di Pino Ciociola
La
vita, l'amore per la legalità e l'ambiente, l'amarezza per le troppe
impunità. Guido Conti è stato trovato morto venerdì sera nella sua auto,
un colpo alla testa. E molto resta da capire
21 novembre 2017

Sembrò amareggiato.
«Rarissimamente si arriva a qualche condanna di primo grado. La dice
lunga sulla capacità di contrastare questo fenomeno» ed «è piuttosto
frustrante». Ripeté per due volte ai commissari la stessa frase: «Questo
lo diciamo da vent’anni». Era il 25 febbraio 2016. Il generale
Guido Conti veniva ascoltato dalla “Commissione parlamentare d’inchiesta
sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti”, com’era già
successo altre volte. Sarebbe stata la sua ultima audizione. Un colpo alla testa, le sue pistole accanto: hanno trovato il corpo del generale nella sua auto, venerdì sera. Aveva cinquantotto anni.
Un uomo sobrio. Mai sopra le righe. Il suo dovere non era solo tale, era anche la sua passione. Non amava le interviste, né troppe parole. Servitore dello Stato, espertissimo di crimini ambientali, aveva condotto e stava conducendo inchieste di primo piano. Aveva scoperto la discarica dei veleni di Bussi, la più grande d’Europa, e i processi finirono con le condanne di ex dirigenti Montedison, aveva indagato in Umbria sulla Gesenu, inchiesta ancora in corso, e arrivarono sequestri d’impianti, aveva svelato la truffa degli scarti alla Thyssen e molto altro. Chi lo conosceva bene, sapeva quanto poco fosse amato dalla politica. Sapeva quanto fosse considerato “uno che risponde solo alla legge”, che avrebbe portato un’inchiesta fino in fondo chiunque avesse riguardato, che non avrebbe mai rinunciato a indagare se fosse stato necessario a proteggere la gente.
Un uomo sobrio. Mai sopra le righe. Il suo dovere non era solo tale, era anche la sua passione. Non amava le interviste, né troppe parole. Servitore dello Stato, espertissimo di crimini ambientali, aveva condotto e stava conducendo inchieste di primo piano. Aveva scoperto la discarica dei veleni di Bussi, la più grande d’Europa, e i processi finirono con le condanne di ex dirigenti Montedison, aveva indagato in Umbria sulla Gesenu, inchiesta ancora in corso, e arrivarono sequestri d’impianti, aveva svelato la truffa degli scarti alla Thyssen e molto altro. Chi lo conosceva bene, sapeva quanto poco fosse amato dalla politica. Sapeva quanto fosse considerato “uno che risponde solo alla legge”, che avrebbe portato un’inchiesta fino in fondo chiunque avesse riguardato, che non avrebbe mai rinunciato a indagare se fosse stato necessario a proteggere la gente.
«Ho infastidito
i colossi», confidò a un amico. Sembrò davvero amareggiato durante
quell’audizione, meno di due anni fa: «Attualmente – disse - il campo
dello smaltimento dei rifiuti in genere, di qualsivoglia natura, è uno
dei grandi business in cui, chiunque abbia intenzione di prenderlo in considerazione, con gli attuali strumenti legislativi, sia di regolamentazione, sia di contrasto, ha gioco discretamente facile».
Comandava il Corpo forestale in Umbria. Fece un esempio. «Abbiamo
attenzionato il 10-12% delle aziende umbre e delle industrie che si
rilevavano dalle Camere di commercio e dalle associazioni di categoria,
con particolare attenzione a quelle che avevano a che fare con rifiuti
di tipo pericoloso. Fatta una somma di tutti i rifiuti prodotti, o che
abbiamo sequestrato, o di tutte le attività di controllo sia in loco,
sia dai registri, sia dalle bolle, abbiamo acclarato che i quantitativi
di rifiuti smaltiti da questo 10-12% di aziende ammontavano all’intera
autodenuncia di quell’anno. Questo significa due cose: o l’altro 90%
delle industrie non smaltisce nulla o l’autodenuncia, così come prevista
dall’attuale normativa, ha una discreta fallanza».
I commissari volevano cercare di capire proprio la situazione umbra. Insieme a Conti ascoltarono anche Luigi De Ficchy,
capo della Procura di Perugia. «Sul ciclo dei rifiuti – spiegò – è
emerso un sistema di illegalità che riguarda una classe di politici,
professionisti e imprenditori che sono nel settore e sembrano
interessarsi del ciclo dei rifiuti con una certa ottica, che è quella
del profitto personale, del profitto imprenditoriale al di là di ogni regola».
Il
Procuratore parlò anche dell’inchiesta che proprio il generale Conti
stava conducendo: «All’interno di una discarica gestita da Gesenu, a
Pietramelina – disse De Ficchy – è emerso con evidenza che veniva
sversato quello che non doveva essere sversato. È tragico che si è
inquinato in maniera veramente pericolosa un intero territorio». E
ancora: «Già adesso, sia dai consulenti che da quanto emerso dalla
relazione dell’Arpa, viene fuori che il territorio è stato in gran parte disastrato»
e «sembrerebbe proprio fatto con estrema consapevolezza, questa è la
cosa più dolorosa». Perché «si spera sempre che ci sia un atteggiamento
di errore, mentre qui sembra che sia stato fatto coscientemente».
Confermò Walter Ganapini,
direttore di Arpa Umbria: «Per quanto riguarda i tre principali
impianti di trattamento dei rifiuti organici in Umbria, a Pietramelina,
Casone e Le Crete, il tema della flessibilità e che tipo di percorsi
autorizzativi le autorità competenti hanno posto in essere, io posso
dire che ci sono cose che lasciano a desiderare. Di cui abbiamo già abbondantemente parlato con gli organi di polizia con i quali lavoriamo».
Aveva il quadro nitido della situazione, il generale. Lo mostrò ai commissari. «Le leggi sull’ammendamento sui terreni sono facilmente aggirabili
da parte di chiunque voglia smaltire illegalmente, perché le quantità
sono poche, blande, e i limiti sono piuttosto facili da aggirare, anche
perché basta aggiungere acqua al prodotto finale per abbassarli», disse
Conti. Spiegò bene come funzionasse il gioco sporco: «Esistono persone
professionalmente atte a fare una semplice cosa: mettere in contatto chi
ha bisogno di smaltire grandi quantità di rifiuti con chi li accoglie».
Spiegò anche i termini. «Uno dei campi di maggiore interesse è quello
dei fanghi di depurazione. L’intermediazione è offrire
possibilità di guadagno al proprietario che abbia superfici di
cinquanta, sessanta ettari. Si realizza non solo in Umbria, ma spesso
anche in Toscana e altrove, perché loro non hanno limitazioni territoriali,
si muovono e in un mese saturano di migliaia di tonnellate di fanghi
aziende che secondo la legge dovrebbero accogliere questi stessi fanghi
in un anno».
Il generale Conti era nato a Sulmona, in Abruzzo. Per meriti speciali, a quarantotto anni era stato nominato Commendatore della Repubblica. Legambiente diede per la prima volta a un ufficiale della Forestale, lui, il suo premio
“Ambiente e legalità”. Il 21 ottobre 2017, alla conferenza stampa per
il suo addio all’Arma spiegò che «trentacinque anni di servizio, credo
onorato, non si dimenticano dall’oggi al domani» e nemmeno «tante
operazioni fatte e tante attività volte solo ed esclusivamente alla
sicurezza sociale in campo ambientale». Il suo senso dell’onore lo avevano colto in molti.
Andava
dritto al cuore dei problemi. Lo fece anche diciotto anni fa, in
un’altra audizione davanti al quella stessa Commissione bicamerale.
«Abbiamo denunciato centinaia di persone – disse ai parlamentari
il 14 dicembre 1999, quando era comandante provinciale della Forestale a
Pescara -, ma riteniamo che saranno pochissime quelle per cui si
arriverà a una condanna e non per cattiva gestione della magistratura».
Non nascose l’indignazione. «Assistiamo all’impunità di
persone che acclaratamente hanno svolto attività di cui abbiamo prove
sistematiche, quali i carichi citati a uno a uno, gli orari, i giorni, i
mezzi che hanno usato le persone che li hanno guidati, i nomi dei
soggetti da cui hanno avuto l’incarico e quelli che hanno fatto da
intermediari, conosciamo le carte che sono state presentate alle varie
industrie e c’è di tutto. Chi per risparmiare si è affidato a chi
gli si presentasse dicendo d’avere le carte in regola, chi ha affidato
lo smaltimento dei rifiuti a persone che non conosceva e senza sapere
che fine facessero quei rifiuti». Riportò casi precisi: «Ci siamo
trovati di fronte a discariche nelle quali i camion entravano per poi
uscire con bolle completamente cambiate rispetto al carico che
portavano. Cerchiamo di contestare il falso in atto pubblico, c’è stato
risposto che la bolla di accompagnamento non è un atto pubblico e in
effetti non lo è. Abbiamo pensato al falso in registrazioni, ma
presuppone un registro, non una bolla».
Il generale, come sempre, non volle tacere: «Si prescrive
tutto. Sappiamo benissimo che lavoriamo per la gloria», disse ai
commissari. Però ricordò loro anche quando, pochi giorni prima, «a casa
mia è venuto un muratore a fare dei lavori e piangeva perché sua figlia
di sette anni era morta di tumore». Perciò «sappiamo anche benissimo che continueremo a lavorare».
Non
aveva vita facile. Anche questo raccontò quel febbraio 2016 in
Commissione. Come alcuni volessero evitare d’averlo fra i piedi.
«Intorno al lago Trasimeno – spiegò - c’è un impianto di compostaggio di
una ditta di cui adesso non ricordo il nome, che fu da me attenzionato e
coinvolto in un’indagine che riguardava gli smaltimenti dei fanghi dal
depuratore di Pescara. Vi furono in quella indagine anche
intercettazioni telefoniche in cui si parlava di organizzare un mio possibile trasferimento
in alto loco e la cosa ci fece un po’ sorridere». Non fosse che venne
in seguito a sapere «che l’intercettazione fu riportata da un nostro
agente del Corpo forestale nel processo che si è consumato dopo».
Alla fine di ottobre, con otto anni d’anticipo, aveva appunto lasciato l’Arma. «Mi hanno fatto una proposta irrinunciabile», diceva. Per andare a fare il dirigente alla Total e occuparsi soprattutto del settore della sicurezza ambientale. Si era dimesso poco dopo.
Un colpo alla testa,
le sue pistole accanto: hanno trovato il corpo del generale nella sua
auto, venerdì sera, in una stradina fra Sulmona e Pacentro. Aveva
cinquantotto anni. Sarà l’indagine a capire se si è suicidato. Avrebbe
scritto tre lettere, in una di queste racconta ciò che è legato al hotel Rigopiano: «Da
quella tragedia la mia vita è cambiata, quelle vittime mi pesano come
un macigno perché tra i tanti atti ci sono prescrizioni a mia firma», che risalgono al 2007, quand’era comandante della Forestale a Pescara. Firme, non per l’hotel, «di
cui non so nulla, ma per l’edificazione del centro benessere dove solo
poi appresi che non ci furono vittime. Pur sapendo e realizzando che il
mio scritto era ininfluente ai fini della pratica autorizzativa mi sono
sempre posto la domanda: potevo fare di più? Potevo prestare attenzione
in indagini per mettere intoppi oppure ostacolare in qualche modo quella
pratica? Probabilmente no, ma avrei potuto forse creare problemi,
fastidi. Pur non conoscendo neppure un rischio valanghe, anche perché il
Cta non ne notiziava neppure all’ufficio di Pescara, e ignorando la
cosa del tutto, vivo con il cruccio. Potevo fare di più? Non lo so. Vivo con questa domanda».
Venerdì
è giunta una telefonata alla segreteria telefonica del sito
"Primadanoi". Un uomo, con la voce camuffata, avrebbe annunciato le
dimissioni dalla Total del generale Conti. La sua morte sarebbe avvenuta
fra le 16 e le 17 e quella telefonata è delle 15. La Procura di Sulmona
ha intanto aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. La lettera
del generale continuava: «Rigopiano è stato uno dei motivi che
mi ha convinto a lasciare il mio lavoro, o a tentare di fare altro, o a
disinteressarmi di tutto questo. Ho cercato di non pensarci, trovare
altri stimoli, avventure, progetti inutili. Non vivo, vegeto facendo
finta di essere vivo. Rispettate la mia famiglia, fate che cada il
silenzio». Infine chiude con una parola che continua a tornare in mente: «Onoratemi».
Tre
settimane fa, sul suo profilo di un social network scrisse un post che
lasciava intendere qualcosa d’inquietante, profilo che oscurò poco dopo.
Quel post non riguardava affatto le vicende del Rigopiano.
https://www.avvenire.it/attualita/guido-conti-il-generale-delle-grandi-inchieste-che-infastidirono-i-colossi_30934
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