sabato 5 maggio 2012

LA RIVOLUZIONE QUALUNQUISTA

Un fenomeno politico molto italiano nato nel 1944 nella parte del Paese liberato
a metà. Autore: Guglielmo Giannini, commediografo. Il motto: “Abbasso tutti”
LA RIVOLUZIONE “QUALUNQUISTA”.
UN BOOM FINITO IN UN FLOP
di PAOLO DEOTTO
“Qualunquismo”: Movimento politico che prese nome dal settimanale L'Uomo Qualunque fondato a Roma nel 1944 da Guglielmo Giannini. In una più ampia accezione, il rifiuto di ogni qualificazione politica e di ogni impegno ideologico
Abbiamo tratto la definizione dal “Dizionario Enciclopedico Rizzoli” ed. 1995. Una definizione asettica, ma che ha già in sé stessa una nota di biasimo con quel “rifiuto di impegno”. Se poi dal dizionario della lingua italiana passiamo al “politichese”, troveremo sempre il termine “qualunquista” usato in modo decisamente spregiativo, per affibbiare all’avversario un’accusa, se non infamante come quella di “fascista”, comunque pesante e tale da additare al pubblico disprezzo. Il “qualunquista” è un uomo gretto, un egoista che pensa solo al proprio tornaconto, alla difesa dei suoi interessi. Ovviamente, con sì limitati orizzonti, non può essere né progressista né democratico.
Negli ultimi anni, ringraziando il Cielo, il clima politico e culturale è mutato: se una certa sinistra elitaria e radical chic è tuttora convinta di essere investita della missione divina di assegnare patenti di democraticità e progressismo, tuttavia trova sempre meno uditorio. E chi sulla sponda opposta cerca di imitarla nello stesso malvezzo, non trova miglior sorte.

Il gran rimescolamento avvenuto nel panorama politico italiano nell’ultimo decennio ha fatto nascere partiti e persone nuovi (sui quali ci asteniamo da ogni giudizio, non
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Il simbolo dell’Uomo Qualunque
essendo questo il luogo) e ha fatto cadere tante categorie precostituite, tante definizioni usurate dalla muffa di una ripetitività acritica, che serviva solo a soffocare il dibattito vero, costruttivo.
Tuttavia certe definizioni, ormai passate alla Storia, sono rimaste. E ciò è tanto più facile per chi, come il Fronte dell’Uomo Qualunque e il suo fondatore, Guglielmo Giannini, ebbero vita politica tanto intensa quanto breve. Sepolti nei ricordi (quanti, soprattutto tra i giovani, oggi saprebbero dirne qualcosa?), sopravvivono solo come fantasmi e sinonimi, come vedevamo sopra, di una negatività indeterminata, ma comunque di una negatività. Non abbiamo la pretesa di “render giustizia”; ma pensiamo che faccia parte del nostro dovere di storici rileggere con attenzione, come sempre attenendoci ai fatti, gli avvenimenti più significativi della Storia. Sarà poi il lettore a valutare.
Il 27 dicembre 1944 usciva a Roma un nuovo settimanale, intitolato “L’Uomo Qualunque”. Nell’Italia, ancora in guerra al Nord, la capitale era già stata liberata dagli Alleati dal 4 giugno e stava faticosamente riprendendo i suoi ritmi normali.
La ritrovata libertà di stampa, seppur esercitata con le autorizzazioni dell’amministrazione militare alleata, (che effettuava un controllo di merito e stabiliva le assegnazioni di carta) aveva consentito la nascita di numerose nuove pubblicazioni, quotidiane o periodiche, molte delle quali, sorte sulla scia dell’entusiasmo, non avevano però suscitato l’interesse del pubblico e avevano avuto vita breve o brevissima.

L’Uomo Qualunque” non fu tra queste: dopo una prima tiratura di diecimila copie, le pressanti richieste dei rivenditori obbligarono l’editore a stamparne subito altre venticinquemila, poi altre venticinquemila, fino ad arrivare, in tre giorni, alla vendita di ben ottantamila copie. Un successo che stupì lo stesso fondatore-editore e direttore del settimanale, Guglielmo Giannini, che nell’articolo di fondo spiegava:
Questo giornale non è organo di nessun partito. Le vere forze politiche italiane non si sono ancora rivelate, come non si sono ancora rivelate le ben più importanti e decisive forze politiche europee. Non esistono partiti, ma programmi, sui quali uomini volonterosi operano per formare dei partiti. Quei programmi sono tutti affascinanti; le idee dalle quali nascono sono tutte nobili… Libertà, prosperità e giustizia sono generosamente promesse da tutti e, in teoria, non c’è che l’imbarazzo della scelta del più virtuoso tra tanti partiti tutti ugualmente perfetti. In pratica assistiamo all’ignobile spettacolo di un arrivismo spudorato, al brulicare di una verminaia di ambizioni, a una rissa feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare il proprio comodo e i propri affari”.
“Questa rissa, cui l’Uomo Qualunque non partecipa, si svolge tra uomini politici professionali, che vivono di politica, che non sanno far altro che politica, e che, per ragioni di pentola, hanno trasformato la politica in mestiere… il fascismo, che ci ha oppressi per ventidue anni era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo abbiamo logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio che gli angloamericani gli hanno vibrato. L’antifascismo e il fuoruscitismo hanno fatto enormemente meno… antifascisti e fuorusciti erano e sono costituiti da ‘uomini politici professionali’ avversari e nemici degli ‘uomini politici professionali’ che costituivano il fascismo…


Circa le epurazioni, che facevano parte del programma del governo presieduto da Ivanoe Bonomi e costituito dai sei partiti del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale),
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Guglielmo Giannini in comizio
Giannini scriveva: “… il fascismo ha offeso e ferito tutta la massa degli italiani, non soltanto gli antifascisti e i fuorusciti. Sono i 45 milioni di esseri umani che hanno il diritto di fare giustizia, non una parte più o meno numerosa dei 10.000 politicanti ansiosi di rifarsi delle delusioni subite e delle occasioni mancate”. E infine chiudeva l’articolo di fondo con una dichiarazione di sfiducia verso tutti i politici:
“… da quasi mezzo secolo si vive nel nostro Paese una vita d’inferno a causa della gelosia di mestiere tra i politici d professione. Rivolte, attentati, scioperi, agitazioni, inflazione industriale,caro-vita, interventismo, crisi del dopoguerra, speculazione sulla crisi, fascismo, aventinismo, fuoruscitismo, dittatura, guerre per consolidare la dittatura, catastrofe per liberarcene, sono, per tutti gli italiani, conseguenze del rabbioso litigio fra i 10.000 pettegoli. Siamo finalmente rovinati: cos’altro vogliono da noi gli autori di tutti i nostri mali? Che sopportiamo altri esperimenti, che altri pazzi provino sulle nostre carni le loro teorie?… Noi non abbiamo bisogno che di essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici… (ci serve) un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi, né Croce, né Selvaggi, né Nenni, né il pio Togliatti, né l’accorto De Gasperi… (ci occorre) un buon ragioniere che entri in carica il primo gennaio e se ne vada al 31 dicembre e che non sia rieleggibile per nessuna ragione”.

La citazione è stata un po’ lunga, ce ne rendiamo conto, ma era necessaria perché in questo editoriale era condensata buona parte della ragione del grande successo della rivista settimanale “L’Uomo Qualunque”, che nella testata pubblicava quel disegno che sarebbe divenuto famoso: un ometto schiacciato da un enorme torchio, mosso da anonime mani e dalle cui tasche schizzavano fuori, nella stretta, le poche monetine che aveva.
Già il titolo della Rivista era quanto mai azzeccato: L’Uomo Qualunque era l’uomo della strada, il cittadino qualsiasi che aveva subito una guerra, non voluta e non sentita, che aveva assistito sconcertato alla caduta del Regime ad opera degli stessi fascisti (nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943), al ribaltone di alleanze, per cui i tedeschi da “camerati” e alleati erano divenuti nemici (e con quale ferocia). Poi questo cittadino qualsiasi aveva visto il suo Re scappare, seguito in vergognosa fuga dal Governo; se era sotto le armi, questo cittadino qualsiasi aveva accolto come una liberazione l’invasione da parte angloamericana del “sacro suolo della Patria” (basti ricordare il comportamento di tanti nostri reparti allo sbarco alleato in Sicilia…).
E poi ancora, erano risorti i personaggi rimasti per anni nell’ombra (o, peggio, rapidamente riciclatisi… ) che si erano autoeletti rappresentanti della nuova Italia libera. Il CLN, non scordiamocelo, non aveva alcuna base elettorale. In tutto questo sconvolgimento, avvenuto nell’arco di pochi mesi, il cittadino qualsiasi, l’uomo della strada, doveva lottare col quotidiano problema della sopravvivenza, in un Paese spaccato in due, in cui molte famiglie avevano subito lutti o ignoravano la sorte di congiunti dispersi, inquadrati in qualche reparto militare lasciato privo di direttive dopo il tragico 8 settembre del 1943.

Insomma, c’erano tutte le condizioni perché uno scontento generale superasse ampiamente la soddisfazione per la caduta della dittatura. Quanto alla guerra, se quella voluta da Mussolini non era mai stata amata dal popolo, l’ansia di partecipazione alla lotta contro i tedeschi a fianco degli angloamericani, espressa dal nuovo governo italiano, si traduceva nel fatto che per l’uomo qualunque la guerra continuava.
Giannini aveva dato voce, nel modo più diretto possibile, a quel coacervo di frustrazioni, risentimenti, stanchezza che agitava l’animo di una popolazione che desiderava solo una ripresa di vita normale. Le ottantamila copie vendute diventeranno, come vedremo, ben di più con i numeri successivi, finché addirittura l’Uomo Qualunque diventerà un partito politico, che per un breve periodo avrebbe dato non poche preoccupazioni ai partiti “di massa” (segnatamente democristiani e comunisti). Perché anch’esso fu, come vedremo, un fenomeno “di massa”. Ma non anticipiamo i tempi; vediamo piuttosto chi era Guglielmo Giannini.
Nato a Pozzuoli, presso Napoli, il 14 ottobre 1891, da madre inglese e da padre napoletano, il giornalista Federico Giannini, era stato da quest’ultimo introdotto alla professione, dopo aver esercitato i mestieri più svariati, da muratore a commesso. Da subito il giovane si era rivelato una penna brillante. A soli 19 anni iniziava le sue collaborazioni a diverse testate (il Giornale del Mattino, il Domani e altre), occupandosi soprattutto di cronaca mondana, con una prosa vivace che gli diede rapidamente popolarità.

Ma Guglielmo Giannini trovò le sue maggiori soddisfazioni nel campo dello spettacolo; infatti, dopo una lunga parentesi di vita militare (nove anni, tra guerra di Libia e prima guerra mondiale), si affermò come commediografo e regista cinematografico. Fu
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Il “fondatore” controlla
le bozze della rivista dell’UQ
anche autore (sotto lo pseudonimo di Zorro) di diverse canzonette di successo. Scrisse una cinquantina di commedie, “rosa” e soprattutto poliziesche; di quest’ultimo genere teatrale è considerato il creatore in Italia.
Costituì anche diverse compagnie teatrali, che rappresentavano le sue stesse commedie e per quest’attività ricevette i contributi del ministero della Cultura popolare. Questi contributi erano erogati a moltissime compagnie e furono l’unico argomento su cui si basò un processo di epurazione intentatogli nel 1945 e finito con un nulla di fatto. Peraltro Giannini fascista non fu mai; fu piuttosto, come lui stesso si rimprovererà, un “disimpegnato” che sopportò il fascismo, dedicando il suo ingegno, come abbiamo visto, allo spettacolo di intrattenimento, che d’altra parte era l’unico consentito dal regime, oltre ovviamente a quello apologetico, nel quale il futuro fondatore dell’Uomo Qualunque non volle mai mischiarsi.
Anche Giannini era un “uomo qualunque” quando il 10 giugno 1940 Mussolini prese la rovinosa decisione di entrare in guerra a fianco della Germania nazista; ormai troppo avanti negli anni per essere chiamato alle armi, la guerra lo colpirà in modo terribile, con la morte del figlio Mario (“una meravigliosa creatura d’amore… che cessò di vivere all’età di ventuno anni, undici mesi, ventisette giorni, nel pieno della salute e della bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice che egli cadde nell’adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra”).

Questa tragedia condizionerà tutto il resto della vita di Giannini, le sue scelte e i suoi comportamenti. Come egli stesso ebbe a scrivere, riferendosi ad alcuni tentativi di aggressione che aveva subìto da parte di avversari politici, finiti malamente per quest’ultimi, “doveva esserci qualcosa nella mia espressione che faceva capire che ero così disperato da non aver paura di nulla”.
E l’uomo qualunque Giannini viveva a Roma quando Mussolini venne licenziato ed arrestato, e quando i tedeschi, dopo l’otto settembre, occuparono militarmente la capitale. Sentendo nascere confusamente dentro di sé l’esigenza di “fare qualcosa”, aveva iniziato il giro dei vari partiti politici che venivano alla luce con la caduta del fascismo. Aveva corso i suoi non indifferenti rischi, collaborando, ancora sotto occupazione tedesca, alle pubblicazioni clandestine del Partito Repubblicano, che era quello a cui si sentiva inizialmente più vicino, data la sua netta pregiudiziale antimonarchica, che verrà rinforzata dalla penosa fuga del Re. Ma ancora Giannini non aveva una “sua” linea politica. Il desiderio era quello di “fare qualcosa”. “sarei entrato, per servire l’Italia, nel partito comunista, monarchico, repubblicano, democristiano, demolaburista, azionista, socialista, liberale, trotzkista, senza nessuna preoccupazione oltre quella di servire…
E in effetti Giannini iniziò una lunga peregrinazione tra tutti i partiti politici, conclusa con la massima delusione perché, a suo dire “dovunque mi sono imbattuto in gente vogliosa solo di essere deputato od altro. La più untuosa e ipocrita falsa modestia esala da moltissimi di questi uomini come un cattivo odore personale”.

Insomma, la ritrovata libertà era dai rinati politici colta come occasione non per servire la patria, ma per conquistare posizioni di potere. Al desiderio di “fare qualcosa” si
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Giannini parla al popolo
del nuovo partito
aggiungeva un disgusto per l’arrivismo dei nuovi politici, per la facilità di cambiar bandiera, e per quel clamoroso boomerang che furono, per i nuovi partiti antifascisti, i “processi di epurazione”.
E qui il lettore ci perdonerà se la nostra narrazione non scorre in modo lineare; ma la complessità del periodo che stiamo trattando ci impone qualche deviazione e digressione per chiarire gli argomenti che via via vengono in luce. Con la liberazione di Roma, i partiti politici riuniti nel CLN (comitato di liberazione nazionale) richiesero, in ciò appoggiati dagli Alleati, le dimissioni del governo Badoglio, considerandone esaurita la funzione, mentre Vittorio Emanuele III si ritirava dalla scena, con l’espediente della “luogotenenza del Regno” affidata al figlio Umberto. Il 18 giugno 1944 nasceva il governo presieduto da Ivanoe Bonomi, con la partecipazione di alcune personalità che avrebbero poi segnato profondamente la Storia del nostro Paese: De Gasperi, Saragat, Togliatti, Sforza erano ministri senza portafoglio.
Nel successivo Governo, sempre guidato da Bonomi, di più marcata impronta politica, troviamo Togliatti alla vicepresidenza, De Gasperi ministro degli Esteri, Gronchi all’Industria, commercio e lavoro. Infine, per il periodo che per ora ci interessa, il 21 giugno 1945 diviene presidente del consiglio un esponente di spicco della resistenza, Ferruccio Parri. De Gasperi e Gronchi mantengono i rispettivi ministeri, mentre Togliatti diviene ministro della Giustizia.

Con l’incarico di ministro per la Costituente entra al governo un altro importante personaggio: Pietro Nenni. I sei partiti del CLN (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito socialista italiano di Unità Proletaria, Partito Liberale, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione), uniti nella comune lotta al fascismo, divisi da profonde differenze ideologiche, concordavano però sulla necessità di “epurare” lo Stato dagli elementi maggiormente compromessi col regime fascista.
Parlavamo di “boomerang” perché l’epurazione da subito si palesò come un processo praticamente impossibile da attuarsi, anche per i differenti modi di intenderne l’estensione e gli obiettivi. Per le sinistre “epurare” voleva dire anzitutto abbattere l’alta borghesia capitalista, apoditticamente indicata come la maggior responsabile del fascismo, iniziando così una radicale trasformazione in senso classista della società italiana. Per i liberali e per buona parte della Democrazia Cristiana il rinnovamento della società passava anche attraverso l’epurazione, ma senza sconvolgerne quegli equilibri fondamentali ereditati dal vecchio stato prefascista.
Ma soprattutto “epurare” dopo un ventennio di dittatura, che aveva coinvolto profondamente tutto il Paese in un’identificazione del partito fascista con lo Stato, poteva portare all’assurdo risultato che tutti erano colpevoli e quindi nessuno lo era. Non si può scordare infatti che il regime fascista ebbe il suo apice di popolarità con la proclamazione dell’Impero, ma comunque aveva costruito pazientemente il consenso popolare negli anni, migliorando il tenore di vita generale.

Non solo, aveva anche dotato il Paese di un sistema previdenziale e assistenziale, dando agli italiani la sensazione (o l’illusione) di essere una grande popolo, temuto e stimato nel mondo. L’antifascismo restò sempre un fatto elitario e se questa constatazione può essere spiacevole, considerando che porta con sé inevitabilmente un’altra constatazione, ossia che il popolo italiano non pativa più di tanto il fatto di essere sollevato dal compito di pensare e decidere, è un dato di fatto che il fascismo fu abbattuto dai fascisti stessi (nella seduta del 25 luglio 1943 del Gran Consiglio del fascismo) e solo sulla spinta del disastro bellico in cui l’Italia si era cacciata.
L’epurazione fu così un processo parziale, capriccioso, che colpì soprattutto quei livelli più bassi della amministrazione pubblica, ossia quanti, privi di conoscenze e di benemerenze antifasciste di recente acquisizione, non erano stati in grado di rifarsi alla svelta una verginità politica. Anche nel campo della “avocazione dei profitti di regime” i nuovi governanti rimediarono magre figure, sia per l’esiguo numero di sequestri effettuati (334 su oltre tremila istruttorie aperte), sia perché i lavori della apposita commissione, presieduta da Carlo Sforza, conobbero il tipico fenomeno italiano dell’insabbiamento: in altri termini, nessuno infine voleva approfondire troppo un capitolo che aveva interessato troppi vecchi fascisti e nuovi antifascisti.

Per questi motivi parlavamo di “boomerang”: perché i partiti del CLN, oltretutto ancora privi di una legittimazione popolare (il primo test elettorale si sarebbe avuto solo il 2 giugno del 46, con il referendum e le elezioni per l’Assemblea Costituente) ottennero,
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Saggio sull’Uomo Qualunque
come solo risultato dell’epurazione, quello di suscitare scontento e sfiducia. La “Nazione del Popolo”, organo del CLN toscano, scriveva il 15 gennaio 1945: “… bisogna smetterla di prendersela quasi con predilezione con i manovali delle ferrovie, con i cantonieri stradali, con gli impiegatucci del ministero: il numero vastissimo di sospesi dal lavoro non ci soddisfa, né chiediamo di ampliarlo. Non è il numero delle vittime che chiediamo, ma la qualità di esse.
Non dateci trecentomila disoccupati in più: dateci tremila punizioni esemplari…”

In questo clima, ci è più facile comprendere i motivi del successo immediato che la rivista “L’Uomo Qualunque” riscosse. Giannini diceva, e lo diceva con irruenza, col gusto della provocazione che sempre caratterizzerà la sua prosa, quello che molti pensavano, ma che nessuno osava dire. Il fascismo, lo ha condannato la Storia, e l’infausta alleanza con Hitler mise Mussolini su una strada senza ritorno, in fondo alla quale non poteva esserci che la distruzione. Ma è anche il caso di notare che pure gli uomini che risorsero politicamente dopo la caduta del Duce venivano comunque da un ventennio in cui si erano formate consuetudini malsane, dalle quali non potevano essi stessi essere del tutto immuni.

Prima fra esse, era la consuetudine per cui il Potere restava un fatto di pochi, un’emanazione dall’alto, che il popolo non poteva che accettare. Questo distacco tra “Paese reale” e politica, che ancor oggi affligge la nostra Italia, ha radici antiche. Se il fascismo con le “adunate oceaniche” dava al popolo l’illusione di partecipare alla vita politica della nazione, non molto diverso era l’atteggiamento dei politici risorti alla fine della dittatura, che comunque sollecitavano il popolo a credere, obbedire, combattere e discutere il meno possibile. Certo, il tutto avveniva all’interno di una nuova dialettica, per cui i partiti erano tra loro in competizione e il rischio della dittatura era eliso dalla possibilità di ricambio.
Ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità elitaria, la convinzione di avere una Verità da dispensare, non erano mutati. Giannini cercò anche di inserirsi nelle redazioni dei nuovi giornali che andavano sorgendo o risorgendo, ma da tutti fu messo “con maggiore o minor cortesia” alla porta. Fu il suo amico Renato Angiolillo, proprietario del “Tempo” di Roma, a spiegargliene il perché e a dargli il consiglio giusto. In sostanza, nessuno voleva un giornalista che andava manifestando idee politiche in verità un po’ confuse, di sicuro non nostalgiche del passato regime, ma di sicuro ferocemente critiche del nuovo clima politico. L’editore che lo avesse assunto correva il serio rischio di vedersi sopprimere il giornale dopo poche uscite, di subire conseguenze giudiziarie o, molto più semplicemente, di vedersi tagliata l’assegnazione della carta. Non restava a Giannini che una soluzione: fare un proprio giornale. Meglio ancora, suggerì Angiolillo, sarebbe stato chiedere l’autorizzazione a pubblicare un giornale tecnico, che non avrebbe impensierito nessuno: un giornale di cinematografia, o di teatro, o di narrativa.

L’ufficio angloamericano di controllo sulla stampa era diretto dal giornalista italiano Ettore Basevi, al quale Giannini, testardamente, presentò dapprima richiesta di autorizzazione per pubblicare un settimanale politico dal titolo “L’Uomo della Strada”. E Basevi gli ripeté il consiglio di Angiolillo: “lei perde il suo tempo, per un settimanale politico non le daranno mai l’autorizzazione. Chieda di fare un giornale tecnico, lei è anche uno scrittore di novelle, di commedie, faccia qualcosa in quel campo”. Giannini si decise; chiese l’autorizzazione a pubblicare “La novella poliziesca”, un settimanale di racconti gialli; ma, affezionato comunque alla sua idea di un giornale politico, chiese in subordine anche l’autorizzazione a pubblicare “L’uomo Qualunque”, titolo che gli piaceva di più dell’Uomo della Strada.
E la sorpresa arrivò di lì a un paio di mesi. “La novella poliziesca” non poteva essere pubblicata perché, come Giannini apprese in seguito, un’autorizzazione per lo stesso titolo era già stata chiesta da altri; ma in compenso, probabilmente senza averne granché capito la natura, veniva autorizzata la pubblicazione del settimanale “L’Uomo Qualunque”. E si arrivò a 27 dicembre 1944: Guglielmo Giannini, fino a quel momento apprezzato commediografo e regista, stupiva l’Italia con un nuovo settimanale che si staccava dal coro di osanna alla risorta libertà e pubblicava tra l’altro, in prima pagina, la vignetta di un omino che sul fondo di un muro dove campeggiavano scritte del tipo ”Abbasso Mussolini”, “Abbasso Hitler”, “Viva Togliatti”, “Viva De Gasperi”, scriveva “Abbasso Tutti”.

Durante l’occupazione tedesca di Roma, Giannini aveva già delineato le grandi linee del suo pensiero scrivendo un libro, dal titolo “La Folla”, un curioso trattato di storia e politica, che si può trovare tuttora nelle librerie. In questo libro la “Folla” è la protagonista
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Un testo politico di Giannini
vessata e usata, in millenni di Storia contraddistinti solo dall’uso che i Capi, i Politici, per soddisfare la loro ambizione di potere, fanno della Folla, desiderosa solo di vivere tranquillamente, di lavorare, di godere un poco di benessere, di non essere seccata da nessuno. Il libro è da Giannini dedicato al figlio Mario, morto in guerra: “una meravigliosa creatura d’amore… che cessò di vivere all’età di ventuno anni, undici mesi, ventisette giorni, nel pieno della salute e della bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice che egli cadde nell’adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra”. Riportavamo già prima questa struggente dedica: la perdita del figlio indubbiamente rafforza quelle convinzioni sostanzialmente anarcoidi e libertarie che covavano in Giannini. La guerra (“con esclusione di quelle condotte da tribù per necessità di vettovagliamento e di bottino”) sono tutte definite da Giannini come un “affare dei Capi”, dai quali La Folla, sia che faccia parte dei vincitori, sia che faccia parte dei vinti, non ha da trarre nessuno utile; anzi, La Folla sacrifica la vita per le beghe e le liti tra i Capi.

Giannini demolisce così senza ritegno anche i miti più inossidabili della Storia patria, comprese le guerre risorgimentali e in particolare la Grande Guerra. Lo stesso irredentismo è dissacrato: “… la sconfitta, realtà per i Capi che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri jugoslavi non potrebbero esser venduti, perché nessuno li saprebbe leggere. Chi commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi.
Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore, nascerebbero dei bimbi che imparerebbero a parlare l’italiano con accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado… dall’Italia si continuerebbe ad andare in viaggio di nozze a Venezia, così come prima della guerra ci si andava dalla Jugoslavia. Gli sposi comprerebbero ricordi di Venezia con piacere e profitto dei venditori… Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe jugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cosa importa alla Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?…


Il primo numero dell’ Uomo qualunque riscosse il successo che vedevamo. E incassò anche il primo attacco feroce dall’Unità, con l’immancabile accusa: Giannini è fascista. Ma fu proprio un comunista, Celeste Negarville, che dopo un’inchiesta ordinata dal commissario all’epurazione, Grieco, escluse che al commediografo potesse essere seriamente mossa l’infamante accusa, che avrebbe comportato l’immediata radiazione dall’albo dei giornalisti, con la conseguente impossibilità a dirigere un giornale. Inoltre la legge prevedeva anche la possibilità della soppressione della testata incriminata di filofascismo. (e ci sia qui consentita una divagazione, non del tutto inutile, se si vuole capire Giannini e il suo tempo: l’ordine dei giornalisti fu lo strumento con cui il regime fascista esercitò il controllo sulla stampa; lo stesso strumento fu disinvoltamente usato in clima di diffuso antifascismo, sempre esercitare il controllo sulla stampa… )
La tiratura aumentava e con la fine di febbraio 1945 si arrivò al traguardo di duecentomila copie. Al boicottaggio di alcune associazioni di edicolanti, Giannini rispose invitando i lettori ad abbonarsi o a venire a comprare il giornale in redazione. Polemico con tutti, estroso, vivace, il commediografo napoletano vedeva la sua popolarità aumentare di giorno in giorno e non si può (nessuno è perfetto… ) dire che il successo, così veloce e comunque di dimensioni ben maggiori del previsto, non gli prendesse un poco la mano. Giannini criticava comunisti e socialisti perché li accusava di aspirazioni totalitarie, attaccava i liberali (pur riconoscendo in Benedetto Croce “un maestro”) perché avevano aderito alle leggi retroattive sui crimini fascisti e alla politica di epurazione.

Sparava a zero sui democristiani per la loro “acquiescenza” verso i comunisti, ma non risparmiava critiche neanche ai repubblicani, ricordando loro il periodo in cui flirtavano con Badoglio. Trasportato dall’onda del successo di pubblico, Giannini dimostrò anche la sua ingenuità, dicendo cose che tutti sapevano, ma delle quali era meglio non parlare. La
Il mercato nero
della carta era
alimentato
da una miriade
di riviste
semisconosciute,
ma “ortodosse”
vendita della carta per stampa era contingentata e quindi in molti si chiedevano: dove trova L’Uomo Qualunque tutta la carta necessaria per poter continuare ad aumentare la tiratura? Semplice, scrisse Giannini: “La compriamo al mercato nero”. E il mercato nero della carta era alimentato da una miriade di riviste semisconosciute, ma “ortodosse”, dirette da chi aveva i giusti appoggi politici. Il gioco era semplicissimo: la rivista che stentava a vendere un migliaio di copie aveva però assegnazioni di carta per venti o trentamila copie.
Sicché, stampava le sue mille copie per mostrare che esisteva e giustificare l’assegnazione successiva, e rivendeva a prezzo maggiorato la carta eccedente. Pubblicare le verità sgradevoli non è mai buona politica per chi vuole vivere in pace. Ma Giannini non voleva assolutamente vivere in pace e infatti iniziò una campagna di stampa che rischiò di segnare la fine prematura dell’ Uomo Qualunque. Il settimanale si schierò con decisione contro l’intervento degli italiani a fianco degli angloamericani: “… gli angloamericani non sono i nostri alleati, ma i nostri vincitori. Il soldato italiano, dopo aver combattuto per tre anni e mezzo con onore, non deve essere umiliato con l’incarico di portare le salmerie delle armate angloamericane…

Giannini aveva dato il destro a quanti desideravano mettere il bavaglio all’ Uomo Qualunque. E i guai infatti arrivarono, non dagli angloamericani, ma dagli italiani, come del resto aveva previsto lo stampatore – editore Umberto Guadagno. Il sottosegretario alla stampa, Libonati, ordinò al prefetto di Roma di sopprimere il settimanale. Libonati apparteneva al partito liberale ma agiva, come scrisse successivamente Giannini, “in spirituale concordia coi cameragni”. Sì, non è un errore di stampa, abbiamo scritto proprio “cameragni”: era uno dei tanti neologismi creati da Giannini, con l’unione delle parole “camerata” e “compagno”.
Ne coniò tantissimi e molti ebbero successo: così i democratici cristiani divennero i “demofradici cristiani”. Nenni, conterraneo di Mussolini fu battezzato “il romagnolo di turno”. I “cameragni” erano peraltro i seguaci del “comunfascismo” e il loro leader Palmiro Togliatti, serio, freddo, intellettuale, con atteggiamenti quasi sacerdotali, era “il pio Togliatti”. I nomignoli, insieme alle famose “parolacce”, con cui gratificava spesso i suoi avversari, (la più famosa delle quali fu “panscremenzio”) avevano caratterizzato lo stile unico dell’ Uomo Qualunque ed erano stati uno degli elementi del suo grande successo.
Ma ora, come dicevamo, erano arrivati i guai seri: il settimanale veniva soppresso perché ritenuto “insidioso per lo sforzo bellico della Nazione” e il direttivo dell’associazione della stampa deferiva Giannini alla commissione per l’epurazione.

Ritornava l’accusa di “fascismo”, in base alla discutibile equazione per cui Giannini, essendo contrario all’intervento di truppe italiane a fianco di quelle alleate contro i nazifascisti, era favorevole a quest’ultimi.
Era il 20 febbraio 1945. La grande avventura dell’ Uomo Qualunque era durata solo tre mesi e sembrava già terminata.
Ma l’aiuto arrivò a Giannini proprio da uno dei suoi più fieri avversari, da un uomo che non aveva mai nascosto la sua avversione all’estroso commediografo napoletano: l’avvocato Giovanni Selvaggi, esponente del partito repubblicano, antifascista da ben prima del 25 luglio 1943, che, nel clima avvelenato di quelle giornate, seppe dare una rara prova di lealtà e di libertà intellettuale

Un fenomeno politico molto italiano nato nel 1944 nel Sud appena liberato
dagli anglo-americani: un partito anomalo di enorme successo ma di vita breve
IL SENSO DEL “QUALUNQUISMO”
IN QUELL’ITALIA VUOTA DI FIDUCIA
di PAOLO DEOTTO
Abbiamo lasciato Guglielmo Giannini nei pasticci: deferito alla commissione per l'epurazione, il commediografo non poteva più dirigere un giornale. Il settimanale L'Uomo Qualunque era soppresso per la violenta campagna di stampa contro l'intervento italiano a fianco degli ex-nemici angloamericani. Insomma, la grande avventura del giornale che aveva suscitato scalpore in tutta Italia sembrava già finita. Fu l'avvocato Giovanni
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Guglielmo Giannini prima che
crollasse 'L’Uomo qualunque'
Selvaggi, repubblicano, antifascista non solo dopo il 25 luglio, a risolvere la situazione. Come Giannini stesso ci racconta nelle memorie che pubblicò, pochi mesi prima di morire, sul settimanale "Oggi", quando si recò nello studio di Selvaggi questi gli chiese di portargli in lettura tutti i numeri dell'Uomo Qualunque. Se non avesse trovato nulla che giustificava il provvedimento di soppressione, avrebbe preparato il ricorso al Consiglio di Stato.
Contrariamente, lo avrebbe indirizzato ad altri colleghi avvocati. Selvaggi infine decise di assumere la difesa di Giannini e presentò il ricorso. Nel frattempo la soppressione del settimanale aveva suscitato ampie critiche non solo da parte del pubblico, ma anche da molti giornalisti e politici che, pur avversari di Giannini, ne avevano preso le difese. Infatti la soppressione dell’ Uomo Qualunque, che non poteva certo essere accusato di propaganda nostalgica, non si giustificava, nel rinnovato clima di libertà di stampa, se non per un motivo: Giannini, nel suo abituale stile, irruente e volutamente irrispettoso di tutti e di tutto, aveva detto a voce alta un’altra delle verità che si potevano, al più, sussurrare, ossia che l’intervento militare italiano a fianco degli Alleati era tutt’altro che popolare. E questa era stata la buona occasione per far pagare il conto all’uomo che era la “stecca” nel coro di osanna, che si definiva “antiantifascista”, che soprattutto dava voce ad un serpeggiante sentimento popolare di insofferenza al “regime del CLN”.

Giovanni Selvaggi era una voce autorevole e un ottimo avvocato: il Consiglio di Stato accolse il suo ricorso, ordinando la sospensione del provvedimento prefettizio. La commissione di epurazione giornalistica si tolse l’ultima “soddisfazione”, sospendendo per un mese Giannini dall’Albo. Il mese peraltro era già trascorso nelle more del ricorso al Consiglio di Stato e così Giannini poteva a pieno titolo riprendere la direzione dell’Uomo Qualunque. Non lo fece, come spiegò lui stesso polemicamente, perché non voleva fare il direttore “col permesso della commissione di epurazione”. Il settimanale riprese le pubblicazioni sotto la direzione (ovviamente alquanto formale) del fedele amico Giuseppe Russo, il vignettista che si firmava con lo pseudonimo di Girus, mentre Giannini si qualificava nella testata come “fondatore”.
La soppressione della testata, il vespaio di polemiche, la vittoria al Consiglio di Stato, patrocinata da una delle voci più illustri dell’antifascismo, tutto contribuì, se ancora ve n’era il bisogno, a far salire alle stelle la popolarità di Guglielmo Giannini.
Il 25 aprile 1945 il settimanale riprese così regolarmente le sue pubblicazioni, arrivando in poco più di un mese a stabilizzarsi sulla tiratura, eccezionale per l’epoca, di 780.000 copie. Giannini ormai era un fenomeno nazionale riconosciuto e sulla sua redazione non solo piovevano le lettere di consenso dei moltissimi che si riconoscevano “uomini qualunque”, ma incominciarono anche a piovere i finanziamenti di quanti vedevano nel commediografo napoletano l’unica genuina voce di dissenso, e di possibile “diga”, alla politica del CLN.

Dobbiamo infatti soffermarci un attimo a considerare il momento storico assolutamente particolare che stava vivendo l’Italia. La fine delle ostilità, col crollo della Germania e la resa delle residue forze fasciste della Repubblica sociale Italiana aveva evidenziato come la spaccatura tra le due Italie fosse profonda. Nel Sud, liberato già dal giugno del 44 dalle truppe alleate, la vita aveva ripreso in modo quasi regolare e l’attività partigiana era stata pressoché inesistente, mentre al Nord l’attività delle bande della Resistenza, seppur inconsistente dal punto di vista militare, era stata intensa e si era caricata di una valenza politica rivoluzionaria, dalla quale non andavano del tutto esenti nemmeno le componenti democristiane della resistenza.
E ciò era tanto più vero considerando che il maggior apporto alla Resistenza, indipendentemente da ogni giudizio politico e sulle reali finalità perseguite, era stato dato dalle formazioni comuniste, che avevano avuto più caduti di tutte le altre e che più delle altre non si battevano unicamente per liberare l’Italia dai nazifascisti, ma anche per un esplicito progetto di rifondazione dello Stato.
Fu Pietro Nenni a coniare la famosa frase “vento del Nord”, che stava a significare quel vento di rinnovamento rivoluzionario che avrebbe cambiato l’Italia, considerata ancora legata, dopo la caduta del fascismo, ai vecchi schemi dello stato liberale, con quanto esso comportava soprattutto in termini di rapporti sociali ed economici.

Lo stesso Don Luigi Sturzo, non certo sospettabile di filo–marxismo, preconizzava (in termini, in verità, un po’ confusi) che la “classe operaia sarebbe stata la classe guida del rinnovamento, così come la borghesia era stata l’artefice del rinnovamento della
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Alcide De Gasperi
rivoluzione francese”. Ma al “vento del Nord” si contrapponeva ora, con il Paese di nuovo unificato, il “vento del Sud”, quello della ripresa lenta e graduale, del ritorno alla normalità senza atti rivoluzionari. Infine non si dimentichi che l’Italia era comunque un Paese occupato, sotto tutela del Governo Militare Alleato, e che faceva parte della zona di influenza occidentale, salvo le contese, tutt’altro che risolte, sui territori di confine con la Jugoslavia, ossia con l’area di influenza sovietica.
La divisione profonda del mondo, che già si era ben definita nell’ultimo anno di guerra, tra area sovietica ed area occidentale a guida americana, si rifletteva ora nel nostro Paese, sia per le diverse componenti del CLN, sia per la particolare posizione geografica dell’Italia.
Il 21 giugno 1945 Ferruccio Parri assumeva la guida di un governo allargato a tutti i partiti del CLN (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito socialista italiano di Unità Proletaria, Partito Liberale, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione) e da subito la vita di questo ministero fu travagliata.

Non a caso il governo Parri durò solo sei mesi: composto da partiti tra di loro profondamente diversi, ora che era cessata l’emergenza bellica contro il comune nemico nazifascista, espresse una politica oscillante tra i toni rivoluzionari tonitruanti (molto più degli azionisti e dei socialisti; i comunisti erano guidati da un uomo, Togliatti, astuto e prudente), quelli moderati dei liberali e quelli difficilmente comprensibili dei democristiani, il cui leader, De Gasperi, appoggiava (a parole) il progetto dei consigli di gestione delle fabbriche, di ispirazione sovietica, ma nel contempo non nascondeva il suo anticomunismo e il suo riferimento ideale alla dottrina sociale della Chiesa.
La politica epurativa nell’Italia unificata non fu diversa da quella già iniziata l’anno precedente dai governi del Sud. Caddero poche teste e le meno importanti, si salvarono e spesso si riciclarono brillantemente gli opportunisti e i voltagabbana. In più, ad aggravare la situazione di smarrimento, aveva concorso l’attività dei vari “tribunali popolari”, ai quali gli Alleati, abbastanza cinicamente, avevano lasciato libertà di manovra per qualche settimana successiva alla Liberazione, sufficienti per celebrare processi senza reali garanzie di difesa, seguiti da frettolose fucilazioni, il cui preciso numero non fu mai determinato, ma fu comunque nell’ordine delle diverse migliaia. Infine, strascico inevitabile di ogni dopoguerra, una delinquenza comune scatenata era difficilmente contrastata da forze di polizia anch’esse ovviamente colpite dal disastro bellico, disorganizzate, senza mezzi e con scarsità di uomini.

Insomma, l’Italia liberata e riunificata era tutt’altro che un’Italia pacificata e indubbiamente l’uomo della strada, che doveva lottare con concreti problemi quotidiani di sopravvivenza, di coabitazioni forzate per il gran numero di case distrutte dai bombardamenti, di disoccupazione, si sentiva lontano mille miglia da una risorta classe politica che appariva più impegnata a discutere dei massimi sistemi che a provvedere ai concreti bisogni popolari.
A sua volta la grande borghesia industriale, che pur aveva saputo fiutare in anticipo il cambio del vento (significativo, ad esempio, fu l’apporto dato alla Resistenza dal dominus della Fiat, Valletta), si sentiva minacciata dai grandi progetti di rivolgimenti sociali che i partiti di sinistra progettavano, preconizzavano o minacciavano. Esisteva anche, ma non aveva obiettivamente un vero peso, né rappresentava una reale minaccia di restaurazione, il gruppo dei fascisti “irriducibili”, (Quelli rappresentati dai vari Pisanò, Leccisi, Almirante), impossibilitati ad avere una pubblica espressione politica, ma esacerbati da una sconfitta le cui ferite erano ancora aperte e sanguinanti.
Potremmo insomma dire, senza tema di esagerazioni, che era l’Italia degli scontenti. Gli operai del Nord, protagonisti dei primi, veri scioperi politici ancora sotto occupazione tedesca, vedevano la promessa rivoluzionaria “ammortizzata” nella collaborazione con democristiani e liberali da parte di quegli stessi che si proponevano come leader rivoluzionari.

La piccola borghesia e quella parte di classe operaia che non si riconosceva nel marxismo non comprendeva la collaborazione democristiana coi marxisti. La parte più elitaria del Paese, intellettuali, borghesia industriale, classi più agiate, tendenzialmente
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Ferruccio Parri (in secondo piano)
portata verso il risorto partito liberale, non comprendeva la partecipazione di questo partito a quell’esarchia del CLN che sempre più appariva come un magma, aggravato dalla mancanza di una reale rappresentatività, derivante dal fatto che non si erano ancora tenute libere elezioni.
Abbiamo voluto soffermarci su questo quadro dell’Italia dell’immediato dopoguerra perché più facilmente comprenderemo come il grido di “abbasso tutti”, lanciato l’anno precedente da Guglielmo Giannini, avesse trovato un ancor più ampio uditorio nel Paese riunificato. Inizialmente dalle colonne dell’Uomo Qualunque Giannini aveva salutato la nascita dei “nuovi politici” del Nord, diversi dai profittatori e dagli “u.p.p.” (uomini politici professionali) del Sud. Vedeva in essi la nuova guida del Paese:
“ …professionisti, i mestatori, gli speculatori del politicantismo erano tutti a Roma…in Alta Italia erano rimasti quelli che volevano far seriamente le cose; ed ecco perché mentre a Roma la politica si è impantanata nella farsa, nel Nord ha avuto bagliori di tragedia. Tre giorni di vera epurazione nell’Italia settentrionale hanno spazzato via più fascismo di quanto, in tanto tempo e con tanta fatica e spesa, non ne ha disturbato il complicatissimo organismo sedente a Roma…

Ma la fiducia entusiastica negli uomini del Nord fu di breve durata. Così come dopo la liberazione di Roma Giannini aveva fatto il giro di tutti i partiti politici, ricavandone solo delusioni, ora dopo la liberazione nazionale sterzava bruscamente dalle sue iniziali lodi e tornava agli abituali toni sarcastici:
“Dopo l’entusiasmo della Liberazione subito la miseria morale dei soliti ometti in cerca di stipendio ci ha violentemente richiamati alla realtà… un gruppo di energumeni ha cominciato a strillare le solite cretinissime formule, a minacciare i soliti finimondi, rivendicando la rappresentanza esclusiva del solito popolo e delle solite masse, se non addirittura di tutta l’Alta Italia; e pretendendo di parlare a nome di milioni di innocenti che non hanno invece aperto bocca… sul disordinato corale, quattro sole parole si sono udite distintamente: ORA TOCCA A NOI. E questo, con buona pace di Nenni che lo chiama vento (del Nord, N.d.R.), di Pacciardi che lo chiama sospiro, è il rutto del Nord”.
Pur nel suo confusionismo, Giannini non rinunciava però a cercare un riferimento politico e il più naturale gli sembrava il Partito Liberale. Le sue posizioni erano in fondo, in parte, di liberalismo puro e assoluto, immaginando uno Stato che non fosse altro che quel “governo del buon ragioniere” invocato dai primi numeri dell’Uomo Qualunque. Intanto dalle colonne del settimanale sferzava anche la borghesia, capace di aver creato l’industria e quindi il lavoro in Italia, invitandola a riprendere il suo ruolo, senza pavide attese per capire che vento tirasse.

Un incontro con Benedetto Croce, che considerava “maestro”, lo deluse però profondamente, per le posizioni elitarie espresse dal filosofo, mentre lui, Giannini, si sentiva ormai portavoce di una grande massa di individui, appunto di tutti gli uomini “qualunque” che non fanno politica, che vogliono vivere in pace e lavorare in pace. Maturavano le condizioni per compiere il passo che avrebbe portato in poco tempo agli Altari e poi nella polvere l’Uomo Qualunque, ossia la trasformazione di quello che ormai era un movimento di opinione espresso dal settimanale, e successivamente anche dal quotidiano Il Buonsenso, in partito politico.
Sollecitazioni in tal senso erano pervenute a Giannini dai suoi lettori e dai suoi molti ammiratori, anche se già la creazione di un Partito, era, a ben guardare, una contraddizione in termini, perché Giannini aveva riscosso tanto successo proprio criticando tutti i partiti e la stessa “politica dei partiti”, invocando lo “stato ragioniere”, rifiutando quello “Stato etico” che, in base alle ideologie, espresse dai partiti, pretende di creare una morale e una direttiva di vita per i cittadini. Lo stesso commediografo era perplesso, perché conscio che il suo mestiere era quello di scrittore e di commediografo, non certo di leader politico. Ma i suoi inviti a Vittorio Emanuele Orlando, poi a Bonomi e successivamente a Nitti, affinché si mettessero alla guida del nuovo Partito, caddero nel vuoto. E così l’8 agosto 1945, con un articolo dal pomposo titolo “grido di dolore”, Giannini annunciò la fondazione del nuovo partito politico:

Cari amici, credo sia giunto il momento di dare una struttura non più solamente giornalistica alla CORRENTE DELL’UOMO QUALUNQUE, che il nostro giornale non ha
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Achille Lauro
creata, ma innegabilmente ha rivelata. Per la pace della mia coscienza, debbo ripetere quanto ho scritto più volte: né io, né nessuno dei redattori e collaboratori che mi onorano desideriamo diventare ministri, sottosegretari, deputati, sindaci, consiglieri comunali e altro del genere… il “grido di dolore” che da ogni parte d’Italia si leva verso l’Uomo Qualunque non può più essere inascoltato… bisogna fare qualcosa, e dunque facciamola”.
“… Abbiamo già un punto sul quale siamo tutti d’accordo ed è questo: VOGLIAMO VIVERE IN PACE E LIBERAMENTE, NELLA MAGGIORE E MIGLIORE PROSPERITÀ, AMMINISTRATI DA UN GOVERNO CHE CI DIA I PUBBLICI SERVIZI NECESSARI, CI FACCIA RITROVARE LA VOGLIA DI LAVORARE GARANTENDOCI LA SICUREZZA DELLA VITA E DEI BENI, E NON CI ROMPA I CORBELLI OBBLIGANDOCI A PENSARE SECONDO QUESTA O QUELLA DOTTRINA POLITICA…”
Il “programma” del nuovo partito era abbastanza vago, ma la sua forza iniziale stava proprio in questo: l’Uomo Qualunque si presentava di fatto come un contenitore dove poteva stare di tutto, dove potevano trovare spazio persone con le idee più diverse, accomunate però da quell’innegabile disagio che percorreva la vita nazionale.

Parliamo di forza “iniziale” perché, come vedremo, questa sarà anche la debolezza intrinseca del partito, che prenderà il nome di Fronte dell’Uomo Qualunque e che sarà una vera meteora nel panorama politico italiano.
Una delle principali, e fondate, critiche che l’Uomo Qualunque rivolgeva ai partiti del CLN era la loro mancanza di rappresentatività; proprio a sottolineare invece il carattere ultra democratico del Fronte, Giannini invitò i suoi lettori e ammiratori a costituire spontaneamente ovunque i “nuclei”, ossia la struttura di base. Bastavano da cinque a cinquanta persone per costituire un “nucleo” del Fronte dell’Uomo Qualunque: a una settimana dalla pubblicazione del “grido di dolore” le strutture di base, che eleggevano al loro interno i capi, erano già oltre duemila, sparse per tutta Italia. Il successo del nuovo partito era, come quello del settimanale, travolgente.
Ma un partito deve avere di norma una linea politica e l’estrema vaghezza del messaggio qualunquista fece sì che da subito i vari nuclei sparsi per il Paese esprimessero le posizioni più diverse, ma che tutte comunque potevano trovare un appiglio con quel messaggio di Giannini, che si poteva definire un mix di liberalismo, antifascismo, anticomunismo, antinazionalismo, anarchismo, e altro ancora, il tutto unito dalla comune protesta contro le condizioni generali del Paese e contro la nuova classe politica al potere.

Da quanto finora abbiamo visto, appare chiaro che Guglielmo Giannini era soprattutto un passionale che aveva saputo, con l’istinto dell’uomo di teatro, capire e interpretare sentimenti diffusi. Del resto lo stesso Giannini non aveva alcun timore nell’esprimere con la stessa veemenza concetti opposti. Il suo odio per la guerra faceva a pugni con la sua iniziale ammirazione per gli “uomini del Nord”, che la guerra partigiana l’avevano fatta. Il suo irridere al concetto di patria e di nazione cozzava contro le sue frequenti richieste di ridare dignità alla “grande, comune Madre, la nostra Italia”. E potremmo trovare molte altre contraddizioni, forse più apparenti che sostanziali, perché un messaggio di fondo il qualunquismo comunque l’aveva; ed era il reclamare il diritto del cittadino a vivere in pace la sua realtà quotidiana.
Detto così, il messaggio sembra banale; non lo era, se consideriamo che il Paese usciva disastrato dal ventennio di totalitarismo e paventava di entrare in altre forme di totalitarismo. Una sciagurata e lunga esperienza di Stato-Partito, il fascismo, che entrava in tutti gli aspetti della vita economica, sociale, lavorativa, e anche privata, pretendendo di forgiare uomini e coscienze, non poteva che generare crisi di rigetto verso quanti altri, uomini o partiti, si ponessero a loro volta come portatori della Verità. Ed era facile affermare, con un battuta che era tale fino a un certo punto, che l’italiano, già oppresso da un partito (quello fascista), non voleva ora essere oppresso da sei partiti (quelli del CLN).

Ma torniamo alla nascita dei “nuclei”, che, come dicevamo, avvenne su base spontanea e con elezioni interne dei dirigenti. Si ebbe così un po’ di tutto, da nuclei rappresentati da monarchici, ad altri costituiti perlopiù da liberali, alle prime infiltrazioni dei neofascisti (privi ancora di un loro partito). Addirittura a Caserta un nucleo del Fronte dell’Uomo Qualunque elesse a suo dirigente un locale esponente comunista.
Giannini si rese conto che la “rapida, entusiastica autorganizzazione dell’Uomo Qualunque” era anche il suo punto debole e ben presto il “partito dei senza partito” si
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Palmiro Togliatti
sarebbe dato le strutture classiche di un partito politico, con tessere, distintivi, organi gerarchici e consiglio di disciplina. In un primo “bilancio dell’Uomo Qualunque”, pubblicato sul settimanale il 19 settembre 1945, Giannini ribadiva il grandissimo successo conseguito dal nuovo partito e anzitutto replicava all’inevitabile accusa di fascismo, col suo abituale stile irruente:
Noi non siamo fascisti, e lo dimostriamo – parlando chiaro come il fascismo non ha mai fatto – votando, come il fascismo non ha mai permesso – costituendo la nostra organizzazione DAL BASSO – come il fascismo non ha mai voluto e potuto fare! L’ultimo dei capi nucleo dell’U.Q. ha più autorità di Togliatti, di Nenni, di Carandini, di Cianca, di De Gasperi, di Ruini, CHE NESSUNO HA MAI ELETTI E NOMINATI e che non rappresentano che sé stessi. Il solo fascismo agente ed esistente in Italia è il loro…”

“Dunque, non spaventarsi dell’accusa di fascismo che oggi, come giustamente dice il ministro inglese Bevin, si muove contro chi non fa comodo; e a chi ci dà del fascista, dare del cornuto e del pederasta in legittima ritorsione d’ingiuria. E, potendolo fare senza inguaiarsi, rompergli la faccia di ebete e di figlio di puttana…

Quanto alla linea politica, Giannini ribadiva le sue simpatie per il liberalismo: “Noi abbiamo il più bello, il più nobile, il più ricco, il più collaudato programma politico: quello del LIBERALISMO, sfrondato delle sciocchezze dei nuovi e vecchi fregnoni del sedicente Partito Liberale Italiano, e, principalmente, ripulito di quella criminosa e infruttifera cretinaggine che è l’anticlericalismo di maniera, il laicismo parolaio e inconcludente”.
A Roma, dal 16 al 19 febbraio 1946, si svolse il primo congresso Nazionale del Fronte dell’Uomo Qualunque. Pur in una certa confusione, favorita da quello spontaneismo che aveva caratterizzato la nascita stessa del Partito, Giannini poté tracciare un bilancio ampiamente positivo sia dal punto di vista politico , sia dal punto di vista organizzativo. La sua azione politica, in poco più di un anno, aveva ridimensionato il potere del CLN, aveva, seppur in parte, contribuito alla caduta di Parri, messo alla berlina le intime contraddizioni dei democristiani e dei liberali.

Col Fronte avevano stretto patti di alleanza anche altri gruppi (il Partito Laburista, i gruppi monarchici del generale Bencivenga, persino l’Alleanza Democratica del socialista, ed esule antifascista, Antonio Labriola). L’Uomo Qualunque era il settimanale più diffuso d’Italia e dal 30 dicembre 1945 era affiancato anche dal quotidiano Il Buonsenso, nonché da una trentina di fogli locali. In concorrenza con la Democrazia Cristiana, Giannini ribadiva che “crediamo in un’etica e abbiamo una morale: l’etica, la morale cristiana, che vogliamo accettare e accettiamo dalla Chiesa Cattolica, maestra davanti alla quale vogliamo chinare e chiniamo umilmente il capo”.
Il motivo religioso si inseriva poi in un contesto europeista, di “abbraccio generale dei popoli europei”, auspicando la nascita degli “Stati Uniti d’Europa”, col ripudio del militarismo e dei nazionalismi, che avevano portato alle catastrofi di due guerre. Veniva ribadita la linea liberale, secondo la quale l’unica concessione da fare allo Stato era la gestione delle ferrovie, mentre per il resto l’iniziativa privata doveva essere libera da ogni vincolo.
Si avvicinava la data del 2 giugno 1946, quando gli italiani sarebbero stati chiamati alle urne, per la prima volta con suffragio realmente universale, per scegliere tra monarchia e repubblica e per eleggere i deputati dell’Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto elaborare il progetto della nuova Costituzione. Il 10 dicembre del 1945 Alcide De Gasperi aveva costituito il primo governo a guida democristiana, ancora sostenuto dai sei partiti del CLN.

La campagna elettorale fu lunga e drammatica, punteggiata da molti disordini di piazza e violenze fomentate dai comunisti che mostravano il loro doppio volto, di partito di governo e di organizzazione rivoluzionaria, che non aveva ancora smobilitato l’apparato paramilitare della guerra partigiana. Da parte sua la Democrazia Cristiana incentrò la sua
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Pietro Nenni
campagna elettorale in buona parte sull’anticomunismo, come risposta ai timori suscitati non solo dai tumulti di piazza, ma anche da quanto andava accadendo nell’Europa Orientale, dove nei Paesi occupati dalle truppe sovietiche si instauravano via via le “democrazie popolari”, eufemismo che stava ad indicare i regimi a partito unico comunista.
In questo strano clima politico, con i due principali partiti di governo che si combattevano tra di loro, Giannini affrontò la campagna elettorale con il suo consueto impeto: famoso restò un suo comizio ad Avellino dove, fischiato dalla folla comunista che aveva riempito la piazza per impedirgli di parlare, rispose con la frase “razza di cretini, prima lasciatemi parlare, poi deciderete se fischiarmi”. Tenne duro per venti minuti, poi la folla dei contestatori si stancò, mentre lui, imperterrito, proseguiva il suo discorso per la prevista durata di un’ora.
I risultati del 2 giugno videro, come noto, la vittoria di misura della Repubblica (che si affermò con 12.717.923 voti, pari al 54,3%). All’Assemblea Costituente la DC , con 8.080.664 voti (pari al 35,2%), ottenne 207 seggi. I comunisti ebbero il 19% dei voti (4.536.686) e 104 seggi, di poco superati dai socialisti, che ottennero 115 seggi.

Ma la Democrazia Cristiana, sommando i propri seggi a quelli dei partiti di centro e di destra, deteneva la maggioranza. Le sinistre non erano riuscite a conquistare il primato parlamentare che avevano preconizzato. Quanto al nostro protagonista, il Fronte dell’Uomo Qualunque ottenne un’affermazione lusinghiera, con 1.211.956 voti, pari al 5,3% e a 30 seggi (che diventeranno 31 grazie ai recuperi sul collegio unico nazionale).
Non erano pochi voti, se si considera che provenivano soprattutto dal Sud, dove Giannini, convinto repubblicano, si era alienato non poche simpatie di quell’elettorato, che aveva votato per oltre il 60% a favore della Monarchia. Ma soprattutto fu notevole il successo personale di Giannini, che fu terzo, dopo De Gasperi e Togliatti, per numero di preferenze ricevute. In tutto votarono per il commediografo napoletano quasi 200.000 elettori.
De Gasperi presentò le dimissioni e ricevette di nuovo l’incarico di costituire il nuovo governo, da Enrico De Nicola, eletto il 28 giugno dall’Assemblea Costituente capo provvisorio dello Stato.
Dopo una campagna elettorale all’insegna dell’anticomunismo, De Gasperi costituì il nuovo governo (che entrò in carica il 14 luglio 1946) con la partecipazione di comunisti, socialisti e repubblicani. Questo fu un invito a nozze per Giannini, che poté accentuare i suoi attacchi ai demofradici cristiani, accusati di essere un “partito biscia”, infido e che aveva tradito i suoi elettori.

Se del vero c’era nelle affermazioni del ribollente leader dell’Uomo Qualunque, è anche vero che De Gasperi, col suo consueto pragmatismo, capiva che una rottura coi comunisti avrebbe portato ad enormi difficoltà nei lavori della redazione della nuova carta costituzionale, soprattutto in un punto che stava molto a cuore alla DC, ossia il riconoscimento costituzionale dei Patti Lateranensi. D’altra parte Giannini aveva facile gioco nel sostenere che a questo punto il suo partito era l’unico vero punto di riferimento per l’elettorato cattolico e anticomunista. Qualcosa però si muoveva nella stessa sinistra: nel gennaio del 1947 la componente moderata socialista, rappresentata da Saragat, si distaccava dal PSIUP per fondare il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani), mentre il PSIUP tornava la vecchia sigla PSI.
Forse De Gasperi sottovalutava il disagio dell’elettorato democristiano, forse non aveva capito che sotto la cenere di un generico malcontento covava un fuoco su cui Giannini stava soffiando con energia. E le elezioni amministrative del novembre di quell’anno (siamo nel 1946) furono un sonoro campanello di allarme. Il preconizzato, da Giannini, “Vento del Sud”, prendeva l’intensità di una tempesta, rischiando di spazzare via la Democrazia Cristiana, che pochi mesi prima, il 2 giugno, si era laureata partito di maggioranza relativa.
A Roma il Fronte dell’Uomo Qualunque superava, seppur di poco (il 20,7% contro il 20,3%) la DC. A Bari, Catania, Foggia, Lecce, Messina, Palermo, Salerno si affermava come partito di maggioranza.

Ma se al Sud l’affermazione delle liste del “torchietto” era stata strepitosa, anche al Nord venivano conquistati diversi seggi in città dove la presenza dell’Uomo Qualunque era stata, pochi mesi prima, irrilevante. 5 seggi a La Spezia, 4 a Mantova, 7 a Torino, 8 a
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Il ministro Romita annuncia
la vittoria repubblicana
Firenze; non erano certo grandi cifre, ma divenivano importanti laddove si considerava che in quelle città la lista di Giannini non aveva riscosso quasi nessun suffragio alle elezioni del 2 giugno.
Fu l’apice per il partito di Guglielmo Giannini e fu anche l’inizio della sua fine. La DC rifiutava la collaborazione con l’Uomo Qualunque a Roma, preferendo il commissariamento, inevitabile non volendosi alleare neanche con le sinistre. D’altra parte il partito di De Gasperi iniziava una profonda revisione interna, rendendosi conto che il suo elettorato aveva radici anche su quella borghesia piccola e media che si era sentita tradita e che si era vendicata. La collaborazione con le sinistre poteva durare ancora poco, giusto il tempo necessario per portare a termine i punti fondamentali della Carta Costituzionale, ma proseguendo avrebbe portato all’affossamento del partito democristiano. Giannini da parte sua, imbaldanzito dal grande successo alle amministrative, palesò in pieno la sua personalità di non – politico, con un’iniziativa sconcertante, che, insieme alla mutata strategia democristiana, portò alla fine politica dell’ Uomo Qualunque.

Offeso dal rifiuto democristiano di guidare insieme al Fronte dell’Uomo Qualunque il Comune di Roma, Giannini, proiettando i risultati delle amministrative nelle future elezioni politiche (quando l’Assemblea costituente avesse terminato il suo compito, le nuove elezioni dovevano determinare la composizione del primo parlamento repubblicano), prevedeva possibile la conquista di oltre un centinaio di seggi, che avrebbero consentito all’Uomo Qualunque di costituire il Governo insieme alle sinistre, tagliando fuori i democristiani.
L’affermazione era sconcertante, considerando che Giannini aveva fatto dell’anticomunismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rinfacciando alla DC il suo anticomunismo solo a parole, seguitando la collaborazione al governo con Togliatti e Nenni. Ma era meno strana se si considerava che per Giannini questo rappresentava un ritorno al qualunquismo “puro” che, perseguendo lo “stato amministrativo”, non poneva alcuna pregiudiziale ideologica.
Giannini non era un politico, Togliatti e De Gasperi erano due ottimi cervelli politici, ciascuno pragmatico al punto giusto. E l’ingenuo commediografo napoletano restò stritolato tra i due personaggi che si era illuso di poter dominare, essendo lui a capo del “partito più immenso”, come ebbe a scrivere in un refuso che restò famoso. Tra Togliatti e Giannini iniziò un dialogo, condotto sulle colonne dell’Unità e dell’Uomo Qualunque. Mentre il leader comunista riconosceva le radici popolari del qualunquismo, Giannini arrivava a definire il suo partito come un partito di “extra sinistra, che va aldilà del comunismo e oltre il comunismo”, chiedendo però a Togliatti quali garanzie lui dava di volere un comunismo italiano, non totalitario e non dipendente dalla casa-madre di Mosca.

Erano, come si vede, domande a dir poco ingenue, poste in quello che Giannini definì come un “bellissimo dialogo tra gentiluomini”. La stravagante nuova posizione di Giannini verso il comunismo fu ribadita anche nel secondo congresso del partito, tenutosi a Roma dal 21 al 26 settembre 1947. C’era di che lasciar smarriti gli elettori che avevano dato il loro voto a un Uomo Qualunque decisamente e sicuramente anticomunista.
Ma se l’elettorato era smarrito, i deputati e gli assessori qualunquisti erano invece impegnati in lotte interne di potere che obbligavano di continuo il “Fondatore”, come Giannini era chiamato nel suo partito, a intervenire con provvedimenti di disciplina. Nel frattempo si avverava anche la svolta democristiana: il 31 maggio 1947 De Gasperi costituiva il suo quarto governo, che rappresentava la fine dell’esperienza del CLN e l’inizio di quella svolta moderata che l’elettorato aveva chiaramente reclamato con i risultati alle amministrative del novembre precedente. Il nuovo esecutivo vedeva la partecipazione dei liberali, ai quali si sarebbero aggiunti, alla fine dell’anno, i repubblicani e i socialdemocratici di Saragat.
Con i soli voti democristiani e liberali però il governo non avrebbe avuto la maggioranza; e la fiducia arrivò con i trentuno voti qualunquisti, decisi dopo una tumultuosa seduta della direzione del Fronte dell’Uomo Qualunque, nella quale Giannini, trovatosi in minoranza (era deciso a negare la fiducia a De Gasperi), iniziava a rendersi conto che la sua creatura gli stava sfuggendo dalle mani.

Estromessi i comunisti dal governo, assicuratosi una maggioranza più stabile con la cooptazione di repubblicani e saragattiani, De Gasperi poté affrontare con piglio deciso e ottimistico la campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948.
I risultati di queste elezioni, per quanto riguarda il duello principale, quello fra DC e
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Una riunione della Costituente
socialisti e comunisti (uniti sotto la denominazione di Fronte Democratico Popolare), sono noti: col 48,5% la DC ottenne 305 seggi, contro i 183 conquistati dalle sinistre.
Il Fronte dell’Uomo Qualunque, presentatosi insieme al Partito Liberale con la lista “Blocco Nazionale”, ebbe solo il 3,8% dei voti (nel 1946 l’Uomo Qualunque, da solo, aveva avuto il 5,3%). Solo nove uomini dell’Uomo Qualunque entrarono in Parlamento, contro i trentuno della costituente. Rispetto poi ai voti delle amministrative del novembre 1946, era il crollo. La Democrazia Cristiana aveva saputo riprendersi lo spazio occupato da Giannini, con quella virata moderata che era esattamente quella che chiedevano i numerosissimi “uomini qualunque” che per un breve periodo avevano dato la loro fiducia al commediografo napoletano. La Democrazia Cristiana si sarebbe definita poi “partito interclassista”, termine molto più elegante di “partito dell’uomo qualunque”.
Per il povero Giannini, che ebbe anche l’amarezza di entrare alla Camera solo un anno e mezzo dopo il 18 aprile 1948, quando fu accolto il suo ricorso circa errori nei conteggi dei voti di preferenza in diverse circoscrizioni, iniziarono anche i guai finanziari.

Il quotidiano Il Buonsenso era pieno di debiti, la struttura del partito era cresciuta a dismisura (e con essa i costi), ma i finanziamenti, in particolare quelli della Confindustria (come ammise lo stesso presidente Costa) non arrivavano più. Il Fronte ormai non serviva più. Fu il Vaticano, tramite l’arcivescovo di Lepanto, monsignor Ronca, a evitargli anche un’accusa di bancarotta fraudolenta, coprendo buona parte dei debiti.
Il tramonto politico di Giannini fu malinconico. Presentatosi come indipendente nelle liste democristiane nel 1953, ottenne solo 13.432 voti e non fu rieletto. Ritentò nel 1958, iscrivendosi nelle liste monarchiche con l’intercessione del generale Messe. E fu giocato come un bambino dal signore e padrone del partito monarchico, l’armatore Achille Lauro. Questi infatti, eletto in tre collegi, Roma, Napoli e Milano, optò per Roma, chiudendo così la strada a Giannini, primo dei non eletti in quella circoscrizione e facendo invece entrare a Montecitorio l’ex qualunquista Bruno Romano, primo dei non eletti a Napoli.
Giannini morì a Roma il 13 ottobre 1960, alla vigilia del suo sessantanovesimo compleanno. Si era ritirato dalla vita politica, era amareggiato e si occupava solo della pubblicazione del suo settimanale, ormai ben lontano dalle centinaia di migliaia di copie di un 1945 lontano mille anni luce.

E la parola “qualunquista” è rimasta nel linguaggio politico con tutta la sua valenza spregiativa. Ci sembra ingiusto. Il qualunquismo fu un fenomeno legato ad un momento particolarissimo. Anzitutto troviamo del tutto scorretto volerlo assimilare al neofascismo, come spesso si è fatto, perché non ne ebbe alcune delle caratteristiche. Fu piuttosto l’espressione di una realtà che ancor oggi, seppur in ben diverse situazioni, affligge il nostro Paese: il distacco tra cittadini e classe politica. Giannini ebbe diverse intuizioni geniali, ma del tutto fuori del tempo in cui viveva: oggi si opera per l’unità europea, che lui già invocava nel 1946. Spezzò, in anticipo su molti, tanti miti di cui oggi si riconosce la negatività, primo fra tutti quello nazionalista. Seppe condurre una polemica disordinata e spesso contraddittoria, ma comunque sempre imperniata su un amore per la libertà, quasi più anarchico che liberale.
Di sicuro non era un politico e il suo vero errore fu quello di entrare in un meccanismo che lo stritolò. Un paragone ci viene in mente: Giovannino Guareschi. Il creatore di Don Camillo e Peppone condusse a sua volta una grande battaglia politica dalle colonne del suo giornale; Ma seppe non fare il passo di troppo (pur da molti consigliato) di entrare nella politica attiva. Se anche Giannini avesse avuto questa prudenza, oggi lo ricorderemmo solo come lo scrittore che, con tutte le sue stravaganze, le sue “parolacce”, il suo esibizionismo, aveva però lanciato un grido in difesa del diritto alla vita tranquilla di quell’Uomo Qualunque che, ci piaccia o meno, costituisce la maggioranza della società. http://www.storiain.net/arret/num101/artic4.asp

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