Massimo Franco, Andreotti inedito nelle lettere alla moglie
Nuovi documenti nella riedizione del libro edito da Solferino
Giulio Andreotti scriveva alla moglie Livia chiamandola quasi sempre
Liviuccia, qualche volta 'caro scoglio': non si capisce se perché per
lui era un appiglio o un ironico ostacolo. L'uso del vezzeggiativo è
solo una delle sorprese che emergono dalle lettere finora inedite che Massimo Franco, inviato e notista politico de Il Corriere della Sera, ha raccolto nella nuova edizione del suo libro "C'era una volta Andreotti - Ritratto di un uomo, di un'epoca e di un Paese"
(SOLFERINO, 528 PP, 16 EURO) pubblicato nel 2019 a 100 anni dalla
nascita, come aggiornamento del primo volume sulla figura del Divo
Giulio che risale al 2008.
L'autore, scavando ancora nell'immenso lascito di una figura unica nel
panorama del potere in Italia per longevità, sopravvivenza agli
scandali, dimestichezza con gli apparati dello Stato, ha trovato nuovi
documenti che fanno luce sia sulla sua attività pubblica, che sulla sua
sfera privata. Dettagli e retroscena sulla gestione del potere in larga
parte del secolo scorso, ma anche nuovi elementi sulla sua vita
coniugale, rimasta a lungo misteriosa. Dall'Archivio Apostolico
Vaticano sono spuntate, ad esempio, carte che confermano il suo ruolo
tra le due sponde del Tevere: nel dopoguerra i Savoia si raccomandavano
ad Andreotti tramite la Santa Sede e il Vaticano era consultato da lui
anche per la nomina di un giudice costituzionale. I suoi diari, invece,
aiutano a ricostruire i retroscena di eventi con molti protagonisti di
rilievo. Non solo la sua ben nota e arguta ironia, ma anche un
legame profondo e un modo di relazionarsi in maniera particolarmente
affettuosa, che stride con l'immagine austera dell'uomo politico,
emergono dalle lettere in cui l'ex presidente del Consiglio si confida
con la moglie 'Liviuccia', finora inedite. I figli hanno trovato
le buste nel fondo di una vecchia scrivania nell'appartamento di corso
Vittorio Emanuele II a Roma. In quelle pagine - scrive l'autore - scorre
il trantran ministeriale di un marito in città o fuori per lavoro,
mentre moglie e quattro figli sono al mare o in montagna, o aspettano il
suo ritorno a Roma. Le prime lettere portano la data del 1947, quando
Andreotti cominciava ad affacciarsi ai piani alti del potere politico, e
si fermano più o meno a metà degli anni Sessanta. Trecento
missive che proiettano in un mondo orami lontano, nel quale Andreotti
non si faceva bastare il telefono per comunicare con la moglie, ma si
confidava con lei, coltivando evidentemente anche il piacere della
scrittura con la sua calligrafia minuta. Le raccontava le sue giornate,
dove mangiava, descrivendo minuziosamente pranzi o cene, chi incontrava,
come le venditrici di sigarette che lo salutano calorosamente a piazza
San Silvestro. Sullo sfondo della Roma del dopoguerra, spuntano qua e là
anche frammenti di storia, come il racconto dell'ictus che colpisce il
presidente della Repubblica Giovanni Segni nel 1964 o l'elezione di Papa
Paolo VI nel 1963. Andreotti concludeva la corrispondenza con
lei firmandosi a volte Giulio, altre Iulius, in latino, anche
sottolineando la firma. Curiosità, indizi, racconti che squarciano il
velo su un rapporto durato 60 anni che Andreotti ha tenuto riservato per
tutta la vita, e che oggi aiutano a comprendere una personalità
complessa e centrale nella storia recente del nostro paese. Il suo
pessimismo sulla natura umana e la capacità affrontarlo con profonda
ironia, che ancora oggi, in un mondo del tutto cambiato rispetto a
quello in cui ha vissuto, continuano ad affascinare gli italiani.
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