lunedì 20 maggio 2013

Relazione di Piero Fassino alla direzione nazionale di oggi 15 Luglio 2004


La destra non ce la fa e’ l’ora del centrosinistra, un progetto riformista
per l’italia.
1. Per la prima volta dal 2001 il governo Berlusconi e la sua maggioranza
vivono una crisi politica esplicita e vera.
A tutti è ben evidente che le dimissioni di Tremonti non sono un fatto
tecnico, né le si può liquidare con la sostituzione del Ministro
dimissionario.
Tremonti era il superministro dell’economia, titolare di deleghe strategiche
come il bilancio, il tesoro, le finanze, le partecipazioni statali, il
Mezzogiorno.
Era l’ideologo del progetto berlusconiano di uno sviluppo incardinato su
riduzione fiscale e dimagrimento dello Stato sociale.
Era l’uomo su cui si reggeva l’asse Berlusconi-Bossi, così decisivo al nord
per assicurare alla destra la maggioranza dei consensi necessari a
governare.
E questo Ministro viene costretto alle dimissioni, sotto il peso di un
debito pubblico fuori controllo, all’ultimo minuto utile per evitare la
censura dell’Unione Europea e accusato dai suoi stessi alleati di aver
truccato conti e cifre dell’economia italiana. Dimissioni che tuttavia non
hanno evitato il declassamento dell’affidabilità del Paese.
E, anzi, giorno dopo giorno emerge una dimensione del deficit pubblico
sempre più allarmante e la manovra correttiva necessaria appare essere molto
più alta e onerosa degli stessi impegni assunti dal governo italiano davanti
all’Ecofin.
D’altra parte il marasma in cui versa la maggioranza è reso evidente dalle
misure assunte in modo affannoso per evitare le sanzioni europee:
irresponsabile penalizzazione del Mezzogiorno; ulteriori tagli ai
trasferimenti agli Enti Locali che alla luce dell’esito elettorale assumono
un sapore vendicativo; riduzione di incentivi e sostegni alle imprese, in
una fase in cui occorrerebbe invece favorire una ripresa di investimenti;
nuove imposizioni fiscali nel momento stesso in cui si continua ad
alimentare aspettative di riduzione fiscali del tutto infondate.
E non è che l’antipasto. Per il 2005 sono gli stessi esponenti della
maggioranza a prevedere la necessità di una finanziaria da lacrime e sangue,
nella quale vi sarebbero tagli per altri 20 miliardi di Euro, i quali
diventerebbero addirittura 30 se si volesse improvvidamente procedere sulla
via della tanto annunciata riduzione fiscale, cuore dell’ultima ideologica
resistenza del berlusconismo.
Peraltro non è solo la sostituzione di Tremonti a dividere, ma la politica
fiscale, la politica economica, la devolution, la legge elettorale, l’
assetto dei poteri istituzionali, la Rai.
Una vera e propria crisi, di un governo che peraltro nell’arco di tre anni
ha perso il Ministro degli Esteri, il Ministro degli Interni, il Ministro
dell’Economia e almeno sei Sottosegretari.
E francamente appare sconcertante che il Presidente del Consiglio non abbia
fin qui avvertito la responsabilità di salire al Quirinale per sottoporre
all’esame del Capo dello Stato la condizione di c risi in cui versa la
maggioranza.
2. Si sbaglierebbe a guardare a quel che accade semplicemente come alla
crisi di una maggioranza.
Siamo di fronte ad un governo che ha fallito tutti i propri obiettivi.
Che ha prodotto un livello di lacerazione sociale gravissimo praticamente in
tutti i principali comparti e apparati dello Stato e della società.
Che vede incrinarsi il consenso, anche nei settori dove più forte era stato
il suo successo.
E che affronta una situazione per molti aspetti drammatica senza una
bussola, una strategia, e soprattutto senza la credibilità necessaria a
sostenere il peso di scelte difficili.
Una destra che è riuscita nell’inedito risultato di realizzare “conflitto
senza riforme”, quando in genere si conoscono governi che scontano conflitti
pur di realizzare riforme oppure rinviano riforme pur di non suscitare
conflitti.
Non c’è quasi categoria professionale – dai medici agli insegnanti ai
ricercatori – dove non si sia manifestato il malessere, protesta o reazione.
Dal movimento sindacale è venuta una critica radicale alla politica del
governo e alla vanificazione di qualsiasi dialogo sociale.
Luca Cordero di Montezemolo è divenuto nuovo Presidente della Confindustria,
sulla base di una piattaforma del tutto diversa dalla politica di Tremonti,
a conferma della distanza che separa oramai una parte larga dell’impresa
italiana dall’Esecutivo.
Così come dal Governatore di Bankitalia sono venuti ripetuti allarmi per il
futuro del paese, per il pericolo di un declino dell’Italia, di un
declassamento e una perdita drammatica di competitività del nostro sistema.
Una diagnosi pesante che porta alla luce – purtroppo ben prima di quanto si
potesse immaginare – i danni di una gestione sciagurata dei conti pubblici,
delle politiche di spesa e soprattutto del mancato intervento su quelli che
sono a tutt’oggi i vincoli strutturali per lo sviluppo del paese, a partire
da quel nodo cruciale che si chiama Mezzogiorno.
Insomma, ciò che colpisce è lo spettacolo imbarazzante che la destra ha
offerto alla sua prima, vera, prova di governo dell’Italia.
La verità è che vengono al pettine questioni decisive, irrisolte da molto
tempo: i caratteri dello Stato alle prese con una transizione istituzionale
incompiuta; la fragilità del sistema industriale italiano e la difficoltà di
un numero crescente di imprese a reggere la sfida della competizione nel
mercato globale; i ritardi nei settori strategici della ricerca, del sapere
e delle innovazioni; il grado di obsolescenza e deterioramento dell’armatura
infrastrutturale del Paese; la concentrazione del sistema produttivo su
settori a minore valore aggiunto e più esposti alla concorrenza dei nuovi
paesi emergenti; la minore capacità di “fare sistema” in una struttura
produttiva che, proprio per il nanismo che l’affligge, ne avrebbe maggiore
bisogno; un tasso di internazionalizzazione insufficiente.
E la destra – e questa destra in particolare – con il suo modo di governare
ha rappresentato un’aggravante drammatica di questo quadro.
Dunque, un’Italia che perde colpi. Che non ha una strategia per affrontare
una congiuntura economica negativa e per gestirne gli effetti.
Una grande nazione in mano a un ceto politico inadeguato, impreparato, privo
degli strumenti culturali necessari a reggere le sorti di una democrazia
moderna in un passaggio così difficile.
Insomma l’Italia del 2004 offre l’immagine di un paese più piccolo, meno
competitivo, più incerto di sé e del suo futuro. Un’Italia che il Censis e l
’Istat fotografano come un paese dalle “pile scariche”; un paese che rischia
non per mancanza di risorse, di capacità e di strumenti, ma per
inadeguatezza di classe dirigente e di progetto.
3. Le dimissioni di Tremonti e la crisi politica che quelle dimissioni hanno
suscitato sono la più chiara dimostrazione del carattere dirompente delle
elezioni amministrative ed europee del 12 e 13 giugno.
Appare oggi assolutamente chiaro quanto infondate fossero le interpretazioni
del voto tese ad accreditare una sorta di “pareggio” che non avrebbe
sostanzialmente modificato gli equilibri politici del Paese.
La verità, invece, è che il voto ha ridisegnato del tutto la geografia
politica italiana.
Rinviando l’esame analitico all’ampia documentazione che vi è stata fornita,
basterà ricordare qui le cifre salienti di un vero e proprio “terremoto” che
ci consegna una Italia politica radicalmente diversa da quella emersa nelle
elezioni politiche del 2001.
Un successo omogeneo, diffuso in modo uniforme su tutto il territorio
nazionale.
Al nord lo sfondamento a Milano – l’altra capitale del Paese, il centro dell
’economia e della finanza italiana, la città di Berlusconi – è accompagnato
dalla vittoria nelle province di Lodi, Lecco, Cremona e dalla conquista
della città di Bergamo.
In Piemonte il centrosinistra – dopo aver confermato al 1° turno le province
di Torino e Alessandria – conquista quelle di Novara, Biella, Verbania.
Nel nord-est, il centrosinistra riconferma le province di Venezia e Rovigo,
riconquista la città di Padova e la provincia di Belluno. E sfiora per un
pugno di voti clamorose vittorie alle province di Padova, Verona e
Pordenone.
In Liguria – dopo le vittorie nel 2002 a Genova e a La Spezia – il
centrosinistra vince adesso a Savona e perfino a Sanremo.
E naturalmente il centrosinistra conferma la propria forza nel centro
Italia, dove alla destra rimangono solo 2 province su 21 e, guidato da
Sergio Cofferati, riconquista la città di Bologna.
Al Sud il risultato non è meno clamoroso: il centrosinistra è forza di
governo in 4 province su 4 in Abruzzo, in 5 su 5 in Puglia, in 2 su 2 in
Basilicata, in 4 su 5 in Campania, in 3 su5 in Calabria. E conquista città
importanti come Bari e Foggia.
E in Sardegna l’imprenditore Renato Soru vince in modo netto, le elezioni
regionali con un programma di rinascita dell’isola intorno a cui si è
aggregato un vasto schieramento di forze politiche e sociali.
In tre anni è cambiata la geografia politica dell’Italia.
Il centrosinistra amministra l’85% della popolazione italiana , 70 province
su 103, tra cui le province di 17 capoluoghi di regione su 20, 14 dei quali
vedono il centrosinistra al governo anche nella città capoluogo.
Non è un successo inatteso.
Già nelle elezioni del 2002 si era assistito ad un primo smottamento della
destra, che in quella tornata perse le amministrazioni comunali di Verona,
Asti, Alessandria, Piacenza, Gorizia, Monza e molte altre, segnalando una
crisi di consenso proprio in quelle aree del nord che nel 2001 avevano
riversato i loro voti su Berlusconi e sulla Lega.
Nel 2003 l’emorragia si era ripetuta in dimensioni anche più ampie con le
vittorie del centrosinistra in Friuli, nella città di Udine, a Brescia e a
Pescara e alla provincia di Roma e di Foggia. E perfino in Sicilia – nel suo
serbatoio elettorale più grande – Forza Italia che perse allora 600.000 voti
e Alleanza nazionale 100.000.
Elementi decisivi di questo successo amministrativo del Centrosinistra sono
stati la maggiore affidabilità personale e politica dei candidati; la
maggiore unità che ha visto nella pressoché totalità delle province, delle
città e dei comuni importanti il Centrosinistra presentarsi unito intorno ad
un solo candidato sindaco o presidente; la maggiore credibilità
programmatica, radicata su una esperienza amministrativa consolidata nel
tempo.
Significativo anche l’apporto venuto dalle liste dei Sindaci che –
raccogliendo circa un 4% su scala nazionale, con la punta clamorosa della
Lista Emiliano che a Bari raccoglie il 18% - si sono confermati una formula
capace di allargare la rappresentatività del centrosinistra e l’attrazione
di nuovi consensi.
4. Non meno dirompenti nel 2004 i risultati delle elezioni europee.
Il centrosinistra nel suo insieme raggiunge il 46%; la lista “Uniti nell’
Ulivo” – includendo l’apparentamento con SVP e UV– raccoglie il 31,7%
divenendo la prima forza elettorale del Paese.
Mentre Forza Italia – che nel 2001 aveva sfiorato il 30% - scende al 21,1:
4 milioni di voti in meno; arretramenti da capogiro nelle grandi città; l’8%
in meno rispetto alle elezioni del 2001.
La lista Uniti nell’Ulivo raccoglie insomma il consenso di 10 milioni di
elettori, circa un terzo del Paese, nonostante la novità del simbolo – reso
noto il 12 febbraio, cioè solo quattro mesi prima la data delle elezioni – e
nonostante la sovrapposizione in una unica giornata elettorale di elezioni
amministrative, in cui gli stessi elettori erano sollecitati a votare per
simboli diversi. Significativo che là dove – come Roma, Genova, La Spezia,
Ravenna, in Sicilia – gli elettori erano chiamati al voto solo per le
europee, il risultato della Lista sia stato superiore. Così come in tutte le
grandi aree urbane – da Torino a Napoli a Palermo – laddove c’è un
elettorato di opinione più mobile e dinamico la Lista realizza risultati più
alti.
Da una analisi del voto appare infondata la tesi di una minore attrazione
elettorale della Lista unitaria sull’elettorato dei partiti proponenti.
Nelle 63 province in cui si è votato contemporaneamente per la provincia e
per il Parlamento Europeo lo scarto di voto per la Lista unitaria tra
provinciali ed europee è di soli 6.000 voti su più di 6 milioni cioè l’1 per
mille.
E questa corrispondenza tra i due voti è confermata anche dall’omogeneo
andamento delle altre liste del Centrosinistra nel doppio voto.
Quella stessa ricerca evidenzia, invece, che molto più alta è la quantità
dei voti non validi nelle elezioni europee, a conferma di una più alta
percentuale di errori connessi ad un simbolo certamente meno conosciuto.
Il voto europeo segnala anche un andamento complessivamente positivo per le
altre forze del Centrosinistra, che tutte conoscono un incremento dei loro
voti, anche se non può sfuggire che si tratta di incrementi di contenute
dimensioni – +0,6 dei Comunisti Italiani, +1,1 di Rifondazione Comunista al
+1,8 dei Verdi – non tali in ogni caso da modificare significativamente la
configurazione del Centrosinistra e i suoi equilibri interni. Il voto
conferma infatti un Centrosinistra in cui è largamente prevalente una
componente caratterizzata dal profilo riformista e cultura di governo che
raccoglie oltre il 31% dei voti, accanto a componenti dal profilo più
radicale che raccolgono circa un 13%, peraltro non politicamente omogeneo.
Modesto, invece, è stato l’apporto della Lista Di Pietro-Occhetto 2,1%
contro il 3,9 raccolto dalla sola Italia dei Valori nel 2001, a conferma del
carattere forzoso e illusorio che ha la tentazione dei irrigidire movimenti
di opinione in appartenenze politiche ed elettorali.
5. Il voto conferma anche uno stato di buona salute dei Democratici di
Sinistra che hanno offerto un contributo decisivo sia al buon esito della
Lista Uniti nell’Ulivo, sia al successo nelle elezioni amministrative, con
rilevanti incrementi nel voto di lista DS, che ci fanno essere il primo
partito in quasi tutte le province e nelle principali città chiamate al
voto. Un risultato ottenuto grazie all’impegno di tutto il partito, in primo
luogo della passione e della generosità dei nostri militanti, degli
iscritti, dei candidati, dei nostri dirigenti locali, provinciali e
regionali, degli elettori a cui va il nostro ringraziamento.
E questo risultato è stato possibile proprio perché i DS hanno scelto e
sostenuto con convinzione la Lista Unitaria. E’ proprio l’essere percepiti
come la forza più “coalizionale” che ha consentito di raccogliere un più
vasto consenso ai DS nel voto amministrativo.
I candidati dei Democratici di Sinistra si confermano ovunque forti e
assolvono una funzione di traino dell’intera alleanza – come si è visto con
splendido successo di Filippo Penati a Milano – facendo emergere anche una
nuova generazione di amministratori e di dirigenti politici che indica una
capacità di rinnovamento del nostro partito che dovrà essere adesso
pienamente valorizzata.
Anche nel voto europeo il successo degli eletti dei DS testimonia della
crescita del nostro partito: gli 800.000 voti di preferenza di Massimo D’
Alema, i 350.000 di Pierluigi Bersani, i 250.000 di Claudio Fava, gli oltre
200.000 di Nicola Zingaretti e, in generale, il successo personale di tutti
i nostri candidati, sia dagli eletti, sia degli altri, segnala in modo
evidente il nostro radicamento e la nostra credibilità.
Sui 25 eletti della Lista Unitaria i Ds ne eleggono 12 che, insieme a 2
eletti dello Sdi e a Lilli Gruber e Michele Santoro, fanno sì che la
delegazione italiana nel Gruppo Socialista – di cui Nicola Zingaretti è
divenuto Presidente – sia di 16 membri, la stessa cifra della delegazione
precedente nonostante la riduzione dei parlamentari italiani da 87 a 78.
Né meno significativo è il risultato conseguito dalle candidature femminili
sia nelle elezioni amministrative – dove spiccano le belle vittorie di
Stefania Pezzopane a L’Aquila, Sonia Masini a Reggio Emilia, Nadia Masini a
Forlì e Alberta De Simone a Avellino – sia nelle elezioni europee con i bei
successi di Lilli Gruber, Pasqualina Napoletano, Mercedes Bresso, Marta
Vincenzi, Donata Gottardi.
6. Il voto ci consegna dunque una situazione politica dinamica
caratterizzata da una destra in discesa di consensi e un Centrosinistra
viceversa in crescita.
Una dinamica testimoniata non soltanto dalle cifre, ma anche dal mutamento
dei caratteri più salienti dei due schieramenti.
Il Centrodestra fino ad oggi si presentava caratterizzato per più alta
coesione della maggioranza, per la funzione stabilizzante di un partito
forte - Forza Italia - che ne era il perno e per il ruolo preminente di una
leadership forte. E il Centrosinistra appariva come uno schieramento la cui
larghezza era causa di fragilità, senza un baricentro politico
sufficientemente forte e con una leadership scarsamente visibile.
Il voto ci dice che si è determinato un rovesciamento di questi caratteri:
oggi è la destra a manifestare una crisi di coesione e di solidarietà, il
suo partito principale è in profonda crisi – addirittura è minoranza nella
maggioranza – così come in crisi è la credibilità del suo leader. E invece
il Centrosinistra è riuscito a realizzare un grado di coesione
significativamente più alto, ha messo in campo una forza – la lista Uniti
nell’Ulivo – che può dare alla alleanza il baricentro che fino ad oggi non
ha avuto, ed è emersa una leadership via via più credibile sia per le molte
personalità che esprime, sia per la crescente maggiore visibilità di Romano
Prodi.
Naturalmente dire questo non significa che la destra, sconfitta
elettoralmente in modo inequivocabile, non sia tuttavia ancora una
significativa presenza politica: i 4 partiti di governo hanno totalizzato in
ogni caso il 44% dei voti, che sale al 46% includendo il PSI di De Michelis
e Sgarbi tuttavia in fase di ricollocazione; e l’appello alla mobilitazione
elettorale di Berlusconi ha prodotto un recupero di consensi che indica il
permanere di una relativa credibilità del premier.
Il vero punto critico della destra è però l’assenza di un visione o meglio
il venir meno del progetto di governo su cui Berlusconi aveva vinto le
elezioni del 2001.
Si può ben dire che questo voto segnala la crisi del “berlusconismo”, almeno
sotto tre profili.
E’ la crisi di un’ambizione di una modernizzazione dell’Italia di cui in
questi tre anni non si è vista traccia; è la crisi di una concezione
populistica e demagogica della politica e del rapporto tra leader e popolo,
che gli elettori hanno dimostrato di rifiutare; è la crisi del sistema di
alleanze che Berlusconi aveva costruito, come dimostra la ricollocazione
operata dalla Confindustria, l’atteggiamento critico di tutto il mondo
sindacale, la presa di distanza delle professioni e di ceti produttivi che
pure avevano guardato alla destra con fiducia.
Ma la crisi del berlusconismo si manifesta sotto una forma ancora più
generale: è la crisi di credibilità di un disegno complessivo di
cambiamento, che si era presentato sotto le parole d’ordine dell’
anti-politica, dell’esaltazione dell’arricchimento personale, dell’
individualismo esasperato, della contrapposizione frontale con tutta una
tradizione politica e persino istituzionale, di cui si prometteva il
radicale rivolgimento.
Il Presidente-imprenditore aveva proposto al Paese se stesso e il proprio
successo. E’ questo modello ad essere fallito, ad aver mostrato la pochezza
dei suoi valori e l’impraticabilità delle sue ricette. Per questo, la crisi
profonda che attraversa in queste settimane il centrodestra è una crisi di
qualità nuova e diversa. Non a caso ne sono colpiti in particolar modo il
partito del leader e il leader stesso in prima persona. Il berlusconismo
collassa propria nella sua stessa architrave. Ed è scosso da una crisi di
consenso di proporzioni vastissime che si manifesta in modo omogeneo in
tutto il Paese, dal nord al Mezzogiorno alla Sicilia.
E’ peraltro significativo che già nel corso della campagna elettorale
ciascuno dei partiti del centrodestra abbia consapevolmente scelto più di
marcare atti di distinzione che di coesione. Così la Lega si è ostinatamente
caratterizzata come “forza di opposizione dentro la maggioranza” di governo;
l’UDC ha voluto enfatizzare il suo moderatismo in evidente competizione con
il radicalismo dei suoi alleati; AN ha esplicitamente preso le distanze
dalla coalizione, di cui Fini peraltro è il Vicepresidente del Consiglio.
Sono tutti fattori divaricanti che in queste settimane si sono ulteriormente
accentuati e cresceranno ulteriormente con l’avvicinarsi delle elezioni
regionali e con riduzione di potere reale che l’esito del voto
amministrativo determinerà.
7. In realtà la ragione della sconfitta è, a ben vedere, molto semplice a
dirsi.
Nel 2001 Berlusconi promise il “sogno”, un nuovo miracolo italiano: a
tutti – questo fu il messaggio seduttivo di quella campagna elettorale –
saranno assicurate più opportunità, più occasioni, più possibilità. Ciascuno
avrà più di quel che ha avuto. Tant’è che una maggioranza di italiani ci
credette e consegnò a Berlusconi le proprie speranze. E con esse le chiavi
del Paese. Molti pensarono che Berlusconi sarebbe stato capace di ottenere
per tutti il successo e le ricchezza ottenuta per sé.
Nell’immediato era un messaggio non privo di suggestione, tanto più perché
offerto ad un paese che negli anni precedenti aveva dovuto sobbarcarsi l’
onere di risanare i conti pubblici per evitare all’Italia di perdere il
treno dell’euro.
Le cose come si sa hanno avuto un corso ben diverso: il miracolo non c’è
stato e il sogno è svanito.
La destra ha scommesso su una ripresa che non c’è stata. Ed oggi non è più
nella condizione di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
L’economia è stata gelata da una politica economica – quella di Tremonti –
che anziché sostenere mercato e imprese investendo nelle sfide alte della
competizione – innovazione, ricerca, formazione, internazionalizzazione – ha
illuso che si potesse rimettere in moto il paese con impossibili riduzioni
fiscali – che infatti non ci sono state – e comprimendo salari e pensioni.
I conti pubblici – che negli anni del centrosinistra erano stati improntati
a grande rigore da Ciampi, Amato e Visco – sono saltati sotto i colpi di una
raffica di condoni, una tantum, agevolazioni puramente lucrative, che hanno
ridotto il gettito e abituato i cittadini a pensare che forse le tasse è
meglio non pagarle. Ed esito di questa politica è un deficit del bilancio
pubblico schizzato in tre anni dall’1,4% del 2001 al 3,5% - 4% del 2004, ben
oltre quella soglia del 3% a cui tutti i paesi dell’euro sono vincolati dal
patto di stabilità.
Per far luccicare a imprese e famiglie un modesto vantaggio fiscale –
peraltro non realizzato – si è praticata una politica di tagli in ogni
direzione: delle risorse per la ricerca, dei trasferimenti agli Enti Locali,
dei fondi a sostegno delle imprese, dei finanziamenti per le infrastrutture,
dei soli incentivi esistenti alla crescita e allo sviluppo del Mezzogiorno.
Una politica che non ha offerto alcuna prospettiva alle imprese, alle
professioni, al mondo del lavoro e, al tempo stesso, ha ridotto i livelli di
coesione sociale.
Non minore influenza nel far mutare gli orientamenti elettorali dell’
opinione pubblica hanno avuto le molte forme di maggiore precarietà che una
parte non piccola di cittadini ha visto crescere nella propria vita
quotidiana: redditi non sufficientemente tutelati da inflazione e carovita,
troppo sbrigativamente imputata all’euro; deregolazione del mercato del
lavoro che – soprattutto per i giovani – troppo spesso ha trasformato la
flessibilità in precarietà; “riforme” – dalla scuola alla sanità alla
previdenza – percepite in realtà come la riduzione di qualità e certezze di
essenziali beni sociali e pubblici.
E le dimissioni di Tremonti – l’uomo forte del governo Berlusconi, l’
ideologo di una crescita fondata sul taglio delle tasse, il sostenitore più
tenace di un neoprotezionismo antieuropeo – sono state alla fine l’
inevitabile epilogo di una politica incapace di assicurare crescita e
sviluppo.
Ma non è l’economia il solo terreno su cui è maturata la crisi di fiducia
verso la destra.
Non poco ha pesato nel giudizio di cittadini il modo lacerante con cui la
destra ha snaturato regole e principi costituzionali mettendo in discussione
l’imparzialità di beni pubblici essenziali per la coesione di una nazione,
quali la giustizia, l’informazione, la pubblica amministrazione, l’assetto
dello Stato.
8. Peraltro questa inadeguatezza della destra si è manifestata nella
superficialità e improvvisazione con cui Berlusconi e il centrodestra hanno
mutato la collocazione internazionale ed europea dell’Italia.
I due cardini che per cinquant’anni avevano costituito la bussola – un pieno
e convinto europeismo e la complementarietà tra opzione europea e alleanza
atlantica – sono stati scardinati da una linea che ha schierato l’Italia in
modo acritico e subalterno con l’unilateralismo dell’amministrazione Bush e
ha condotto il nostro Paese ad una politica euroscettica, che ha avuto il
solo esito di emarginare l’Italia proprio nel momento in cui l’Unione
Europea è alle prese con passaggi essenziali della integrazione europea.
E l’Unione Europea – come luogo ove più avanzata è l’esperienza di
integrazione (moneta, mercato, politica estera, costituzione, parlamento) e
come soggetto che – tanto più dopo l’allargamento, rappresenta nel mondo il
più alto concentrato di ricchezza, produzione, conoscenze, ricerca,
socialità – può costituire un “attore globale” decisivo per aprire una nuova
stagione negli equilibri del mondo.
Non è perciò indifferente chi guiderà l’Europa nei prossimi anni.
E anche qui il 2004 è stato percorso da un vento nuovo.
Nel voto europeo – che pure in molti paesi ha registrato basse percentuali
di votanti a conferma di un ancora irrisolta estraneità dalla costruzione
europea in ampi settori di opinione pubblica – tuttavia in generale si è
manifestato – con le sole eccezioni di Germania e Gran Bretagna – un
orientamento più favorevole alle forze di sinistra che alla destra.
Tendenza confermata dalle elezioni parlamentari in Spagna, regionali in
Francia, presidenziali in Austria, amministrative in Italia.
Orientamento su cui ha influito certamente la ripulsa della guerra, ma anche
il rifiuto verso politiche neoliberiste percepite da una vasta opinione
pubblica come portatrici di minori certezze, minori diritti, maggiore
precarietà.
Guardando, insomma, a ciò che accade in Italia – ma anche in Europa – emerge
la minore credibilità e affidabilità della destra e delle sue proposte.
9. Per questo il centrosinistra deve accelerare la offerta di una proposta
alternativa di governo.
Sapendo peraltro che le ipotesi di soluzione della crisi italiana non sono
necessariamente solo due: un centrodestra che si riprende o un
centrosinistra che diventa maggioranza.
Altre ipotesi possono entrare in campo, come è dimostrato dal fatto che –
all’indomani della sconfitta elettorale – è tornato all’ordine del giorno la
proposta di ripristinare al sistema elettorale proporzionale, con tutte le
conseguenze prevedibili: la possibilità per le forze che si collocano in
posizione centrista di tornare ad essere ago della bilancia cololocandosi di
volta in volta in schieramenti opposti; il “taglio” delle ali relegando le
forze più radicali fuori dagli schieramenti di governo; una concezione del
centrosinistra in cui “il centro faccia il centro, la sinistra la sinistra”
che rischia di celare, in realtà, la riproposizione di un ruolo subalterno
della sinistra.
Non sono, naturalmente, tesi illegittime. E spesso in chi le prospetta c’è
la sincera volontà di superare Berlusconi e gli attuali equilibri per
contribuire ad una stabilità del sistema politico e del Paese.
E, tuttavia, la democrazia italiana ha impiegato anni per approdare ad un
sistema bipolare che consentisse alternanza di schieramenti nella direzione
del Paese.
Mettere in discussione una così faticosa acquisizione, rischia di rallentare
se non distogliere da quella primaria esigenza che è consolidare sempre di
più il bipolarismo.
La questione, dunque, all’ordine del giorno è come accelerare la costruzione
di una credibile alternativa di centrosinistra.
Adesso serve un cambio di marcia, che ci consenta di essere percepiti non
solo come una efficace opposizione nella denuncia dei guasti della destra,
ma come una reale e spendibile alternativa.
E’ qui che occorre operare il salto, parlando ed essendo ascoltati non solo
da chi al centrosinistra già si affida, ma dall’intera società italiana.
Anche dai tanti che tre anni fa hanno dato fiducia a Berlusconi e oggi,
incerti e inquieti, volgono lo sguardo alla ricerca di chi possa renderli
più sicuri del loro futuro.
Non si tratta, naturalmente, di ridurre il rigore e l’intransigenza dell’
opposizione, ma di saldarlo ad una capacità propositiva che dimostri agli
italiani che il centrosinistra ha le idee, le proposte, la classe dirigente
per essere una credibile alternativa al centrodestra.
10. Per farlo occorre che l’accelerazione agisca su due fronti.
Il primo fronte è l’elaborazione di un programma di governo che dica come il
Centrosinistra intende governare il paese.
Le priorità risultano dal fallimento stesso dell’azione di governo.
Si tratta intanto di scommettere sull’Europa e dopo tre anni di un governo
che ci ha messo ai margini e fuori dall’Europa, tornare ad ancorare
fortemente l’Italia, i suoi standards, la sua crescita all’Europa.
Un’Europa che sempre di più deve essere dotata della soggettività politica
istituzionale e delle politiche necessarie a far sì che l’Unione Europea
esca da quella condizione che troppo a lungo l’ha vista essere un gigante
economico e un nano politico .
Un’Europa che sia attore di pace laddove – a partire dal Golfo Persico e il
Medio Oriente – vi sono conflitti e guerre; un’Europa che concorra al
rilancio di quel multilateralismo che solo può dare stabilità e governance
al mondo; un’Europa che nel continente realizzi – lungo le direttrici del
Consiglio europeo di Lisbona - politiche di crescita e di sviluppo.
Seconda grande questione: la strategia per rilanciare sviluppo e crescita
contro il rischio di declino.
E’ un problema che non possiamo rinviare a quando – ci auguriamo presto –
torneremo al governo. Anche perché c’è il pericolo che, una volta giunti fin
lì, ci ritroviamo a spazzare la cenere.
Qui c’è il tema decisivo su cui si interroga la sinistra in tutta Europa: la
globalizzazione obbliga ciascuno a misurarsi con la dinamicità dei mercati,
la flessibilità della domanda e dell’offerta, una competitività più elevata;
e al tempo stesso tutto questo induce cambiamenti del modo di produrre, di
consumare, di vivere, di pensare nei quali sono insiti non solo opportunità,
ma anche rischi di precarietà, di insicurezza, di minore tutela.
Il fallimento della politica economica di Tremonti, impone a noi di dire
come vogliamo rimettere in moto il Paese, restituirgli competitività,
inserirlo nei circuiti dell’economia mondiale.
Va colta la sfida – lanciata dal Presidente della Confindustria e dalle
stesse organizzazioni sindacali – a scommettere sulle sfide alte della
competizione: l’innovazione e la ricerca, la formazione e la conoscenza, la
modernizzazione infrastrutturale e ambientale, l’internazionalizzazione. Ed
è priorità assoluta mettere in campo risorse strategiche oggi frustrate e
compresse: il Mezzogiorno, che va visto non come problema, ma come
“soluzione”; i giovani a cui oggi non sono offerte possibilità di
scommettere su di sé; le donne che, pur essendo il 55% della popolazione,
non vedono riconosciuti il loro ruolo e il loro talento.
Una politica di crescita che sia capace anche di restituire dignità al
lavoro, offrendo a chi è impiegato in un lavoro flessibile quelle tutele che
liberino dalla precarietà, e a chi non ha lavoro – in primo luogo proprio a
giovani e donne – la possibilità di avere una occupazione su cui programmare
la propria vita.
Un programma di risanamento e sviluppo fondato su politiche pubbliche e
sociali forti per realizzare redistribuzione di redditi e di servizi,
arginando così quell’impoverimento a cui sono stati esposti in questi anni
milioni di famiglie italiane. Ed è a una politica di redistribuzione che va
ricondotta anche una strategia fiscale equa e efficace.
Liberando il paese dall’ossessione berlusconiana del “taglio delle tasse”,
fondato peraltro su un’idea falsa e demagogica secondo sui le tasse
sarebbero una rapina ai danni dei cittadini, quando invece in qualsiasi
nazione moderna il fisco è lo strumento con cui i cittadini concorrono a
finanziare servizi sociali e politiche pubbliche essenziali per la qualità
dello sviluppo e della vita.
Peraltro proprio guardando alle fragilità dell’Italia si constata la
necessità di forti politiche pubbliche nella ricerca, nella formazione, nell
’ammodernamento infrastrutturale, nelle strategie di internazionalizzazione.
E così il persistere di una iniqua redistribuzione di redditi e servizi –
che in questi anni si è acuita – richiede forti investimenti pubblici nelle
politiche di Welfare per assicurare a tutti diritto alla cura, all’
educazione, alla sicurezza individuale e familiare.
Se poi si considera che tutto ciò va perseguito, assicurando al tempo stesso
riduzione di debito pubblico e equilibrio di bilancio, ci si rende ben conto
di come le reiterate promesse di generalizzate riduzioni fiscali siano
insensate
Il che non significa non porsi l’obiettivo di possibili alleggerimenti della
pressione fiscale, che però devono essere selettivi, finalizzati a politiche
di sviluppo e capaci di realizzare reali effetti redistributivi.
Insomma: è tempo che ci riappropriamo della parola “riforme”, che in questo
anno è stata abusivamente occupata dalla destra che per altro di riforme non
ne ha fatte. Non sarebbe davvero credibile un’opposizione che semplicemente
considerasse esaurito il suo compito nel contrastare le scelte sbagliate del
governo.
Qui c’è uno spazio importante che si apre per noi e per la nostra
iniziativa, costruendo intorno ad una competitività di più alta qualità e ad
un nuovo welfare, una alleanza con i settori più illuminati e dinamici delle
professioni, dell’impresa, del lavoro, del sapere. Un nuovo grande “patto
per lo sviluppo”.
Anche per questo guardiamo con preoccupazione all’esito dell’incontro tra
sindacati e Confindustria di ieri e ci auguriamo che l’interruzione dei
colloqui sia breve e al più presto si riprenda il confronto.
E, infine, una terza grande questione. L’Italia non ha completato, dopo
oltre un decennio, la sua tribolata transizione istituzionale. Siamo una
democrazia solida, ma nella quale elementi di modernità – nelle regole,
negli apparati statali, nella riforma dei meccanismi di rappresentanza –
convivono con pesanti arretratezze e incrostazioni burocratiche.
Questo, alla lunga, risulterà insostenibile e ci condannerà – volenti o
meno – a una condizione di marginalità.
Anche in questo campo noi dobbiamo riprendere in mano con forza la bandiera
delle riforme. Un federalismo effettivamente solidale e capace di realizzare
davvero decentramento e semplificazione amministrativa e normativa;
superamento dell’attuale bicameralismo, rafforzamento dei poteri del governo
e normazione dei diritti parlamentari delle opposizioni; pluralismo dell’
informazione, messo in causa in Italia da una concentrazione di potere
mediatico che non ha eguali nel mondo; efficienza e indipendenza della
magistratura e delle autorità di controllo, quale garanzia dell’uguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge. Tanto più di fronte alle suggestioni
plebiscitarie e populiste della destra sono temi che devono tornare ad
essere un punto centrale della nostra proposta politica.
Insomma: una democrazia moderna che sia capace di non contrapporre la
rappresentanza e la decisione. E, al tempo stesso una democrazia capace di
rendere partecipi le mille forme di protagonismo sociale.
11. L’altro grande fronte su cui il Centrosinistra deve produrre è un’
accelerazione della riorganizzazione dell’alleanza, perché un progetto è
credibile se è visibile e credibile il soggetto che lo incarna.
In tutta Europa il sistema politico è organizzato lungo tre caratteri:
ovunque il sistema è bipolarizzato in un blocco progressista e un blocco
conservatore; in secondo luogo, in nessun Paese questi blocchi si traducono
in un unico partito, ma si configurano come alleanze di più forze; e infine,
queste alleanze sono sempre guidate da una forza politica di grandi
dimensioni elettorali e di largo radicamento sociale che rappresenta il
pilastro portante dell'alleanza a cui – senza nulla togliere all'apporto
degli alleati – dà il segno politico e di cui esprime la leadership.
In Italia l’evoluzione del sistema politico ha dato luogo ai primi due
caratteri – bipolarismo pluripartitico – ma manca il terzo.
Si tratta di pensare ad una riorganizzazione del campo del centro-sinistra
che stia dentro questo schema europeo, ovvero ad un’alleanza di
centrosinistra larga, plurima e plurale nei suoi soggetti, guidata da un
soggetto politico riformista, di grande scala che ne costituisca l’elemento
motore.
E’ lo schema su cui in questi mesi abbiamo lavorato, fondato sulla
complementarietà di due scelte: un’alleanza larga perché nel nostro sistema
bipolare senza di essa non si vince, come si è visto nelle elezioni
amministrative, dove il centrosinistra ha colto quel successo così largo
proprio perché ovunque si è presentato con un unico candidato sindaco o
presidente sostenuto da uno schieramento unitario largo. E, al tempo stesso,
serve un centro motore riformista, che dia alla alleanza profilo di governo,
radicamento sociale e elettorale, leadership credibile.
In particolare, questo obiettivo oggi può essere perseguito consolidando l’
esperienza della Lista Uniti nell’Ulivo e dando vita alla Federazione dell’
Ulivo, come ha proposto Romano Prodi.
D’altra parte il consenso di 10 milioni di voti alla Lista unitaria ci dice
quanto forte sia la sollecitazione all’unità che viene dagli elettori, una
spinta unitaria che sarebbe politicamente suicida ignorare.
Abbiamo indicato più volte i caratteri di questa proposta: vogliamo unire
non i moderati, ma i riformisti; vogliamo costruire un soggetto che non
annulli le identità dei partiti, ma le faccia incontrare e da essi tragga
forza per un progetto comune; vogliamo dare all’alleanza una guida forte e,
dunque, è per noi essenziale che federazione e alleanza larga procedano
contestualmente perché l’una tiene l’altra; vogliamo non solo sommare gli
elettori dei partiti che si federano, ma anche quella vasta platea di
cittadini che si identifica più nella coalizione che nei suoi singoli
componenti.
Per la peculiarità della storia politica italiana e dei suoi riformismi, non
si tratta di dare vita ad un partito unico, ma ad un soggetto federativo
che, rispettando le identità politiche e organizzative dei soggetti
partecipi, ne renda più organica l’azione comune nel Parlamento e nel Paese.
Sgombriamo, perciò il campo da ombre e sospetti infondati e strumentali,
come l’idea per cui ci sarebbe qualcuno che vuole sciogliere i DS.
Stiamo ragionando di un patto federativo a cui i DS concorrano con la loro
storia, la loro cultura, la loro organizzazione. E l’obiettivo non è
smarrire la sinistra, ma renderne funzione e ruolo ancora più forte, più
riconoscibile, più efficace.
Dare al soggetto riformista forma federativa, peraltro è esigenza anche
della Margherita, dello Sdi e di quanti vorranno concorrere con noi a questo
progetto.
Una forma federativa che può essere capace di accogliere anche forze – quali
le liste civiche di centrosinistra e dei sindaci, associazione e movimenti,
soggetti culturali e sociali – interessati al progetto unitario.
Una forma federativa che dovrà darsi regole democratiche e partecipative con
cui organizzare la propria attività, definire le relazioni con i partiti che
la compongono e valutare anche le modalità con cui, di volta in volta,
presentarsi agli elettori sulla base delle leggi elettorali vigenti e delle
più opportune convenienze.
Vogliamo concorrere così anche alla costruzione di un campo di
centrosinistra su scala europea che consenta di far incontrare la famiglia
socialista – che è e resta la principale forza riformista del continente ed
è la nostra famiglia – con altre esperienze e culture progressiste.
Per questo nel momento stesso in cui abbiamo confermato l’affiliazione degli
eletti DS al gruppo socialista, guardiamo con interesse alla costituzione
nel Parlamento europeo di un nuovo gruppo – a cui concorrano gli eletti
della Margherita – che, aggregando forze di ispirazione europeista e chi non
accetta la deriva conservatrice del PPE, potrà divenire interlocutore dei
socialisti nel comune obiettivo di costruire un centrosinistra europeo
E, in questo senso, la decisione di dare vita a un Intergruppo degli eletti
della Lista può consentire ai nostri eurodeputati di svolgere nei rispettivi
gruppi di affiliazione un’opera preziosa di tessitura unitaria.
Ci si interroga se sia compatibile creare una Federazione mantenendo al
tempo stesso in vita i partiti che la compongono. La risposta può venire
proprio guardando all’assetto costituzionale dell’Europa, dove la creazione
dell’Unione Europea con propria soggettività e sovranità convive – anzi si
fonda – sul riconoscimento delle sovranità statali. Non a caso, Jaques
Delors – sul cui respiro europeista e comunitario non si può certo
dubitare – ha definito l’Unione Europea una “federazione di Stati”.
Analogamente si tratta di pensare all’Ulivo come federazione di soggetti
politici.
La costruzione di un soggetto federato riformista, di ampio consenso
elettorale e di forte radicamento sociale, è anche la risposta più adeguata
ed efficace a chi si chiede quale sia il modo migliore per intercettare un
elettorato deluso in uscita dal centrodestra. Questione che non può essere
considerata competenza o prerogativa di una singola forza politica, ma è
invece responsabilità di tutta la lista affrontare. D’altra parte chiunque
comprende che la possibilità di attrarre un elettorato deluso dipende assai
di più dall’offrire agli elettori un soggetto unitario, forte, di
riconoscibile profilo riformista, di chiara cultura di governo che non dal
costringere l’elettore a scegliere tra forze politiche alleate, ma in
competizione tra loro.
Contemporaneamente occorre agire per costruire la più larga alleanza di
governo. E ciò potrà avvenire tanto più efficacemente se la Federazione
promuoverà l’apertura di un “cantiere programmatico” con tutte le forze del
Centrosinistra per dare all’alleanza di governo basi solide.
Si tratta di un lavoro che va avviato subito, anche con modalità originali
ed efficaci, quali ad esempio la proposta avanzata da Giorgio Ruffolo di
utilizzare la metodologia seguita in sede europea per la elaborazione della
Costituzione con l’insediamento di una “Convenzione per il programma”, cioè
una sede permanente di elaborazione – con la partecipazione di forze
politiche, soggetti sociali, competenze e saperi – che operi per sessioni di
lavoro e consegni all’alleanza entro tempi certi un Progetto di governo per
l’Italia.
Con questo impianto si tratta dunque di agire, mettendo al centro dell’
azione del centrosinistra il Paese e i suoi problemi.
12. Sono queste, dunque, le sfide ambiziose che stanno davanti a noi.
Sfide che oggi i DS possono affrontare con serenità e sicurezza, perché non
siamo il partito smarrito e incerto di sé di tre anni fa, quando erano in
molti a chiedersi se la nostra storia e la nostra funzione non fossero in
via di esaurimento.
In questi tre anni DS hanno contribuito a ricostruire l’Ulivo e il
centrosinistra. Oggi godiamo di “buona salute” e ovunque la forza dei DS ha
fatto da traino alla vittorie elettorali del centrosinistra; i nostri legami
con la società italiana si sono rafforzati e ampliati; e in molte città e
province una nuova generazione di dirigenti sta prendendo nelle sue mani il
partito; abbiamo ritrovato forza – 550.000 iscritti che fanno dei DS il più
grande partito italiano e il secondo in assoluto in Europa – e più largo
radicamento sociale e elettorale.
Ma soprattutto, siamo nuovamente nelle condizioni di assolvere a quella
funzione nazionale che ha contraddistinto la storia dalla quale veniamo. La
nostra maggiore forza ha senso se diventa lievito per dare al riformismo un
soggetto forte che lo incarni, e lievito per costruire un’alleanza larga.
Una forza gestita in solitudine, al contrario, sarebbe sterile, diventerebbe
ben presto inerte.
Mettendoci in campo per un progetto più grande, invece, possiamo contribuire
in maniera decisiva all’obiettivo di conquistare la maggioranza di consensi
nel Paese, di vincere, di dare all’Italia una guida che torni a darle
prestigio nel mondo e sia capace di corrispondere alle attese e alle
speranze degli italiani.
L’Italia e il suo futuro dovranno essere, dunque, il centro del nostro
prossimo Congresso.
Si compie nel prossimo novembre il triennio di mandato congressuale
affidatomi al Congresso di Pesaro e, dunque, a norma di Statuto si tratta di
avviare le procedure per la convocazione del III° Congresso nazionale dei
Democratici di Sinistra, che proponiamo si tenga a Roma entro e non oltre il
gennaio 2005 per dedicarci subito dopo alla preparazione delle elezioni
regionali.
In questo triennio una quantità grandissima di eventi ha investito il mondo,
l’Europa, l’Italia, la sinistra e noi stessi. C’è dunque ampia materia per
un bilancio e soprattutto per definire la piattaforma politico-programmatica
con cui i DS contribuiscono ad un Centrosinistra in grado di presentarsi
adeguatamente ai nuovi appuntamenti elettorali delle regionali del 2005 e
delle politiche del 2006.
Peraltro andiamo ad un Congresso in una condizione di partito molto diversa
da quella di tre anni fa.
Allora uscivamo da una sconfitta grave che aveva travolto la nostra
esperienza di governo, frantumato il Centrosinistra e manifestato una grave
crisi elettorale e politica del nostro partito. Non a caso il Congresso di
Pesaro fu così travagliato e appassionato, proprio perché ciascuno di noi
avvertiva i rischi gravi a cui erano esposti i DS e la sinistra.
Oggi siamo in una fase radicalmente diversa: la destra è in crisi; il
centrosinistra viene da un triennio di successi elettorali; i DS godono di
uno stato di buona salute e si sono confermati la prima forza del
Centrosinistra.
E peraltro la nostra articolazione interna ha conosciuto una evoluzione che
già nell’Assemblea Congressuale dell’ottobre scorso ha registrato – intorno
alla scelta di concorrere alla Lista Uniti nell’Ulivo – una maggioranza più
ampia di quella di Pesaro.
A Pesaro definimmo la nostra identità di forza riformista che si riconosce
nei valori e nelle politiche del socialismo europeo. A Roma dovremo dare
consistenza programmatica al nostro riformismo e indicare le forme politiche
e le alleanze attraverso le quali si dovrà realizzare.
Se nel 2001 a Pesaro al centro del Congresso c’eravamo noi, la nostra
identità, il nostro destino, oggi al centro del Congresso dobbiamo mettere
il Paese.
Un Congresso che parli all’Italia e dell’Italia.
Come ha scritto efficacemente Alfredo Reichlin “il dopo Berlusconi impone al
centrosinistra in campo ben più che un’intesa elettorale: una visione
diversa del Paese, un progetto in cui gli italiani possano riconoscersi e
ritrovare fiducia in se stessi”.
E dai DS, che sono oggi la principale forza politica del Paese, può e deve
venire un contributo decisivo.
Ci sono dunque le condizioni per svolgere il Congresso in un clima di grande
serenità e per sviluppare il confronto tra le diverse articolazioni del
nostro partito in uno spirito unitario, senza recriminazioni e
contrapposizioni retrospettive e con il comune obiettivo di metterci nelle
condizioni di vincere.
Voglio dire con grande chiarezza che non si tratta di rifare Pesaro, anche
perché la sfida di Pesaro è stata vinta.
Al tempo stesso dobbiamo evitare che la tensione unitaria che tutti ci
anima, ci conduca ad un unanimismo indistinto o riduca la trasparenza delle
scelte.
Anche perché ogni nostro iscritto ha il diritto di essere messo nelle
condizioni di scegliere con chiarezza e i cittadini devono sapere per quale
politica si battono i DS.
Per questo proponendo la conferma della mia Segreteria, presenterò – come
prevede il nostro Statuto – una mozione che si sforzi di raccogliere il più
ampio consenso.
Ciascuno valuterà la mia proposta e deciderà se aderirvi in forma
individuale o, come le nostre norme consentono, anche con dichiarazioni
collettive di adesione.
Se poi ci saranno altre mozioni o altre candidature, io non le vivrò certo
come contrapposizione antagonistica, ma come un legittimo contributo ad una
discussione trasparente e democratica.
Un congresso per mozioni non contraddice, infatti, la ricerca della più
ampia unità, tant’è che dopo Pesaro nella stragrande maggioranza delle
nostre organizzazioni locali, provinciali e regionali abbiamo realizzato una
gestione unitaria del partito.
A chi in questi giorni ha ventilato l’idea di altre modalità congressuali,
ad esempio una mozione unica emendabile in singoli punti - peraltro ipotesi
non prevista dal nostro Statuto – ricordo che quella metodologia fu adottata
dal Pci quando vigeva il centralismo democratico, che non riconosceva né
legittimava un’articolazione in maggioranza e minoranze.
E al Congresso di Torino si introdusse nello Statuto il congresso a mozioni
proprio per dare pieno riconoscimento democratico al pluralismo interno.
Tant’è che è sulla base dei consensi raccolti da ogni mozione che si
eleggono i delegati.
Naturalmente è del tutto legittimo proporre il ripristino di regole del
passato, ma occorre essere consapevoli che ciò comporterebbe il cambiamento
anche delle regole e dei comportamenti che abbiamo adottato in questi anni
nella vita e nell’organizzazione del nostro partito.
A chi, poi, propone di affidare l’elezione del Segretario al congresso
nazionale, sottolineo che l’elezione diretta da parte degli iscritti
attraverso il voto per mozioni è in vigore in altri partiti socialisti
europei e fu introdotto anch’essa al Congresso di Torino come forma più
ampia e trasparente di legittimazione democratica della leadership.
In ogni caso discutiamo di tutto ciò nelle sedi proprie: dovremo nominare
qui oggi, come da Statuto, una Commissione della Direzione che definisca
modalità, procedure e tempi di svolgimento del Congresso, su cui dovremmo
deliberare all’inizio di settembre.
Quanto, infine alla necessità di dotare il nostro partito di norme più
adeguate ed efficaci, anch’io ne sento l’urgenza, tant’è propongo che la
Commissione che qui nomineremo abbia anche il mandato di redigere un nuovo
Statuto da sottoporre al congresso nazionale.
Sono, dunque, queste le sfide che stanno davanti a noi.
Sfide con cui misurarsi oggi, consapevoli che davanti c’è un tempo breve.
La crisi della destra espone il Paese ad un rischio di perdita di peso, di
rilassamento, di minore tenuta della coesione sociale e nazionale.
E il decorrere del tempo senza che vi sia un’adeguata risposta non può che
accrescere quei rischi e alimentare sfiducia.
E, invece, l’Italia – come spesso ricorda il Presidente Ciampi – è un
“grande paese”, uno straordinario patrimonio di risorse, competenze, sapere,
ricerca, tecnologie, imprese, lavoro, professionalità.
Ma un grande paese ha bisogno di una guida alta, capace di mobilitare le sue
energie, di chiamarle a raccolta, di darle il senso di una sfida che si può
vincere.
Questo è quel che serve oggi all’Italia.
Questo è quel che dobbiamo fare noi per il nostro Paese.

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