lunedì 15 dicembre 2025
Giuseppe Pinelli
Giuseppe Pinelli, detto Pino, era un ferroviere. Lavorava alle Ferrovie dello Stato come manovratore.
Era nato a Milano nel 1928, quartiere Porta Ticinese. Aveva cominciato a lavorare prestissimo per aiutare la famiglia. Garzone, magazziniere. Manovale. Nel frattempo studiava da solo, leggeva voracemente qualunque cosa gli capitasse a tiro; a un certo punto si metterà pure a studiare l’Esperanto. Credeva, Pino, che la cultura fosse l’unica arma per emanciparsi per un proletario come lui.
Partecipò alla Resistenza come staffetta partigiana nella Brigata autonoma Franco.
Aveva poco più di quindici anni.
In quegli anni incontrò l’anarchismo, che per lui non fu mai estremismo, ma scelta etica.
Libertà individuale, solidarietà concreta, rifiuto della violenza.
Nel 1955 sposò Licia Rognini, conosciuta proprio a un corso di Esperanto.
Negli anni Sessanta fu tra gli animatori del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.
Contribuì alla nascita del circolo Sacco e Vanzetti. Sostenne riviste, assemblee, comitati di base. Era uno che non amava i palchi, la ribalta, se ne stava dietro le quinte, c’era sempre quando un compagno aveva bisogno di lui.
Nel 1969, dopo gli attentati del 25 aprile poi attribuiti ai neofascisti di Ordine Nuovo, si occupò della solidarietà agli anarchici arrestati. Cibo, vestiti, libri. Cose concrete, poca teoria, molta pratica politica.
Il 12 dicembre 1969 il botto che cambiò la sua vita, in piazza Fontana.
La sera stessa Pinelli fu fermato e portato in questura per accertamenti. Ci arrivò con la sua moto, seguendo spontaneamente il commissario Calabresi, tanto era “pericoloso”.
In questura ci rimase tre giorni, ben oltre il limite delle 48 ore previsto dalla legge. Un fermo mai convalidato, e quindi illegittimo.
La notte del 15 dicembre precipitò da una finestra del quarto piano. Morì poche ore dopo. Aveva 41 anni.
La prima versione ufficiale parlò di suicidio.
Per un’intera generazione di compagni Pino Pinelli fu assassinato.
Nel 1975 una sentenza attribuì la morte a una formula sconvolgente: “malore attivo”.
Nessun responsabile.
Nessuna colpa.
Per anni la moglie Licia ha combattuto con una dignità infinita contro i mulini a vento per avere verità e giustizia.
Solo nel 2009 Pinelli venne riconosciuto come “vittima innocente”. Un riconoscimento tardivo, che non ripara, che non ricuce, perché senza verità anche la memoria è retorica.
E la verità è che Giuseppe Pinelli era innocente, completamente estraneo alla strage neofascista di piazza Fontana e a qualsiasi atto o forma di violenza. Come era innocente l’anarchico ballerino di fila Pietro Valpreda, arrestato il giorno dopo.
La verità è che Pino Pinelli morì mentre era trattenuto illegalmente dallo Stato. Una ferita che sanguina ancora.
La verità è che Pinelli “fu suicidato”.
E oggi, 15 dicembre, a distanza di 56 anni esatti da fatti che ormai scorrono in bianco e nero e di cui le nuove generazioni non sanno più nulla, il minimo che possiamo fare è ricordare questo giovane uomo che combatteva per i diritti e studiava l’Esperanto.
Un pensiero a Pino e uno alla moglie Licia, che se n’è andata un anno fa, nel novembre 2024, dopo una vita di molto coraggio, troppo dolore, pochissima verità e nessuna giustizia.
Il professor May
Nel 1970, uno studente di fisica di 23 anni dell’Imperial College di Londra si trovò davanti a una scelta che avrebbe cambiato per sempre la sua vita.
Brian May studiava da tre anni la polvere zodiacale, quella debole luminescenza causata dalla luce solare riflessa da minuscole particelle sospese nel Sistema Solare. Aveva costruito da solo la sua attrezzatura, raccolto dati, analizzato misurazioni, e stava davvero avanzando verso un dottorato in astrofisica.
Ma fuori dal laboratorio, un’altra vita bussava con forza: quella del palco, degli amplificatori e delle folle urlanti. May era anche il chitarrista di un gruppo rock emergente: i Queen. Avevano appena firmato un contratto discografico. Si preparavano i primi tour. L’occasione era concreta, travolgente. E non avrebbe aspettato che lui terminasse la tesi.
Così Brian scelse la chitarra. Mise da parte il telescopio, lasciò gli studi… per inseguire un sogno che di lì a poco avrebbe incendiato il mondo.
Queen divenne leggenda. Bohemian Rhapsody, We Will Rock You, We Are the Champions: le sue note attraversarono generazioni. La sua Red Special, la chitarra fatta a mano da lui e suo padre, divenne uno strumento mitico. Brian May era ormai un’icona.
Ma in un angolo della sua mente, la polvere cosmica continuava a brillare.
Nel 2006, trentasei anni dopo aver abbandonato l’università, Brian contattò il suo vecchio relatore di tesi, il professor Michael Rowan-Robinson, che si ricordava benissimo di quel giovane promettente diventato rockstar. Si chiese se fosse ancora possibile completare il lavoro cominciato decenni prima.
Era un’impresa titanica. L’astrofisica era cambiata radicalmente. Gli strumenti di allora erano obsoleti. I dati raccolti da May erano parziali. Doveva aggiornare tutto, comprendere anni di nuove scoperte, integrare la ricerca moderna. Ma la domanda di fondo era ancora valida. E il professor Rowan-Robinson accettò di accompagnarlo fino alla fine.
Con la stessa disciplina con cui affrontava la musica, Brian si tuffò nello studio. Tra un concerto e un progetto musicale, trovò il tempo di riesaminare le sue vecchie osservazioni, affiancarle a quelle più recenti, rielaborarle con metodi moderni.
La sua tesi prese forma. Si intitolava "A Survey of Radial Velocities in the Zodiacal Dust Cloud", 'Un’indagine sulle velocità radiali nel cloud di polvere zodiacale', una ricerca utile per comprendere meglio la formazione dei sistemi planetari e il comportamento della materia interplanetaria.
Nel 2007, l’Imperial College gli conferì il titolo di dottore in astrofisica. Non si trattava di una laurea honoris causa, ma di un vero dottorato: frutto di anni di lavoro, valutazioni accademiche rigorose, e della stessa passione che aveva reso May un gigante della musica.
A 60 anni, Brian May non era più solo il leggendario chitarrista dei Queen. Era anche il dottor May, astrofisico.
Ma non si fermò lì. Divenne divulgatore scientifico, rettore universitario, cofondatore dell’Asteroid Day (una giornata mondiale per sensibilizzare sui rischi legati agli asteroidi). Collaborò con la NASA. Scrisse libri, tenne conferenze. Continuò a suonare, senza mai scegliere tra arte e scienza.
Perché lui è sempre stato entrambe le cose. Un uomo che non ha mai accettato di stare in una sola scatola.
La sua storia ci ricorda che non è mai troppo tardi per finire ciò che abbiamo iniziato. Che si può vivere due passioni, anche se sembrano opposte. Che i sogni messi in pausa possono aspettare anche trent’anni, se sono veri.
E che alcune cose… valgono il tempo che serve per realizzarle.
Storia & Dintorni
PERCHÉ LE TORTE SONO ROTONDE?
PERCHÉ LE TORTE SONO ROTONDE? – L’ANTROPOLOGO MARINO NIOLA: “LA TORTA NASCE NELL’ANTICA GRECIA, IN OCCASIONE DELLE FESTE DI ARTEMIDE, PER I ROMANI DIANA, LA DEA LUNARE. SI CONFEZIONAVANO DOLCI CON LA FORMA DELL’ASTRO NOTTURNO CON TANTO DI FIAMMELLE A MO’ DI CANDELE. MA, IN QUANTO EREDITÀ PAGANA, IL COMPLEANNO VIENE RIFIUTATO DAL CRISTIANESIMO. E TORNA A GALLA CON LA SOCIETÀ MODERNA CHE SI SECOLARIZZA EMANCIPANDOSI DALLA TRADIZIONE CRISTIANA” – L’ORIGINE DELLA CANZONCINA “HAPPY BIRTHDAY TO YOU” – VIDEO
GUARDA QUI IL VIDEO DI MARINO NIOLA CHE RACCONTA LE ORIGINI DELLA TORTA
Estratto da www.repubblica.it
marino niola - torta di compleanno
La torta tonda nasce nell’antica Grecia in occasione delle feste di Artemide, per i romani Diana, la dea lunare. Si confezionavano torte con la forma dell’astro notturno con tanto di fiammelle a mo’ di candele.
Ed è proprio in quanto eredità pagana che il compleanno viene rifiutato dal cristianesimo che considera la vera nascita il giorno del battesimo, quando cioè si rinasce alla vera vita. Il compleanno torna a galla con la società moderna che si secolarizza emancipandosi dalla tradizione cristiana.
E il tempo diventa lineare, quantitativo. È questa svolta a rimettere in gioco il compleanno. Con un testimonial d’eccezione come Goethe che il 28 agosto del 1802 festeggia i suoi cinquantatré anni con un colpo di scena, cinquantatré candeline piazzate su un dolce.
Il grande Wolfgang ha lanciato la moda. Perché il format sia completo manca ancora la colonna sonora. A questa provvedono due insegnanti di scuola materna del Kentucky, le sorelle Mildred e Patty Hill, che nel 1924 compongono la famosa, o famigerata, Happy birthday to you.
marilyn monroe - torta di compleanno
[...]
Grazie anche alla divina Marylin che il 19 maggio 1962 canta un memorabile Happy Birthday per i 45 anni del presidente Kennedy al Madison Square Garden di New York.
Di Marino Niola, professore di Antropologia all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa; coordinamento giornalistico di Tecla Biancolatte
https://www.dagospia.com/cronache/video-sapete-perche-torte-rotonde-l-antropologo-marino-niola-spiega-437876
L’Australia chiude i social ai minori di 16 anni
L’Australia ha approvato una legge che vieta ai minori di 16 anni di utilizzare i social media. L’Online Safety Amendment Act 2024 entrerà in vigore il 10 dicembre 2025 e prevede l’obbligo per piattaforme come Facebook, Instagram, TikTok, Snapchat, YouTube, X, Reddit, Twitch e Threads di impedire la creazione di nuovi account ai più giovani e di rimuovere quelli esistenti. Il governo, attraverso la ministra Anika Wells, sostiene che questo provvedimento proteggerà la Generazione Alpha dagli “algoritmi predatori” che alimentano dipendenze e trasformano il mondo digitale in un “purgatorio online”.
Secondo quanto riportato dal The Guardian, molte piattaforme hanno già iniziato a bloccare o disattivare gli account sotto i 16 anni in anticipo rispetto alla scadenza. Meta ha chiuso circa 500.000 profili di adolescenti tra i 13 e i 15 anni e ha annunciato che i contenuti saranno recuperabili una volta compiuti i 16 anni. Anche Threads, essendo legato a Instagram, viene automaticamente disattivato se l’account principale risulta non idoneo. La ministra Wells ha confermato che, dopo il 10 dicembre, qualunque piattaforma che mantenga attivi account di minori sarà formalmente in violazione della legge.
Si tratta di una misura radicale e senza eccezioni, neppure con il consenso dei genitori. L’inosservanza delle regole può comportare multe fino a quasi 50 milioni di dollari australiani.
Questo intervento legislativo nasce con un obiettivo dichiarato e condivisibile: ridurre l’esposizione precoce dei giovani a contenuti nocivi, cyberbullismo, competizione tossica e problemi di salute mentale legati alla dipendenza digitale. Tuttavia, la scelta solleva interrogativi importanti. Per molti adolescenti i social sono un mezzo fondamentale di socializzazione, informazione, creatività, attivismo. Escluderli da questi spazi significa, nel concreto, creare nuove forme di isolamento sociale, soprattutto per chi vive in aree remote o con opportunità limitate nel mondo fisico.
Il rischio è che ragazzi e ragazze migrino verso piattaforme più nascoste, più difficili da controllare e meno sicure, o che ricorrano a strumenti come VPN e identità fasulle, aumentando l’esposizione a pericoli anziché ridurla.
Il vero problema non è chiudere ai ragazzi l’accesso ai social ma iniziare finalmente ad accompagnarli ed ascoltarli, educarli al mondo digitale con maggiore consapevolezza, perché solo così si costruisce un futuro in cui i giovani non siano esclusi dalla conversazione pubblica, ma imparino a starci dentro con strumenti migliori e con adulti capaci di esserci davvero.
https://beppegrillo.it/laustralia-chiude-i-social-ai-minori-di-16-anni/
Il Giappone e la sfida alle terre rare cinesi
DAL WEB – ARTICOLO PUBBLICATO SU THE ECONOMIST
Quando il Giappone e la Cina si scontrarono per un gruppo di isole contese nel 2010, la Cina impiegò un’arma innovativa. Impose un divieto non ufficiale all’esportazione di terre rare, minerali utilizzati in tutto, dalle auto ai missili. Da allora questa forma di coercizione economica è diventata comune. La Cina ha usato nuovi severi controlli sulle terre rare anche per costringere l’America a fare marcia indietro nella sua guerra commerciale di quest’anno.
Nelle ultime settimane è ancora una volta il Giappone a trovarsi in una situazione di tensione con la Cina. Il mese scorso Takaichi Sanae, primo ministro giapponese, ha dichiarato che un’invasione di Taiwan potrebbe superare la soglia che richiederebbe una risposta militare da parte del Giappone. L’affermazione ha scatenato dure reazioni da parte cinese, che ha interrotto alcuni voli diretti verso il Giappone, ha invitato i propri cittadini a non viaggiare nel Paese e ha inviato navi della guardia costiera verso lo stesso gruppo di isole contese 15 anni fa, chiamate Senkaku dal Giappone e Diaoyu dalla Cina.
I funzionari giapponesi si stanno preparando a una nuova escalation economica. Questa volta sono meglio attrezzati. Le lezioni che il Giappone ha imparato potrebbero rivelarsi utili ad altri paesi che cercano di contrastare il bullismo cinese sulle terre rare. Ma mostrano anche quanto sia difficile farlo.
All’epoca della crisi delle Senkaku, il Giappone dipendeva per circa il 90% dalla Cina per le terre rare. Quando le esportazioni furono bloccate, le linee di produzione giapponesi rischiarono di fermarsi del tutto. Il Giappone rilasciò rapidamente un capitano di un peschereccio cinese che aveva speronato una nave della guardia costiera giapponese vicino alle isole. Solo allora le spedizioni di minerali ripresero. La prima, dolorosa lezione è quindi chiara, e l’America l’ha già appresa: nel breve termine la Cina detiene le carte migliori.
Subito dopo lo scontro con la Cina, il governo giapponese approvò un budget aggiuntivo di 100 miliardi di yen (1,2 miliardi di dollari) per rafforzare le catene di approvvigionamento delle terre rare. Varò inoltre una strategia nazionale per ridurre il controllo cinese sui materiali, cercando fornitori alternativi, diminuendo l’uso complessivo di terre rare e aumentando le scorte strategiche. Dopo dieci anni il Giappone è riuscito a ridurre di un terzo la quota importata dalla Cina. Rimaneva però ancora dipendente dal suo vicino per circa il 60%.
La seconda lezione è che anche raggiungere quel risultato è estremamente difficile. Non è solo una questione di quantità. Le industrie necessitano di una vasta gamma di terre rare diverse. Due aziende giapponesi hanno acquisito una grande quota di Lynas, un’azienda australiana attiva nell’estrazione di terre rare, in grado di fornire soprattutto minerali “leggeri”, più facili da estrarre. Ma solo nell’ottobre scorso le prime terre rare “pesanti” provenienti dalle miniere di Lynas sono arrivate in Giappone. Oltre a essere difficili da estrarre, le terre rare richiedono processi di raffinazione costosi, lunghi e impattanti sull’ambiente, che pochi paesi vogliono ospitare. Le materie prime estratte in Australia vengono infatti per lo più lavorate in Malesia.
Nonostante gli investimenti, tra il 2020 e il 2024 le terre rare importate dalla Malesia in Giappone hanno continuato a costare in media il 50% in più rispetto agli equivalenti cinesi, secondo Mizuho, una banca giapponese. Le aziende che producono missili o caccia potrebbero essere disposte a pagare un prezzo più elevato per ridurre i rischi. Chi opera in mercati di consumo competitivi, probabilmente no. Nel frattempo la domanda di terre rare supera la nuova offerta giapponese. La dipendenza dalla Cina è tornata a crescere raggiungendo circa il 70%, secondo l’Institute of Energy Economics, un think tank giapponese. La terza lezione, decisamente scoraggiante, è che replicare il controllo cinese sull’intera filiera produttiva, e sulla sua scala, è estremamente complesso: proprio questi fattori garantiscono a Pechino un notevole potere nella definizione dei prezzi.
Finora la Cina non ha usato la leva delle terre rare nella disputa attuale con il Giappone. Xi Jinping potrebbe essere riluttante a ricorrere a quest’arma per evitare di intaccare la fragile tregua raggiunta nella guerra commerciale con l’America. Oppure potrebbe semplicemente tenerla pronta per una fase più avanzata dello scontro diplomatico. I funzionari giapponesi ritengono comunque che riportare le tensioni ai livelli precedenti al conflitto richiederà mesi o anni, non giorni o settimane.
Se i minerali critici dovessero tornare al centro del confronto, gli sforzi del Giappone per diversificare le forniture e creare riserve potranno almeno guadagnare tempo. Questo aiuterà a evitare le gravi carenze che scatenarono il panico nell’industria giapponese nel 2010. Allora “è stato come cadere da una scogliera”, spiega Suzuki Kazuto dell’Institute of Geoeconomics di Tokyo. “Questa volta sarebbe come essere investiti da un’auto: entrambe le cose sono serie, ma almeno riusciremo a sopravvivere”. L’ultima lezione, dunque, è che l’arma economica cinese può essere in parte attenuata. Ma il colpo sarà comunque pesante.
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Cibo e fossili: 5 miliardi di danni ambientali ogni ora
Un nuovo rapporto dell’UNEP delle Nazioni Unite avverte che l’attuale modello globale di produzione del cibo e utilizzo dei combustibili fossili sta causando danni ambientali stimati in circa 5 miliardi di dollari l’ora, una cifra che su base annuale raggiunge 45 milia miliardi di dollari.
Il costo è composto dall’impatto su clima, biodiversità, inquinamento dell’aria e dell’acqua, perdita di terreni fertili e danni alla salute pubblica. Circa 20 mila miliardi di dollari derivano dai sistemi alimentari, mentre i trasporti e la produzione di elettricità da fonti fossili contribuiscono rispettivamente per 13 e 12 mila miliardi di dollari.
Il rapporto sottolinea che non si tratta solo di problemi ecologici, ma di minacce dirette alla sicurezza alimentare e idrica, alla salute delle persone, alla stabilità economica e persino alla sicurezza nazionale. In un pianeta con una popolazione in crescita e richieste crescenti di energia e cibo, ogni anno la pressione sui sistemi naturali aumenta e i danni si accumulano, indebolendo le basi stesse della vita umana.
Gli esperti che hanno contribuito al rapporto indicano che la finestra per intervenire è ancora aperta, ma si sta restringendo rapidamente. È indispensabile una trasformazione strutturale del funzionamento economico globale, a partire dall’inclusione dei costi reali dell’impatto ambientale nei prezzi del cibo, dell’energia e dei trasporti.
Un’altra misura centrale proposta consiste nell’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili e alle pratiche agricole più distruttive, che restano competitive solo perché i danni che provocano non ricadono su chi li produce e consuma. Allo stesso tempo, il rapporto indica la necessità di aumentare gli investimenti in energie rinnovabili, agricoltura rigenerativa e diete a più basso impatto, insieme a riforme economiche e finanziarie che sostengano una transizione equa.
Secondo gli autori, continuare a ignorare il costo reale della produzione alimentare e dei combustibili fossili significa condannare le società a conseguenze economiche e sociali sempre più gravi. Il degrado ambientale sta già compromettendo la qualità dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo, e limita la capacità della Terra di sfamarci e proteggerci.
Questa analisi ribadisce che il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità sono elementi essenziali del nostro benessere. Ogni governo, ogni impresa e ogni cittadino è coinvolto, direttamente o indirettamente, nel determinare quale sarà l’eredità sociale e ambientale dei prossimi decenni. L’UNEP avverte che agire ora è ancora possibile e meno costoso del continuare a rimandare.
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BastaPensieri, una risposta concreta al bisogno di salute mentale
Negli ultimi anni la salute mentale è entrata con forza nella vita di tutti. Ha travolto studenti, lavoratori, genitori, professionisti, adolescenti e anziani. Ha colpito un’intera popolazione schiacciata da precarietà, iperconnessione, isolamento e aspettative fuori controllo. Nel frattempo la politica ha guardato dall’altra parte lasciando il disagio fuori dall’agenda e senza risposte.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, in Italia oltre 1 giovane su 5 mostra segnali di sofferenza psicologica. Tra gli adulti ansia e depressione coinvolgono circa 1 persona su 4 almeno una volta nella vita. I disturbi d’ansia aumentano anno dopo anno, insieme all’uso di psicofarmaci, soprattutto tra i giovani e tra le donne. Le richieste di supporto psicologico superano da tempo la capacità del sistema pubblico di rispondere in modo adeguato. Le liste di attesa si allungano e in molti casi durano mesi o anni.
In questo contesto stanno emergendo nuovi comportamenti. Un’inchiesta recente del The Guardian racconta che circa un adolescente su quattro utilizza chatbot di intelligenza artificiale per parlare del proprio disagio emotivo. Vengono descritti come presenze sempre disponibili, capaci di ascoltare senza giudicare. Alcuni ragazzi arrivano a considerarli amici.
Questo fenomeno parla soprattutto di solitudine e di mancanza di spazi di ascolto reali; quando una parte crescente di giovani cerca conforto in un algoritmo, il dato riguarda una distanza sempre più ampia tra il bisogno di essere ascoltati e la capacità degli adulti, delle istituzioni e dei servizi di offrire tempo e cura.
Nel nostro paese i servizi di salute mentale pubblici soffrono da anni di sottofinanziamento; il numero di psicologi nel sistema sanitario nazionale resta insufficiente rispetto alla domanda. Il bonus psicologo ha rappresentato un primo riconoscimento del problema, senza però produrre un reale cambiamento.
Nel frattempo il disagio cresce, si cronicizza e spesso si manifesta anche attraverso il corpo.
In questo contesto stanno prendendo forma esperienze che provano a rispondere a un bisogno evidente, mettendo al centro la persona nella sua interezza, includendo corpo, mente ed esperienza emotiva. Oggi, 15 dicembre, verrà lanciata online BastaPensieri.it, una piattaforma italiana di psicologia dedicata alla Mindfulness Psicosomatica.
Il progetto è stato fondato dalla psicoterapeuta Anna Sari, dall’ex ministro Danilo Toninelli ed Emanuele Falzarano, e nasce dall’esperienza clinica e formativa del Villaggio Globale di Bagni di Lucca, centro di riferimento nazionale per la neuropsicosomatica e la mindfulness applicata. La piattaforma propone percorsi di supporto psicologico online, pratiche di consapevolezza corporea, contenuti audio e video, attraverso una rete di professionisti formati in modo specifico su questo approccio.
Colpisce che progetti di questo tipo nascano fuori dai palazzi, lontano dai comunicati, dai convegni e dalle promesse ripetute a vuoto. Prendono forma nella vita reale, dove il disagio si accumula ogni giorno e resta spesso invisibile alle agende politiche. Nascono dall’ascolto di persone che faticano, che si sentono sole, che cercano risposte concrete mentre il dibattito pubblico continua a girare intorno ad altro.
Il servizio pubblico resta un punto essenziale, e proprio per questo iniziative come queste ricordano quanto sia urgente investire davvero nella salute mentale. Quando un ragazzo affida il proprio malessere a un chatbot o quando un adulto convive per anni con ansia, insonnia e stress senza sapere a chi rivolgersi, emerge una responsabilità collettiva. La salute mentale riguarda il modo in cui viviamo insieme, lavoriamo, costruiamo relazioni e partecipiamo alla vita democratica. Trascurarla significa accettare una crescita silenziosa di solitudine e sofferenza.
Riconoscerla e affrontarla vuol dire guardare la realtà senza filtri e iniziare finalmente a prendersene cura.
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Il ritorno del fascismo in Giappone: un monito per il mondo
di Fabio Massimo Parenti
Il mondo sta vivendo, tra cambiamenti epocali ed inerzie del passato, una chiara riemersione di governi e forze politiche neofasciste. In Europa, nelle Americhe e in Giappone, il ritorno o il riemergere di queste forze viene spesso, almeno in Italia, accolto con ingenui e complici sorrisi da parte di coloro che, a digiuno di una seria conoscenza storica del fenomeno, deridono o dileggiano il i sacrosanti moniti contro il rigurgito fascista. Dal laboratorio italiano fino ad esperienze sparse nei vari continenti, il fascismo, e le sue ramificazioni, non è mai stato una parentesi della storia, bensì un fenomeno politico che ha avuto una genealogia che dura fino ai giorni nostri. Illuminante, nella sua accurata e densa riflessione al riguardo, è il volumetto dal titolo “Il fascismo non è mai morto”, uscito recentemente in Italia e scritto dall’autorevole professor Luciano Canfora.
Nello scritto che segue, ci preme concentrarci sul riemergere della questione giapponese, da inquadrare anche in chiave comparativa al fine di coglierne la gravità e le possibili conseguenze che deriverebbero da una sua sottovalutazione. E come vedremo non si tratta di un caso isolato, e nemmeno, come in altri contesti storico-geografici, di forme folkloristiche di revanscismo e sciovinismo di stampo neo-fascista o neo-nazista.
Le posizioni della neo-premier, Sanae Takaichi, sembrano ricollegarsi ad un revisionismo storico preoccupante, riabilitando un linguaggio militare aggressivo e posizioni nazionalistiche radicali. Ciò, unito alle trasformazioni de facto dell’assetto costituzionale giapponese, potrebbe avere gravi ripercussioni non solo per la pace nella regione dell’Asia-Pacifico, ma per il mondo intero. Se si continueranno a dimenticare le lezioni della storia e non si svilupperà un sincero fronte anti-fascista, i drammi del passato potrebbero resuscitare ad una scala incontrollabile, come ci insegnano nell’attualità i casi ucraini, mediorientali ed africani.
Quando si discute del ritorno del militarismo in Giappone, c’è un elemento giuridico potenzialmente esplosivo: la cosiddetta “Enemy State Clause” della Carta delle Nazioni Unite. Stiamo parlando dell’articolo 107 e parti degli articoli 53 e 77 della Carta, che costituiscono un’eccezione al divieto generale dell’uso della forza nei confronti degli Stati che durante la Seconda guerra mondiale facevano parte dell’Asse: Giappone, Germania, Italia e altri paesi a loro alleati. L’articolo 107 afferma che nulla nella Carta invalida o impedisce azioni intraprese, o autorizzate, contro uno “Stato nemico” in conseguenza della guerra. Malgrado queste clausole siano già state considerate obsolete alla luce dei cambiamenti storici, in realtà non sono mai state formalmente cancellate. In linea di principio, la clausola consente ancora misure di “azione coercitiva” contro gli ex Stati dell’Asse senza un nuovo mandato del Consiglio di Sicurezza. Le parole provocatorie e gravi della premier si combinano con le spinte al riarmo di Tokyo, che, ad esempio, Parallelamente, il Giappone ha intrapreso negli ultimi anni un percorso di riarmo accelerato e di revisione dottrinale. La nuova National Security Strategy del 2022 introduce esplicitamente la possibilità di colpire basi nemiche con missili a lungo raggio, pur all’interno del quadro interpretativo della difesa “strettamente necessaria” . Il governo ha inoltre deciso di portare la spesa per la difesa a circa il 2% del PIL entro pochi anni, con un programma di rafforzamento delle capacità militari da 43 trilioni di yen entro il 2027. Secondo i dati recenti di Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), dal 2015 a oggi ha fatto registrare un aumento delle spese militari pari al 49%. In questo contesto, lasciare che un ex Stato dell’Asse assuma nuovamente un ruolo militare offensivo o semi-offensivo – soprattutto in scenari extra-territoriali – significa riaprire un dossier che non riguarda solo l’Asia ma anche l’Europa.
Se si accetta l’idea che il Giappone possa reinterpretare in senso espansivo il proprio ruolo militare pur restando formalmente sotto l’ombrello della Carta, è difficile negare che la stessa logica possa, domani, essere proiettata su altri ex Stati nemici, Germania e Italia in primis. Ciò indebolisce il tabù politico e giuridico – l’intero assetto post-bellico – che ha garantito per decenni la natura strettamente difensiva delle loro politiche di sicurezza, rischiando di mettere ulteriormente in pericolo la pace in Asia e in Europa.
Il militarismo come patologia globale
Il caso giapponese si inserisce in una tendenza più ampia: il ritorno del militarismo come linguaggio politico “normale” e come strumento privilegiato di gestione dei conflitti. In Europa la lingua del militarismo è tornata in auge, almeno negli alti ranghi delle élite dell’Unione e in alcuni governi reazionari come, guarda caso, Italia e Germania, negli Usa il militarismo ha rappresentato il perno dell’espansionismo globale, nonché il tratto culturale di una società che continua a difendere e in larga parte a venerare il culto delle armi, mentre in Asia proliferavano nuove potenze nucleari. Secondo il SIPRI, la spesa militare mondiale ha raggiunto quasi 3 trilioni di dollari, in costante aumento negli ultimi anni. Nel 2024 oltre cento paesi hanno aumentato il proprio bilancio militare, spesso a discapito di investimenti sociali e ambientali. Questo boom degli armamenti alimenta dinamiche di sicurezza competitiva (se un vicino compra missili a lungo raggio, mi sentirò spinto a fare altrettanto), spostando le risorse da sanità, istruzione, transizione ecologica e lotta alla povertà verso il settore militare, e infine rafforzando apparati e culture politiche che tendono a considerare la forza armata come strumento ordinario e non eccezionale di politica estera.
La storia del Novecento mostra dove conducono queste spirali: nel giro di pochi decenni, la combinazione di militarismo, nazionalismo radicale e ideologie razziste ha portato a due guerre mondiali e a forme di violenza di massa senza precedenti. Per questo il ritorno di un linguaggio militare aggressivo, di dottrine basate su “colpi preventivi” e di retoriche che esaltano la “volontà di potenza” non è un fenomeno neutro. Si tratta piuttosto di una regressione storica che mina la base stessa dell’ordine internazionale costruito dopo il 1945.
Il razzismo e l’uso della forza contro gruppi sociali considerati inferiori ha rappresentato e rappresenta il nocciolo di una ideologia che sta resuscitando nella contemporaneità. Lo sterminio accelerato che si sta compiendo in Palestina ad opera dello Stato di Israele e con il beneplacito dell’occidente è forse la manifestazione più aberrante, e solo apparentemente paradossale, di queste tendenze fanatiche ed estremiste.
Radicalizzazione sciovinista nel Giappone contemporaneo
Come sappiamo l’ideologia fascista nella storia non è rimasta confinata alla propaganda: ha prodotto leggi razziali, campi di concentramento, guerre d’aggressione e genocidi. Il fascismo e il nazismo sono stati sconfitti militarmente nel 1945, ma le sue scorie ideologiche non sono mai scomparse del tutto. Nel dopoguerra sono nate, in varie parti del mondo, regimi fascisti e dittatoriali, nonché organizzazioni neo-naziste che riprendono simboli, retoriche e miti del Terzo Reich. Il Giappone non è estraneo a queste dinamiche. Nel 2014 è emersa, ad esempio, una fotografia in cui l’attuale neo-premier Sanae Takaichi, posa con il leader del National Socialist Japanese Workers’ Party, una piccola formazione neo-nazista. La premier ha poi negato di conoscere l’identità del suo interlocutore, ma l’episodio ha suscitato preoccupazione, soprattutto perché si inseriva in un più ampio contesto di revisionismo storico e di gesti simbolici controversi, come le visite ai santuari dove sono commemorati criminali di guerra condannati.
Ancora più rivelatore, sul piano simbolico, è il caso del libro pubblicato nel 1994 da Yoshio Ogai, allora responsabile delle pubbliche relazioni della federazione metropolitana del Partito Liberal-Democratico di Tokyo, dal titolo “Hitler’s Election Strategy: A Bible for Certain Victory in Modern Elections”. Questo volume proponeva le strategie elettorali di Adolf Hitler come modello per i politici giapponesi contemporanei, attingendo anche al Mein Kampf e presentando il dittatore come un maestro di comunicazione politica e di unificazione dell’opinione pubblica, senza menzionare i crimini del regime nazista e la Shoah. La pubblicazione suscitò un’ondata di proteste che portarono al ritiro del libro dal mercato. Il nodo, però, non è solo il contenuto del volume, ma il fatto che nel 1994 una giovane parlamentare destinata a diventare, trent’anni dopo, primo ministro, abbia prestato il proprio nome per promuovere quel testo. Ingenuità? Errore di gioventù all’inizio della sua carriera politica? Sicuramente i contenuti controversi del volume ne suscitavano una sua piena adesione e la condotta che sta tenendo in questi primi mesi di governo non sembrano estranei a posizioni fanatiche di estrema destra. Secondo alcuni osservatori, la promozione fatta all’epoca dalla Takaichi intrecciava l’esperienza personale di militanza con una lettura positiva della “teoria della volontà” proposta in un manuale che usa Hitler come modello. L’idea implicita è che il successo politico derivi dalla capacità di trasformare in energia la propria “volontà” contro i “nemici”, sullo sfondo di una narrativa ampiamente depurata dei crimini del nazismo. Questo episodio, sommato alle altre controversie che circondano alcune figure di punta della destra giapponese contemporanea, segnala un problema più profondo: la banalizzazione dell’immaginario nazista e la sua lenta infiltrazione nel discorso politico mainstream.
Dal punto di vista storico e morale, la rinascita di simbologie e discorsi che riabilitano, anche solo in forma tecnica o allusiva, elementi riconducibili al nazismo è radicalmente incompatibile con l’architettura costituzionale su cui si fondano le democrazie europee. Le Costituzioni nate dalla Resistenza – in Germania come in Italia – non si limitano a proibire la ricostituzione dei partiti fascisti: sanciscono una rottura irreversibile con il culto della forza, con la logica del capo e con la guerra come strumento ordinario di governo dei popoli.
Sul piano strategico, ogni ritorno del militarismo all’interno di una grande potenza industriale – europea o asiatica che sia – alimenta ulteriormente la corsa globale agli armamenti e rafforza complessi militari-industriali ormai in grado di condizionare, con le loro esigenze, la definizione stessa della politica estera. In tale quadro, gli incentivi alla conflittualità diventano strutturali, e la soglia della guerra si abbassa progressivamente, come la storia del XX secolo ha dimostrato con tragica chiarezza.
Per tutte queste ragioni, il dibattito sul Giappone non può essere relegato a una questione interna o regionale. Al contrario, il modo in cui la comunità internazionale – e in particolare gli ex Stati dell’Asse europei – reagirà al riaffiorare di pulsioni militariste e alla normalizzazione di riferimenti, diretti o indiretti, all’immaginario fascista e nazista all’interno di un governo alleato costituirà un banco di prova decisivo per la tenuta dell’ordine internazionale.
Difendere oggi la pace in Asia e in Europa significa rifiutare con fermezza ogni tentativo di riabilitazione, banalizzazione o utilizzo strumentale dell’eredità fascista e nazista; significa riaffermare, contro i nuovi apologeti della “forte volontà”, il primato del diritto internazionale, il controllo democratico delle forze armate e la memoria storica delle vittime. Solo così sarà possibile impedire che le tragedie del passato tornino a riproporsi sotto nuove forme, in un mondo già attraversato da tensioni sempre più pericolose.
L’AUTORE
Fabio Massimo Parenti
è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica
Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha
insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco ed è membro di
vari think tank italiani e stranieri. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021). Su twitter: @fabiomassimos
https://beppegrillo.it/il-ritorno-del-fascismo-in-giappone-un-monito-per-il-mondo/
Florida: la scuola dove il bambino è al centro
di Isaac J.P. Barrow
In Florida si sta consumando un esperimento senza precedenti nel panorama educativo statunitense. Il sistema pubblico tradizionale cede terreno a un modello in cui lo Stato finanzia ogni studente e le famiglie decidono come usarne le risorse. Il risultato è un’istruzione disaggregata, “a la carte”, che in pochi anni ha ridefinito il concetto stesso di scuola, dove il bambino e le sue predisposizioni sono al centro del percorso didattico.
Nelle scuole tradizionali si moltiplicano diagnosi ed etichette: dislessia, discalculia, iperattività. Molti bambini non hanno reali disturbi, semplicemente non si riconoscono in un modello didattico rigido e ripetitivo. Sono curiosi, veloci, creativi, oppure hanno bisogno di muoversi e imparare in modo diverso. L’esperimento della Florida nasce proprio da qui: lasciare che siano le predisposizioni dei bambini a guidare il percorso, non gli schemi imposti da una classe standardizzata. Le famiglie possono comporre un’istruzione su misura, seguendo ciò che funziona davvero per ogni studente.
Nel marzo 2023 la legge HB1 ha introdotto in Florida un programma di voucher scolastici che rende ogni studente eleggibile, indipendentemente dal reddito. Le famiglie ricevono circa 8.000 dollari l’anno per costruire autonomamente il percorso educativo del figlio. I fondi possono andare a homeschooling, microscuole, cooperative, corsi extra e materiali educativi.
Questo sistema si appoggia a riforme nate alla fine degli anni ’90 con Jeb Bush, che introdusse charter school e primi finanziamenti diretti alla scelta educativa. Con HB1 il modello è diventato universale e ha creato un ecosistema estremamente diversificato.
Negli ultimi cinque anni gli studenti istruiti a casa sono cresciuti del 47%, raggiungendo circa 155.000 bambini. Nella contea di Hillsborough, dove si trova Tampa, un bambino su quindici segue programmi educativi indipendenti. Le famiglie utilizzano il voucher per combinare homeschooling, microscuole, cooperative e corsi tematici offerti da oltre mille organizzazioni presenti nell’area. La giornata di un alunno può includere fonetica, scrittura in corsivo, matematica sensoriale, storia delle civiltà antiche, geografia fisica e lezioni pratiche come agricoltura, gestione del bestiame, robotica, teatro, karate o laboratori narrativi. Una parte di queste microscuole adotta principi montessoriani, con materiali manipolativi, ambienti preparati, attività autonome e insegnanti che osservano più che dirigere. Questa trasformazione rende per questo la Florida uno degli stati americani più attivi nel ripensamento dei modelli educativi.
Il confronto con l’Italia mette in luce un divario di approcci. La scuola italiana conserva un’impostazione definita nella prima metà del Novecento, con lezioni frontali, programmi uniformi e valutazioni principalmente scritte. Le tecnologie sono presenti sì, ma l’assetto rimane stabile. Secondo l’OCSE, l’Italia registra uno dei ritmi più lenti di aggiornamento didattico in Europa e gli ultimi dati Invalsi mostrano difficoltà diffuse in lettura e matematica senza cambiamenti significativi nelle pratiche educative.
Il metodo Montessori, nato in Italia nel 1907 come innovazione assoluta, oggi è ampiamente diffuso negli Stati Uniti e inserito in contesti molto dinamici. In Florida è una delle tante opzioni offerte dalle microscuole, mentre in Italia rimane adottato da un numero più contenuto di istituti. La maggior parte degli studenti segue percorsi simili a quelli del secolo scorso, con orari rigidi, poca personalizzazione e una relazione docente-studente ancora molto formale. Le sperimentazioni esistono ma non ridefiniscono l’impianto generale.
Il tema della libertà educativa sta emergendo anche in Italia. La recente storia della famiglia che ha scelto di vivere nel bosco con i propri tre figli, organizzando un percorso educativo profondamente legato alla natura, ha suscitato discussioni ma certamente ha mostrato un interesse crescente verso modelli che integrano ambiente, apprendimento autonomo e tempi decisamente più umani.
Per questo, osservare il progetto educativo del modello Florida può aiutarci a immaginare come l’istruzione possa evolversi, con più libertà, più metodi e più opportunità per i nostri bambini, senza alcun tipo di etichetta o cliché.
L’AUTORE
Isaac J.P. Barrow
– Professore sociologo specializzato in dinamiche sociali globali.
Tutta la sua carriera si è concentrata su globalizzazione e tecnologie
digitali. Ha svolto ricerche in vari paesi ed è autore di studi su
identità culturali e disuguaglianze. Ha collaborato con organizzazioni
internazionali ed è considerato un esperto di politiche sociali ed
inclusione.
https://beppegrillo.it/florida-la-scuola-dove-il-bambino-e-al-centro/
Cina: come il socialismo supera il capitalismo
di G. Cadoppi
Per decenni, il dibattito tra socialismo e capitalismo ha plasmato la vita ideologica, economica e politica del mondo. Dopo il crollo dell’URSS e delle democrazie popolari, il socialismo è stato considerato da molti un’utopia egualitaria incapace di garantire progresso materiale paragonabile a quello capitalistico. Tuttavia, la Cina ha infranto questa visione riduttiva. Sotto la bandiera del socialismo, il gigante asiatico ha costruito un modello originale che combina pianificazione statale, proprietà pubblica strategica e libertà di mercato, dando vita a una crescita economica sostenuta per oltre quattro decenni e a conquiste sociali senza precedenti nella storia moderna.
Un modello che coniuga efficienza e pianificazione
Uno dei pilastri del successo cinese è la capacità di pianificare lo sviluppo economico a lungo termine. Mentre nei paesi capitalistici le decisioni economiche sono determinate da interessi privati, cicli elettorali e pressione dei mercati finanziari, in Cina è lo Stato a definire la direzione strategica dell’economia. Ciò consente un coordinamento molto più efficace di risorse, infrastrutture e innovazione.
Il capitalismo finanziario, intrappolato nella logica del profitto trimestrale, genera delocalizzazione, precarietà, speculazione e bolle speculative. La Cina, con la sua struttura politica centralizzata, può invece realizzare in un decennio ciò che altri paesi impiegherebbero generazioni a completare. La rete ferroviaria ad alta velocità, le città intelligenti e le infrastrutture per l’energia verde sono esempi concreti di questa efficienza statale.
La crisi finanziaria globale del 2008 rese evidente la differenza fra i modelli: la Cina reagì con un piano di stimoli di oltre 500 miliardi di dollari, incentrato su infrastrutture e occupazione, mentre Stati Uniti ed Europa risposero con politiche di austerità e salvataggi bancari che aggravarono disuguaglianze e stagnazione.
La più grande riduzione della povertà della storia
La Cina ha fatto uscire oltre 800 milioni di persone dalla povertà estrema in pochi decenni, un risultato riconosciuto da ONU e Banca Mondiale. Ciò non è avvenuto grazie al libero mercato, ma a politiche pubbliche mirate, pianificazione centralizzata e massicci investimenti statali. Il governo ha applicato un approccio territoriale alla povertà, concentrandosi sulle aree rurali più svantaggiate, con milioni di funzionari impegnati direttamente nelle comunità. Gli investimenti in infrastrutture – alloggi, strade, elettricità, acqua, internet – hanno integrato le regioni marginali nello sviluppo nazionale, dimostrando che senza servizi non c’è inclusione.
Laddove i paesi capitalisti offrono programmi frammentati e condizionati dal profitto, la Cina ha mostrato che uno Stato determinato può sradicare la povertà strutturale in una generazione.
Socialismo con caratteristiche cinesi
Molti si chiedono se la Cina sia un paese socialista o capitalista. La risposta è che la Cina è un paese socialista che utilizza gli strumenti del mercato per rafforzare il proprio sviluppo. Definirla “capitalista” perché ha imprese private, consumi di massa e miliardari è una semplificazione occidentale che ignora la struttura profonda del sistema.
Il socialismo cinese si fonda su quattro pilastri:
- Il ruolo guida del Partito Comunista Cinese (PCC), centro del potere politico e garante della direzione strategica del Paese.
- La pianificazione a lungo termine, che orienta settori chiave come tecnologia, istruzione, sanità, ambiente e difesa.
- La supremazia dell’interesse collettivo sul profitto individuale, con intervento statale nei conflitti fra i due.
- Il controllo statale dei settori strategici (banche, energia, trasporti, telecomunicazioni), garanzia della sovranità economica.
Libertà e controllo sociale
L’idea che in Cina manchino libertà individuali è una semplificazione. I cittadini possono studiare, aprire imprese, viaggiare, scegliere il proprio stile di vita e praticare liberamente la religione. La cultura è dinamica e aperta, e la Costituzione garantisce diritti di espressione e partecipazione politica attraverso le Assemblee Popolari e un sistema meritocratico radicato nel confucianesimo.
Quanto al controllo dei media, la Cina persegue contenuti che minacciano la sicurezza nazionale o la coesione sociale — un comportamento non dissimile da quello di molti Stati occidentali, dove la sorveglianza digitale è anch’essa in crescita. Il controllo cinese, più che ideologico, è finalizzato alla stabilità sociale e alla coesione nazionale.
Il socialismo cinese è dunque un socialismo senza limiti al consumo, in un Paese che produce per sé e per il mondo; un socialismo con cittadini liberi, orgogliosi e soddisfatti del progresso del proprio Paese; e, per la prima volta nella storia, un socialismo che si dimostra più efficace del capitalismo nel generare progresso sociale ed economico.
Il socialismo cinese come compimento del marxismo
Il socialismo cinese è marxista in due sensi fondamentali.
- Sviluppo delle forze produttive. Il socialismo marxista, a differenza di impostazioni etiche o utopiche come il fabianesimo, non rifiuta il capitalismo solo per ragioni morali, ma per superarlo in termini di razionalità economica. Dovrebbe sviluppare le forze produttive fino al punto in cui la produzione abbondante rende obsoleto il valore di scambio. Nei paesi socialisti europei questo non è accaduto: l’economia è rimasta arretrata rispetto a quella capitalistica. La Cina, invece, sviluppando forze produttive d’avanguardia, ha realizzato l’aspetto più autentico del marxismo, dimostrando che il socialismo può essere economicamente più dinamico del capitalismo.
- Esperienza storica e adattamento. Secondo la tradizione del Comintern, il marxismo non è una dottrina astratta ma un’esperienza storica vivente del movimento dei lavoratori. Il socialismo cinese è vitale perché ha imparato dall’esperienza propria, da quella di altri paesi socialisti e perfino da quelle capitaliste. Il marxismo cinese è una sintesi storica di successi, errori e sperimentazioni concrete: non teoria astratta, ma prassi storica che ha portato risultati tangibili come la vittoria contro la povertà.
Superare la crisi del socialismo reale
Il modello cinese sembra avere risolto i problemi strutturali che avevano determinato la crisi del socialismo sovietico e delle democrazie popolari. Ciò che molti in Occidente scambiano per “liberismo” o “neo-keynesismo” è in realtà la specificità del socialismo di mercato cinese, nel quale anche le imprese statali competono tra loro, garantendo efficienza e dinamismo. Questo sistema supera sia il socialismo sovietico, stagnante per assenza di mercato, sia il socialismo di mercato dell’Europa orientale, che si era ridotto a un’economia mista con concorrenza debole e proprietà statale eccessiva.
Le imprese statali dei paesi capitalistici (quando ancora esistevano) hanno sofferto spesso di inefficienza e scarsa redditività; quelle cinesi, invece, operano in un ambiente competitivo e pianificato, che ne accresce la produttività. L’economia cinese è oggi una delle più dinamiche al mondo, superando in continuità e ritmo di sviluppo le economie capitalistiche più avanzate.
La società cinese è inoltre una delle più aperte e liberali tra i paesi socialisti, impegnata nella costruzione di un autentico Stato socialista di diritto e di una democrazia consultiva e deliberativa capillare.
Sul piano internazionale, la “Nuova Via della Seta” rappresenta la
proiezione esterna di questa visione: cooperazione, infrastrutture e
interconnessione come strumenti di sviluppo condiviso.
L’Occidente e il paradosso della critica sterile
Il marxismo nacque in Occidente per
spiegare le società industriali avanzate, ma il socialismo ha trionfato
in paesi arretrati. Oggi, paradossalmente, proprio in Occidente il
socialismo è uscito dal dibattito politico, mentre alcuni si arrogano il
diritto di insegnare ai cinesi come si costruisce il “vero socialismo”.
Invece di domandarsi perché i partiti marxisti sono scomparsi dalle
società occidentali, molti intellettuali preferiscono criticare chi sta
realmente sperimentando modelli socialisti efficaci.
La logica vorrebbe che chi ha realizzato un socialismo funzionante potesse
insegnare qualcosa a chi non ci è mai riuscito. Ma l’Occidente,
imprigionato in un atteggiamento di critica permanente, ha smarrito la
dimensione propositiva. Se fosse per le sole critiche, il capitalismo
sarebbe morto da decenni.
La sinistra occidentale, incapace di produrre
alternative concrete, osserva con sospetto chi, come la Cina, costruisce
passo dopo passo un socialismo moderno, efficiente e stabile.
I comunisti cinesi sono degli sperimentatori ma la sinistra peripatetica (o forse semplicemente patetica) occidentale si rifiuta di guardare il mondo attraverso il cannocchiale di Deng pensando che il cielo del socialismo sia formato da sfere di cristallo immutabili.
In sintesi: la Cina ha dimostrato che il socialismo può non solo sopravvivere al capitalismo, ma superarlo in efficienza, sviluppo e capacità di risolvere i problemi sociali. È un socialismo pragmatico, nazionale e moderno — un sistema che, pur rimanendo fedele al marxismo nella sua essenza storica e produttiva, ne ha adattato la forma alla realtà del XXI secolo.
https://beppegrillo.it/cina-come-il-socialismo-supera-il-capitalismo/
Trentino: la telemedicina migliora la vita ai pazienti cardiaci
Il Trentino dimostra che la cura può davvero arrivare vicino alle persone. Una ricerca pubblicata su Journal of Cardiovascular Development and Disease ha seguito 211 pazienti con scompenso cardiaco grazie all’app TreC Cardiologia integrata nella piattaforma TreC+. I risultati mostrano un miglioramento evidente per la salute e per la vita di queste persone.
Nata dalla collaborazione tra l‘Unità Operativa di Cardiologia dell’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari, e la Fondazione Bruno Kessler, la ricerca ha mostrato come, per il gruppo monitorato, la percentuale di ricoveri per scompenso cardiaco sia scesa dal 25,6% al 4,7%.
Meno accessi in ospedale significa meno stress per i pazienti e un sistema sanitario più leggero e capace di concentrare l’attenzione su chi ne ha realmente bisogno.
Grazie al monitoraggio a distanza si è registrata anche una riduzione delle visite ambulatoriali. La comunicazione tra paziente, infermiere e cardiologo è continua. Se qualcosa cambia nella pressione o nel peso o negli altri parametri rilevati dall’app l’equipe può intervenire rapidamente con un contatto telefonico o un appuntamento in presenza solo quando serve davvero.
Il progetto ha permesso di ampliare la presa in carico da parte della cardiologia di Rovereto. Secondo i responsabili del progetto il servizio di cardiologia è passato dal seguire circa 300 pazienti a oltre 800 pazienti con scompenso cardiaco grazie all’introduzione del telemonitoraggio.
Questa innovazione è particolarmente importante in una realtà come il Trentino. Le distanze dagli ospedali e la presenza di molti piccoli centri rendono difficile per chi è fragile spostarsi spesso per controlli. La tecnologia diventa quindi uno strumento di equità sociale portando la cura dove la vita non permette di raggiungerla facilmente.
Le malattie del cuore restano una delle sfide più grandi per la salute pubblica. In Europa rappresentano ancora tra le principali cause di morte. Lo scompenso cardiaco in Italia interessa circa l’1,7% della popolazione e in particolare gli over 65 subendo un aumento progressivo negli ultimi anni a causa dell’invecchiamento generale.
Questo studio mostra che i numeri possono cambiare. Quando la sanità decide di investire nell’organizzazione e nella prossimità la qualità della vita delle persone migliora. Con un progetto come TreC Cardiologia le visite inutili diminuiscono il rapporto tra paziente e medico si rafforza la cura diventa più umana e più efficiente allo stesso tempo.
Il Trentino ha cosí dimostrato che è possibile, perché dunque non estendere questo modello su tutto il nostro territorio?
https://beppegrillo.it/trentino-la-telemedicina-migliora-la-vita-ai-pazienti-cardiaci/
MATTEO RENZI LE CANTA AL GOVERNO E SCATENA IL CAOS AD ATREJU!
MATTEO RENZI LE CANTA AL GOVERNO E SCATENA IL CAOS AD ATREJU! L'EX PREMIER ROTTAMATORE INFIAMMA IL DIBATTITO SULLE RIFORME COSTITUZIONALI CON I MINISTRI CALDEROLI E CASELLATI - AL LEGHISTA RIFILA UNA BORDATA: “AL MOMENTO L’AUTONOMIA È NEL LIBRO DEI SOGNI. POI SE RIUSCITE A FARLA SPERO SIA MENO PORCATA DELLE ALTRE COSE CHE HAI FATTO”- IL BOTTA E RISPOSTA CON LA CASELLATI A CUI RICORDA: "LE RIFORME COSTITUZIONALI SI FANNO INSIEME" – I DUE CONTINUANO A LITIGARE ANCHE A DIBATTITO CONCLUSO CON L’EX PRESIDENTE DEL SENATO CHE RINCORRE RENZI PER DIFENDERE LA SUA RIFORMA – SUL PALCO ARRIVA CROSETTO PER LIBERARE MATTEONZO DALLE GRINFIE DELLA CASELLATI – RENZI SU INSTAGRAM: "POSSONO FISCHIARMI, PER ME E' UN VANTO. NON MI TIRERO' MAI INDIETRO DI FRONTE A UN CONFRONTO" - VIDEO
Estratti da open.online
È stato a dir poco acceso il dibattito ad Atreju sull’autonomia. Alla manifestazione di Fratelli d’Italia hanno condiviso il palco tre esponenti della maggioranza (il ministro Roberto Calderoli, la ministra Maria Elisabetta Casellati e il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli), mentre per l’opposizione è stato invitato Matteo Renzi.
Ed è proprio il leader di Italia Viva il primo ad accendere lo scontro: «Sull’autonomia quello contro è Rampelli. Ai giovani di Atreju dico: “Sull’autonomia quelli contro erano quelli di Alleanza Nazionale. Quando noi abbiamo proposto la riforma del Titolo V, Meloni diceva di voler abolire le regioni. Se avete cambiato idea sull’autonomia aspettiamo che veniate a dircelo in Parlamento».
giovanni donzelli guido crosetto matteo renzi fabio rampelli bruno vespa atreju 2025
(...) Renzi non ci sta e continua ad accusare FdI di aver cambiato posizione: «Noi entro stasera pubblicheremo il video in cui Giorgia Meloni dice di voler abolire le regioni, cambiare idea è un segno di intelligenza». E Rampelli: «Allora tu sei un fenomeno».
Il ministro Calderoli si intromette e prova a dare man forte al collega di maggioranza: «Matteo, ma lo fai tu il moderatore o lo fa Vespa?». Ma anche per l’esponente leghista, Renzi ha la battuta pronta: «Al momento l’Autonomia è nel libro dei sogni. Poi se riuscite a farla, spero sia un po’ meno porcata delle altre cose che hai fatto», attacca l’ex premier. Poi rispondendo a una domanda dice: «Come ho votato sul premierato? Per ora ha votato la Camera, al Senato la stiamo ancora aspettando». Ma il leader di Iv sbaglia il ramo del Parlamento e la ministra Casellati lo bacchetta: «Si vede che al Senato non ci sei mai…».
fabio rampelli matteo renzi atreju 2025
In chiusura del panel, Renzi si scontra di nuovo con la ministra Casellati, accusata di aver bocciato un emendamento di Italia Viva sulle riforme istituzionali. «Le riforme costituzionali si fanno insieme e abbiamo sempre detto che siamo disposti a farlo. Io combatto per le mie idee e per me è un vanto essere fischiato», ha incalzato il senatore di fronte a qualche mormorio della platea. «Matteo, hai finito il comizio», dice alzandosi il ministro Roberto Calderoli.
«Robertino, stai sereno», controbatte Renzi. Le scintille proseguono anche quando i relatori lasciano le sedie e sono in piedi per le foto finali. A quel punto, è il responsabile Organizzazione di FdI, Giovanni Donzelli, a prendere il microfono e ringrazia il leader di Iv: «Qui non ti ha fischiato nessuno». Sul palco, alla fine, arriva anche il ministro Guido Crosetto, che, scherzando, prende in braccio di peso Renzi come a volerlo portare via.
https://www.dagospia.com/politica/renzi-attacca-governo-scatena-caos-ad-atreju-bordate-calderoli-casellati-e-457223




