Bruno Genovese
Traduzione: Bruno Genovese – l’originale è disponibile a questo link.
La creazione della moneta unica sarebbe dovuta essere un altro passo
trionfante nel progetto europeo, nel quale l’integrazione economica è
stata utilizzata per favorire l’integrazione politica e la pace, una
moneta comune, secondo l’idea guida, avrebbe vincolato il continente
ancora più strettamente insieme. Ma ciò che è accaduto, invece, è un
incubo: l’euro è diventato una trappola economica, e l’Europa un nido di
nazioni litigiose. Anche le conquiste democratiche del continente
sembrano in pericolo, laddove le terribili condizioni economiche stanno
creando un ambiente favorevole per l’estremismo politico. Chi avrebbe
potuto prevedere l’arrivo di una cosa simile?
Beh, la risposta è che un sacco di economisti avrebbe potuto e dovuto
vederla arrivare, e qualcuno l’ha fatto. Giacché abbiamo un pensiero di
lunga tradizione sulle prospettive delle unioni monetarie, la teoria
delle aree valutarie ottimali (A.V.O.) - e fin dall’inizio, questa teoria ha suggerito gravi preoccupazioni per il progetto euro.
Queste preoccupazioni sono state in gran parte respinte, all’epoca,
affermando che la teoria era sbagliata, irrilevante, e che le eventuali
preoccupazioni suscitate potevano essere affrontate con le
riforme. Tuttavia i recenti avvenimenti hanno seguito molto le linee che
ci si poteva aspettare dalla buona vecchia teoria di un’area valutaria
ottimale, suggerendo persino sia il bisogno di espandere la teoria, sia
che alcuni aspetti della teoria sono più importanti di quanto
precedentemente ipotizzato.
In quanto segue, inizierò con una discussione molto breve e selettiva
di ciò che io considero i punti chiave della teoria dell’area valutaria
ottimale, e ciò che la teoria sembrava dire, circa due decenni fa,
riguardo l’idea di una moneta unica europea. Più avanti parlerò della
crisi, e il continuo rifiuto di molti leader di vederla per quello che
è. Infine, alcune riflessioni sui possibili scenari futuri.
Mundell, Kenen, e le valute
I vantaggi di una valuta comune sono evidenti, anche se difficili da
quantificare: costi di transazione ridotti, l’eliminazione del rischio
di cambio, una maggiore trasparenza e probabilmente più concorrenza
perché i prezzi sono più facilmente confrontabili. Prima della creazione
dell’euro, un lavoro statistico sul numero limitato di coppie di paesi
che condividevano una moneta, ha suggerito che la moneta unica europea
avrebbe potuto produrre un’esplosione del commercio intra-europeo, che
non è avvenuta, il commercio sembra essere aumentato modestamente come
risultato della moneta unica, e presumibilmente corrispondente ad un
aumento degli scambi reciprocamente vantaggiosi e quindi produttivi.
Gli svantaggi di una moneta unica provengono dalla perdita di
flessibilità. Non è solo che un’area monetaria limita ad una “taglia
adatta a tutti” la politica monetaria, ancora più importante è la
perdita di un meccanismo per la regolazione. Giacché sembrava ai
creatori dell’A.V.O., e continua a sembrare tuttora, che i cambiamenti
nei prezzi relativi e dei salari sono molto più facilmente realizzabili
tramite il deprezzamento della moneta che dalla rinegoziazione dei
contratti individuali. L’Islanda ha raggiunto un calo 25 per cento dei
salari relativi al nucleo europeo in un sol colpo, attraverso una
diminuzione della corona. La Spagna probabilmente ha bisogno di una
regolazione analoga, ma la regolazione, se può avvenire del tutto,
richiederà anni di correzione deflattiva salariale a fronte di
un’elevata disoccupazione.
Ma perché mai tali adeguamenti sono necessari? La risposta è: “shock
asimmetrici”. Un boom o una recessione da per tutto in una area
monetaria non pone particolari problemi. Ma supponiamo, per fare un
esempio non del tutto ipotetico, che un vasto boom edilizio porti alla
piena occupazione e all’aumento dei salari in parte, ma solo una parte,
di un’area valutaria, seguito poi dal crollo. L’eredità di tali aumenti
salariali del tempo del boom, sarà un settore commerciale non più
competitivo e, quindi, la necessità di ottenere almeno che i salari
relativi scendano di nuovo.
Così i vantaggi di una moneta unica hanno un costo potenzialmente
alto. La teoria dell’area monetaria ottimale ci dice all’incirca di
valutare il bilancio tra quei vantaggi e i potenziali costi.
Ora, quello che dobbiamo dire subito è che questo “bilancio” si
svolge solo in senso qualitativo: a questo punto, nessuno dice che i
benefici dell’introduzione dell’euro sono x percento del PIL, y costi e
x> y, così è l’euro. Invece, è più consono argomentare che la
Florida è un candidato migliore per l’appartenenza alla zona del
dollaro, di quanto la Spagna lo sia per l’appartenenza alla zona
euro. Questo non significa necessariamente affermare che la Spagna ha
fatto un errore unendosi all’euro – né necessariamente confutare la tesi
che la Florida sarebbe stata meglio con una propria moneta! Ma la
teoria si, almeno ci da una certa comprensione dei compromessi.
Dobbiamo anche dire che in pratica molto poco della teoria dell’area
monetaria ottimale riguarda i benefici di una moneta unica. Ovviamente
questi benefici sono legati alle potenziali interazioni economiche, non
ci sarebbe nessun vantaggio nel condividere una moneta con, diciamo, una
colonia su Marte, che non faccia quasi nessun commercio con la Terra,
ed entrare nell’area dell’euro ha molto più senso per, diciamo, la
Slovacchia di quello che ne avrebbe per la Mongolia. Ma quasi tutte le
cose interessanti si ottengono dall’osservazione dei fattori che
potrebbero attenuare i costi derivanti dalla perdita di flessibilità
monetaria, che si ha con l’adozione della moneta di qualcun altro – che
ci porta alle due grandi idee dell’A.V.O..
Il primo, Mundell,
che nel classico scritto del 1961 ha sostenuto che una moneta unica è
più probabilmente praticabile, se le regioni che condividono questa
moneta sono state caratterizzate da una reciproca elevata mobilità del
lavoro. (Ha detto proprio la mobilità dei fattori, ma il lavoro è quasi
sicuramente quello che conta). In che modo?
Bene, supponiamo – di fare l’esempio non del tutto ipotetico – che lo
stato del Massachusetts subisca un grande shock asimmetrico per la sua
economia, che riduce drasticamente l’occupazione – che è, in realtà,
quello che è successo alla fine degli anni ‘80. Se i lavoratori del
Massachusetts non possono o non vogliono lasciare lo stato, l’unico modo
per ripristinare la piena occupazione è quello di riconquistare i posti
di lavoro persi, che probabilmente richiede un notevole calo dei salari
relativi, per rendere lo stato più competitivo, con una diminuzione dei
salari relativi, che è molto più facile se si ha una valuta propria da
svalutare. Ma se c’è la mobilità del lavoro, la piena occupazione può
invece essere ripristinata attraverso l’emigrazione, che riduce la forza
lavoro ai posti di lavoro disponibili. Ed è quello che è realmente
accaduto. La tabella 1 mostra le istantanee di economia del
Massachusetts a tre date: 1986, l’altezza del “miracolo Massachusetts”
incentrata sui minicomputer, nel 1991, dopo il passaggio al PC e lo
scoppio di una bolla immobiliare aveva portato una grave recessione
locale, e nel 1996. Si noti che il Massachusetts non ha mai riacquistato
la quota di occupazione persa col crollo alla fine degli anni
’80. Ciononostante, a metà degli anni ’90, ancora una volta ha avuto un
tasso di disoccupazione inferiore alla media nazionale, perché i
lavoratori si sono trasferiti altrove.
Quindi questo è un tema principale della teoria un’area valutaria ottimale. Ma non è l’unico. C’è anche l’argomento di Peter Kenen,
secondo il quale integrazione fiscale – una grande componente
“federale” per la spesa a livello regionale o locale – può aiutare molto
a trattare gli shock asimmetrici.
Facciamo ancora una volta un esempio non del tutto ipotetico, la
Florida, dopo il recente crollo del settore immobiliare. L’America può
avere un piccolo stato sociale per gli standard europei, ma è ancora
abbastanza grande, con una spesa di grandi dimensioni, in particolare,
il Social Security e Medicare
– ovviamente entrambi un grosso problema in Florida. Questi programmi
sono, tuttavia, pagati a livello nazionale. Ciò significa che se la
Florida subisce uno shock asimmetrico sfavorevole, riceverà un
trasferimento automatico di compensazione dal resto del paese: si paga
meno nel bilancio nazionale, ma ciò non ha impatto sui benefici che
riceve, e può anche aumentare i suoi benefici se provengono da programmi
come sussidi di disoccupazione, buoni alimentari e Medicaid, che si espandono a fronte di difficoltà economiche.
Quanto è grande questo trasferimento automatico? La tabella 2 mostra
alcuni numeri indicativi sulle relazioni finanziarie della Florida con
Washington nel 2007, l’anno prima della crisi, e nel 2010, nelle
profondità della crisi. I pagamenti fiscali in Florida per il DC
[District of Columbia - Washington - ndt] sono scesi di circa 33
miliardi dollari, nel frattempo, i programmi speciali di disoccupazione
finanziati dal governo federale hanno contribuito con circa 3 miliardi,
il pagamento di buoni alimentari è aumentato di quasi 4 miliardi. Si
tratta di circa 40 miliardi di dollari di trasferimenti di fatto, circa
il 5 per cento del PIL della Florida – e questo è sicuramente un
eufemismo, dato che c’è stato anche l’aumento di Medicaid dovuto alla
crisi, e persino del Social Security, in quanto più persone hanno preso
prepensionamenti o hanno fatto richiesta per pagamenti di invalidità.
Si potrebbe sostenere che, poiché i residenti della Florida sono
anche dei contribuenti statunitensi, in realtà tutto questo non dovrebbe
contare come un trasferimento. Il punto cruciale, tuttavia, è che il
governo federale attualmente non affronta vincoli di prestito, e ha
costi di indebitamento molto bassi. Quindi, tutto questo è un onere che
sarebbe stato un vero problema se la Florida fosse uno Stato sovrano, ma
viene tolto dalle sue spalle poiché non lo è.
Aspetta, c’è di più: le banche della Florida beneficiano del Federal Deposit Insurance; molte perdite sui mutui ricaddero su Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie di prestito sponsorizzate dal governo federale. Maggiori informazioni su questo sostegno finanziario a breve.
In sintesi, la teoria di un’area valutaria ottimale ha suggerito due
cose importanti da osservare – la mobilità dei lavoratori e
l’integrazione fiscale. E in entrambi i casi era evidente che l’Europa è
scesa ben al di sotto l’esempio degli USA, con la mobilità del lavoro
limitata e praticamente nessuna integrazione fiscale. Questo avrebbe
dovuto mettere in pausa i leader europei – ma avevano i loro cuori
impostati sulla moneta unica.
Perché hanno creduto che avrebbe funzionato? Non voglio provare a
fare una storiografia dettagliata; lasciatemi solo dire che quello che
mi ricordo dalle discussioni al tempo, era la convinzione che due
fattori avrebbero reso i problemi di adattamento gestibili. In primo
luogo, i paesi avrebbero dovuto adottare politiche di bilancio sane, e
quindi ridurre l’incidenza di shock asimmetrici. In secondo luogo, i
paesi avrebbero dovuto impegnarsi in riforme strutturali che rendessero i
mercati del lavoro – e, presumibilmente, i salari – abbastanza
flessibili per far fronte a tali shock asimmetrici, come si è verificato
nonostante la solidità delle politiche di bilancio.
Anche al tempo, questo pareva a molti economisti americani un pio
desiderio. Dopo tutto, gli shock asimmetrici non devono necessariamente
derivare da politiche insostenibili – possono anche provenire da
variazioni della domanda relativa di prodotti o, naturalmente, da cose
come le bolle immobiliari. E i leader europei sembravano credere che si
potesse raggiungere un certo grado di flessibilità dei salari, più o
meno senza precedenti nel mondo moderno.
Tuttavia, il progetto è andato avanti. I tassi di cambio sono stati
bloccati all’inizio del 1999, con il marco, il franco e così via
ufficialmente diventati solo tagli dell’euro. Poi arrivarono le
banconote reali – e tutti vissero felici e contenti, per un valore di
“per sempre” < 11 anni.
L’euro crisi
Come ho appena suggerito, gli architetti dell’euro, nella misura in
cui hanno preso la teoria di un’area valutaria ottimale affatto sul
serio, hanno scelto di credere che gli shock asimmetrici sarebbero stati
un problema relativamente minore. Ciò che è accaduto invece è stato la
madre di tutti gli shock asimmetrici – uno shock, per amara ironia,
causato dalla creazione dell’euro stesso.
In sostanza, la creazione dell’euro ha portato alla percezione da
parte di molti investitori che i grossi rischi connessi con gli
investimenti transfrontalieri in Europa erano stati eliminati. Nel 1990,
nonostante l’assenza di controlli sui capitali formali, i movimenti di
capitali e quindi gli squilibri di conto corrente in Europa sono stati
limitati. Dopo la creazione dell’euro, tuttavia, c’è stato un movimento
massiccio di capitali dal nucleo dell’Europa – soprattutto Germania, ma
anche i Paesi Bassi – alla sua periferia, portando a un boom economico
in periferia e tassi di inflazione significativamente più elevati in
Spagna, Grecia, ecc., che in Germania.
Questo movimento in sé era un forte shock asimmetrico, ma
relativamente graduale, e che la Banca Centrale Europea era disposta a
sistemare con un po’ di inflazione sopra target. La questione divenne
molto diversa, tuttavia, quando i flussi di capitali privati dal
centro verso la periferia si fermarono all’improvviso, lasciando le
economie periferiche con prezzi e costi unitari del lavoro ben al di
sopra di quelli del nucleo. Improvvisamente l’euro si è trovato di
fronte un grosso problema di regolazione.
Questo era il tipo di problema che la teoria dell’area valutaria
ottimale aveva avvertito sarebbe stato molto difficile da gestire senza
la svalutazione della moneta; gli euro ottimisti avevano creduto che le
riforme avrebbero reso i mercati del lavoro sufficientemente flessibili
per affrontare tali situazioni. Purtroppo, i pessimisti avevano
ragione. La “svalutazione interna” – ovvero ripristinare la
competitività attraverso la riduzione del salario al contrario della
svalutazione – si è rivelata estremamente difficile. La tabella 3 mostra
il costo orario del lavoro nei settori commerciali di molte economie
periferiche, per valutazione comune, entrate nella crisi dei mercati del
lavoro molto flessibili, anche così, e, nonostante la disoccupazione
molto alta, hanno raggiunto, nel caso migliore dei cali di piccole
dimensioni.
Quindi la teoria dell’area valutaria ottimale aveva ragione di
affermare che la creazione di una moneta unica avrebbe comportato costi
significativi, che a loro volta hanno fatto sì che la mancanza in Europa
di fattori mitiganti, quali elevata mobilità del lavoro e/o
integrazione fiscale, siano diventati un tema di grande rilevanza. In
questo senso, la storia dell’euro è una crisi annunciata.
Però ci sono state alcune sorprese – purtroppo, nessuna di loro favorevole.
In primo luogo, per quanto ne so nessuno o quasi nessuno ha previsto
che i paesi colpiti da shock asimmetrici avversi si fossero trovati ad
affrontare oneri fiscali così grandi da mettere in discussione la
solvibilità dello Stato. Come si è scoperto, i problemi di adattamento
della zona euro si sono trasformati rapidamente anche in una serie di
emergenze di bilancio. In questo senso, Kenen si è rivelato prevalente
su Mundell: la mancanza di mobilità della manodopera non ha giocato un
ruolo importante nella difficoltà dell’euro, almeno finora, ma la
mancanza di integrazione fiscale ha avuto un impatto enorme,
probabilmente facendo la differenza tra la semplice cattiva condizione
dei “Stati di sabbia” in America, dove era concentrata la bolla
immobiliare, e le crisi acute affrontate dalla periferia dell’Europa.
In secondo luogo, la teoria tradizionale dell’area monetaria ottimale
ha prestato poca attenzione alle questioni bancarie; un piccolo
pensiero è stato dedicato all’importanza delle garanzie delle banche
nazionali, contrapposte alle garanzie bancarie regionali negli Stati
Uniti. Col senno di poi, però, possiamo vedere quanto cruciali tali
garanzie siano effettivamente state. I depositi nelle banche
statunitensi sono garantiti a livello federale, in modo che i salvataggi
delle banche non sono stati un peso per i governi statali, in Europa, i
salvataggi delle banche hanno contribuito ai salti improvvisi del
debito pubblico, in particolare in Irlanda, dove lo Stato, con
l’assunzione dei debiti bancari ha aggiunto improvvisamente 40 punti al
rapporto tra debito pubblico e PIL.
La combinazione di preoccupazioni sul debito sovrano e l’assenza di
sostegno della banca federale, ha prodotto l’ormai famoso fenomeno del
“loop Doom”, in cui i timori di default sovrano minano la fiducia nelle
banche private che detengono molto del debito sovrano, costringendo le
banche a contrarre i loro bilanci, portando il prezzo del debito sovrano
ancora più in basso.
Poi c’è la questione del prestatore di ultima istanza, che risulta
essere anche più ampia rispetto a coloro che hanno visto il loro premio
Bagehot realizzato. Il credito per essersi concentrato su questa
tematica va a Paul DeGrauwe,
che ha sottolineato come le banche centrali nazionali siano istituti di
credito potenzialmente cruciali di ultima istanza per governi e
istituzioni finanziarie private. Lo Stato britannico in fondo non può
affondare per una crisi in cui gli acquirenti dei titoli rifiutano di
acquistare il suo debito, perché la Banca d’Inghilterra può sempre
intervenire come finanziatore di ultima istanza. Il governo della
Spagna, tuttavia, può dover far fronte ad una tale crisi – e c’è sempre
il rischio che il timore di una crisi che porta al default, possa
diventare una profezia che si auto-avvera.
Come DeGrauwe ha sottolineato, le prospettive di bilancio della Gran
Bretagna non sembrano notevolmente migliori della Spagna. Tuttavia, il
tasso di interesse sulle obbligazioni britanniche a 10 anni è dell’1,7%
al momento, mentre il tasso sui Bonos spagnoli 10 anni è del 6,6%,
presumibilmente il rischio di liquidità sta giocando un ruolo importante
nella differenza.
Un confronto ancora più evidente è tra i paesi dell’area dell’euro e
quelle nazioni che sono ancorate all’euro, ma in realtà non hanno
adottato la moneta unica. Danimarca, Austria e Finlandia sono tutte
comunemente riconosciute essere abbastanza in buona forma fiscale. Ma
dove Austria e Finlandia sono nazioni con l’euro, la Danimarca è solo
ancorata all’euro. Si potrebbe pensare che questa mancanza di impegno
totale da parte della Danimarca le possa far pagare un prezzo sotto
forma di tassi di interesse più elevati – dopo tutto, un giorno la
Danimarca potrebbe decidere di svalutare. In realtà, però, gli oneri
finanziari danesi sono significativamente inferiori a quelli di
Finlandia e Austria. Per essere onesti, questo potrebbe rispecchiare il
timore che tutti i paesi euro finiranno per essere contaminati dai
problemi della periferia – per esempio, soffrendo pesanti perdite sui
prestiti tra banche centrali. Ma una spiegazione più probabile è che la
Danimarca è vista come una scommessa più sicura perché potrebbe, in una
stretta di liquidità, rivolgersi alla sua banca centrale per il
finanziamento, escludendo crisi che si auto-avverano, che pongono rischi
anche per i governi dell’area dell’euro relativamente forti.
La linea di fondo qui sembrerebbe che le preoccupazioni sull’euro
basate sulla teoria dell’area valutaria ottimale sono state
effettivamente sottovalutate. I membri di una area valutaria, a quanto
pare, dovrebbero avere un’alta integrazione delle garanzie bancarie e un
sistema di prestatore di ultima istanza a disposizione degli Stati,
nonché il criterio tradizionale di Mundell della elevata mobilità del
lavoro e il criterio di Kenen di integrazione fiscale. L’area dell’euro
non ha nessuno di questi.
Rendere praticabile l’euro
Non cercherò qui di fare proiezioni sul probabile esito della crisi
dell’euro, dal momento che qualsiasi ipotesi sarà sicuramente superata
dagli eventi. Invece, vorrei chiedere cosa si potrebbe fare per rendere
praticabile l’euro anche se l’area valutaria non è ottimale.
Una risposta potrebbe essere una piena integrazione, in stile
americano – gli Stati Uniti d’Europa, o almeno una “unione di
trasferimento” con molto più in termini di compensazione automatica per
le regioni in difficoltà. Questa, tuttavia, non sembra essere una
possibilità ragionevole per decenni, se non per generazioni a venire.
Che cosa sulle correzioni più limitate? Vorrei suggerire che l’euro
potrebbe essere reso praticabile se i leader europei convenissero quanto
segue:
1. Sostegno delle banche in tutta Europa. Ciò comporterebbe sia una
sorta di assicurazione dei depositi “federalizzati” e la volontà di fare
salvataggi “tipo TARP” a livello europeo – cioè, se, per esempio, una
banca spagnola è in difficoltà in un modo che minaccia la stabilità
sistemica, ci dovrebbe essere una iniezione di capitale in cambio di
partecipazioni da parte di tutti i governi europei, piuttosto che un
prestito al governo spagnolo al fine di fornire l’apporto di
capitale. Il punto è che il salvataggio delle banche deve essere
separato dalla questione della solvibilità dello Stato.
2. La BCE come un prestatore di ultima istanza agli Stati, come lo sono
già le banche centrali nazionali. Sì, ci saranno denunce di moral hazard,
che dovranno essere affrontate in qualche modo. Ma ora è dolorosamente
ovvio che eliminando la possibilità di fornire di liquidità da parte
della banca centrale rende solo il sistema troppo vulnerabile al panico
che si auto-avvera.
3. Infine, un livello di inflazione più elevato. Perché? Come ho
mostrato nella tabella 3, l’esperienza euro suggerisce fortemente che la
rigidità verso il basso dei salari nominali è un grosso
problema. Questo significa che la “svalutazione interna” tramite
deflazione è estremamente difficile, e probabilmente destinata a fallire
politicamente, se non economicamente. Ma significa anche che l’onere
dell’aggiustamento potrebbe essere sostanzialmente minore se il
complessivo tasso di inflazione della zona euro è superiore, in modo che
la Spagna e altri paesi periferici potrebbero ripristinare la
competitività semplicemente in ritardo sull’inflazione nei paesi
centrali.
Quindi, forse, l’euro potrebbe essere praticabile. Ciò lascia ancora
aperta la questione se l’euro deve ancora essere salvato. Dopo tutto,
visto tutto quello che ho detto, sembra comunque che l’intero progetto
sia stato un errore. Perché non lasciarlo rompere?
La risposta, credo, è soprattutto politica. Non del tutto così – una
rottura dell’euro sarebbe estremamente dirompente, con costi
puntualmente alti di “transizione”. Inoltre, il costo duraturo di una
rottura dell’euro equivarrebbe a una sconfitta enorme per il progetto
europeo più ampio che ho descritto all’inizio di questo discorso – un
progetto che ha reso al mondo un gran bene, e che nessuno che non sia
cittadino del mondo vorrebbe vedere fallire.
Detto ciò, sarà una lotta in salita. La creazione dell’euro ha
implicato, in effetti, la decisione di ignorare gli economisti e tutto
ciò che avevano detto sulle aree valutarie ottimali. Purtroppo, si è
scoperto che la teoria di un’area valutaria ottimale era essenzialmente
giusta, errando solo nella sottovalutazione dei problemi con una moneta
comune. E ora la teoria si sta prendendo la sua rivincita.
econocrash.altervista.org
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