mercoledì 11 aprile 2018
Winnie Mandela, la truffatrice pluriomicida che bruciava vivi i “traditori”
Roma, 3 mar – “La paladina della lotta contro l’apartheid”, colei che “fece innamorare Nelson Mandela alla fermata dell’autobus”, la “madre del Sudrafrica” che rappresentava la liberazione dei neri perseguitati. Winnie, la moglie di Madiba, morta ieri a 81 anni, è descritta così nei titoli dei giornali di mezzo mondo. Una sorta di eroina con giusto qualche macchia quasi inevitabile per chi ha vissuto a lungo in prima linea lottando contro le ingiustizie. Il classico personaggio intoccabile, pena l’accusa di razzismo sic et simpliciter. Eppure, come sovente accade, se volessimo evitare di cadere nel banale compianto, e noi da bravi cocciuti vogliamo proprio evitarlo, si scoprono facilmente diversi scheletri nell’armadio di questa icona del secolo scorso.
Chi era dunque Winnie Mandela? Giudicata prorompente e di una bellezza folgorante, sposò Madiba e da lui ebbe due figli. A differenza di Nelson, la signora Mandela fu per tutta la vita una strenua sostenitrice della violenza politica. Facilmente traducibile con: violenza nei confronti dei bianchi considerati oppressori. Per molti anni a capo dell’African National Congress Women’s League, è stata poi membro del Comitato Esecutivo Nazionale dell’ANC. Nel 1986 venne coinvolta nei casi cosiddetti di ’necklacing’ (la tortura dello pneumatico), quando sospetti traditori furono bruciati vivi con questa atroce tecnica: veniva messo loro sulla testa uno pneumatico imbevuto di benzina, al quale veniva dato fuoco. Necklacing, da necklace, collana, perché in molti casi le vittime venivano legate mani e piedi e poi veniva messo loro uno pneumatico al collo, a volte forzandolo sulle spalle per immobilizzarle, proprio come una collana stretta al massimo. Si tratta di una tecnica di tortura inventata negli anni ottanta in Sudafrica e tuttora particolarmente in voga tra gli spacciatori di droga brasiliani, che l’hanno ribattezzata micro-ondas, con il chiaro riferimento al forno a microonde. “Con le nostre scatole di fiammiferi e le nostre collane libereremo questo Paese”, dichiarò entusiasta la paladina della lotta contro l’apartheid.
Nel 1987 Winnie Manedale fu condannata a sei anni per complicità in rapimento e aggressione nell’ambito del caso dell’uccisione del 14enne Stompie Moeketsi, accusato di essere un agente del regime bianco. Condanna poi ridotta in appello al pagamento di una semplice sanzione. Con i fondi dei sostenitori residenti all’estero, la signora Mandela si costruirà in seguito una villa a Soweto, giusto per rimarcare l’importanza del riscatto dei neri. Nel 1992 fu accusata di aver ordinato l’uccisione del dottor Abu-Baker Asvat, medico di famiglia indiano che curava gratuitamente i poveri di Soweto. Il ruolo della signora Mandela fu successivamente dimostrato nel corso delle udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione nel 1997. L’assassino, un ventenne zulu di nome Cyril Mbatha, dichiarò durante il processo che fu Winnie Mandela a dargli personalmente la calibro 9 con la quale commise il delitto, offrendogli una ricompensa di 20 mila rand (sette milioni di lire). Nel 1995 il marito Nelson la licenziò dal governo perché accusata di corruzione.
La Commissione per la verità e la riconciliazione sancì la “responsabilità politica e morale per le gravi violazioni dei diritti umani” commesse dalla donna durante gli anni della lotta anti apartheid. Come se non bastasse, l’immagine di Winnie venne definitivamente compromessa dopo le accuse mossele dalla sua guardia del corpo, Jerry Musivuzi Richardson, che le imputò diversi rapimenti e uccisioni. Dulcis in fundo, nel 2003 l’ormai ex moglie di Madiba fu giudicata colpevole di 43 capi di imputazione per frode e 25 per furto per un totale di un milione di rand (circa 80mila euro). Venne condannata a cinque anni di carcere duro, ma anche questa volta le fu ridotta la pena a tre anni e mezzo con la condizionale. Un curriculum di tutto rispetto, praticamente immacolato.
Eugenio Palazzini
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Frollini71
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