"O muore lui o muoio io!"
Disse così Kim Duk Koo prima del match con Ray Mancini. Koo scrisse anche la frase “Vivere o morire” all’interno di un paralume presente nella sua camera d’albergo.
Poche ore dopo fu proprio lui, il sudcoreano ex lustrascarpe e guida turistica, a trovare la morte.
Successe il 13 novembre 1982, quando al Ceasars Palace di Las Vegas prese forma uno degli incontri più cruenti della storia della boxe: uno scontro serrato e ferino, valido per il titolo mondiale dei pesi leggeri.
Il match, dopo 14 lunghi round di battaglia a viso aperto, vide tuonare un destro di Mancini che spedì a terra lo sfidante asiatico, facendogli sbattere violentemente la testa.
A pochi minuti dal ko, Kim entrò in coma e non si risvegliò più. La morte venne causata da un ematoma subdurale, conseguenza di un violento colpo alla testa, e venne certificata il 18 novembre.
In tanti furono psicologicamente traumatizzati da quel decesso: Ray Mancini cadde in depressione e faticò a tornare a combattere, la madre di Kim Duk Koo si suicidò bevendo del pesticida e la stessa, triste, sorte toccò a Richard Green, arbitro dell'incontro, divorato dai sensi di colpa e suicidatosi nel luglio 1983.
Anche la monolitica WBC venne scalfita da questo episodio. I round vennero ridotti da 15 a 12 e venne inserita una lunga serie di controlli medici, pre e post incontro, atta a garantire la salute degli atleti.
Athleta magazine
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