano due poteri antagonisti. È possibile?
Il collettivo di
un’azienda per avere la forza di seguire con successo la strada indicata deve 1.
essere abbastanza coeso al suo interno, capace di una volontà comune (quanto al
ruolo dell’azienda come centro di produzione nel contesto nazionale e mondiale e
quanto a quello che è in grado di realizzare in termini di protezione
dell’ambiente, gestione dell’energia e delle materie prime, ecc.) e 2. avere un
ricco sistema di relazioni e appoggi nel resto della società. Queste condizioni
si formano con lo sviluppo generale del movimento comunista, ma richiedono anche
nella singola azienda un lavoro preventivo, precoce e lungimirante, di
comprensione, denuncia e contrasto del percorso con cui il capitalista ha creato
le condizioni per chiudere l’azienda e di aggregazione organizzativa e
ideologica dei lavoratori.
Dove noi abbiamo la
forza (l’ascendente, il seguito, l’autorevolezza, le capacità) per fare esistere
tutto questo per quanto riguarda i lavoratori, quindi dal lato delle masse
popolari, dal lato della borghesia e del suo clero impedirlo e distruggerlo
imponendo il loro disordine (che ognuno si arrangi, liquidazione, CIG, sussidio
di disoccupazione, ammortizzatori sociali vari, ecc.) non è operazione semplice,
né è scontato il loro successo. Sono due poteri che si scontrano, ma in
condizioni in cui noi possiamo vincere se la coesione nel nostro campo è
sufficiente. La borghesia e il suo clero non sono un blocco unico: un
capitalista ha deciso che a lui conviene chiudere, ma il resto della borghesia e
del suo clero ha bisogno della collaborazione e dell’acquiescenza delle masse
popolari, queste se si organizzano autonomamente non hanno più bisogno della
borghesia e del suo clero; la borghesia e il suo clero dispongono di forze
armate formate ed equipaggiate per reprimere, ma metterle in moto presenta
alcuni rischi anche per la borghesia e il suo clero, la loro fedeltà e unità non
sono a tutta prova e il corso della crisi generale le mette a dura prova; la
borghesia e il suo clero dispongono di un ben rodato sistema di diversione e
divisione: sta al nostro campo mettere a punto le misure necessarie per farci
fronte e anche qui il fattore decisivo è la coesione del nostro campo, quindi
dipende da noi.
È chiaro che, salvo casi eccezionali, una
soluzione come quella descritta non può essere adottata e imposta solo per
azione di un singolo collettivo aziendale, come una nicchia, mentre il resto
della società continua il suo corso come niente fosse, né è in grado di
adottarla e imporla un collettivo aziendale che si pone il problema solo
all’ultimo momento, quando il padrone chiude. Ogni singola soluzione comporta un
rapporto di forza tra classi che implica, oltre a un certo livello di coesione
del collettivo aziendale, un sistema di relazioni del collettivo aziendale con
altri collettivi aziendali e con altri organismi popolari, il loro appoggio
all’azione del collettivo, per cui lo scontro delle istituzioni della borghesia
e del suo clero con il collettivo è scontro con una rete di organismi, è scontro
tra due classi.
Quindi per arrivare al
risultato illustrato, ogni collettivo aziendale deve organizzarsi al suo interno
al modo dei Consigli di Fabbrica di un tempo, gli operai più avanzati devono
costituirsi in organismi operai (OO). Ogni collettivo deve proiettarsi
all’esterno dell’azienda, usarla come centro di mobilitazione della popolazione
della zona circostante, spingerla a costituire organismi popolari (OP). Sulla
scala più larga, regionale e nazionale, le OO e OP devono stabilire relazioni di
solidarietà, di collaborazione, di scambio in ogni terreno, fino a costituire
una rete di istituzioni: le istituzioni locali del Nuovo Potere.
L’azione
descritta da parte del collettivo del caso preso ad esempio è per sua natura e
per la forza delle cose partecipazione al movimento per costituire un governo
d’emergenza dell’intero paese, il Governo di Blocco Popolare
che dia forza e forma di legge ai
provvedimenti che ogni particolare collettivo elabora e adotta, un governo che
faccia suo il programma riassunto nelle Sei Misure Generali:
1. Assegnare a ogni azienda compiti
produttivi (di beni o servizi) utili e adatti alla sua natura, secondo un piano
nazionale (nessuna azienda deve essere chiusa).
2. Distribuire i prodotti alle famiglie e
agli individui, alle aziende e ad usi collettivi secondo piani e criteri chiari,
universalmente noti e democraticamente decisi.
3. Assegnare ad ogni individuo un lavoro
socialmente utile e garantirgli, in cambio della sua scrupolosa esecuzione, le
condizioni necessarie per una vita dignitosa e per partecipare alla gestione
della società (nessun lavoratore deve essere licenziato, ad ogni adulto un
lavoro utile e dignitoso, nessun individuo deve essere emarginato).
4. Eliminare attività e produzioni
inutili o dannose per l’uomo o per l’ambiente, assegnando alle aziende altri
compiti.
5. Avviare la riorganizzazione delle
altre relazioni sociali in conformità alla nuova base produttiva e al nuovo
sistema di distribuzione.
6. Stabilire relazioni di solidarietà,
collaborazione o scambio con tutti i paesi disposti a stabilirle con
noi.
Con questo il
collettivo diventa per forza di cose un organismo politico, l’istituzione locale
di un nuovo potere, di un sistema politico antagonista a quello della Repubblica
Pontificia.
Il ruolo che il collettivo deve svolgere
comporta che esso abbia una capacità di gestione di rapporti interni (coesione,
disciplina, creatività, egemonia, ecc.) e di rapporti esterni (progettazione,
relazioni commerciali e altro) che non è patrimonio abituale dei lavoratori. Il
livello culturale e la capacità di coesione sociale e di organizzazione sono
molto cresciuti tra le masse popolari con la prima ondata della rivoluzione
proletaria; questo e il disastro che comportano le soluzioni che via via la
borghesia e il suo clero adottano (il corso delle cose che essi impongono) sono
fattori che favoriscono la soluzione che abbiamo illustrato. Tuttavia resta che
occorre una capacità di direzione, di organizzazione, di egemonia che non è
patrimonio corrente e che per far fronte con successo alle raffinate arti di
dominio di cui dispongono la borghesia e il suo clero le masse popolari devono
far tesoro della concezione comunista del mondo. Quindi accanto alla rete di OO
e OP e a loro promozione, supporto, orientamento e direzione deve formarsi la
rete dei Comitati di Partito (CdP). Essi uniscono, formano e danno forza e
capacità di azione sociale agli elementi più avanzati e generosi delle masse
popolari, disposti a compiere da subito volontariamente lo sforzo necessario per
trasformarsi, per compiere personalmente quella trasformazione della concezione
del mondo, della mentalità e in qualche misura anche della personalità con cui
il singolo individuo si ritrova formato dalla sua storia personale.
Per fare le rivoluzione socialista è
indispensabile che la parte più avanzata delle masse popolari si unisca e si
educhi, si formi e trasformi per essere capace di orientare e dirigere il resto
delle masse popolari: senza Partito comunista unito sulla concezione comunista
del mondo è impossibile fare la rivoluzione socialista.
La
rivoluzione socialista è il risultato sicuro dell’attività di un Partito che
applica nella lotta di classe la concezione comunista del mondo, che conduce la
lotta di classe con una comprensione abbastanza avanzata delle sue condizioni,
forme e risultati. La lotta di classe è, come ogni altra cosa, conoscibile e
comprensibile, quindi è possibile dirigerla. Non esiste niente che gli uomini
non sono capaci di conoscere e padroneggiare. Non esiste alcuno degli dei e dei
misteri di cui si ammantano i preti e a loro modo anche i borghesi e ogni classe
dominante: la forza di ogni classe dominante in definitiva sta infatti
nell’arretratezza e nella debolezza delle classi che non sono ancora capaci di
governarsi da sé, che hanno bisogno del suo dominio, che solo grazie alla sua
direzione riescono a produrre anche quello di cui esse stesse hanno bisogno e a
fare quello di cui esse stesse hanno bisogno. La classe dominante impersona
l’organizzazione sociale che la massa della popolazione non è in grado di darsi
autonomamente. La liberazione dall’oppressione di classe non richiede di patire
con gli oppressi, di condividere la loro pena, ma di insegnare agli oppressi a
organizzarsi, a ribellarsi, a combattere, a vincere e instaurare il
socialismo.
Saluti comunisti - Comitato Centrale del (n)PCI http://www.nuovopci.it
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