sabato 28 giugno 2014

Yasunizzare il mondo

La terra, attraverso la sua vegetazione e gli oceani, non riesce più ad assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dall’economia capitalista. Per questo la proposta di lasciare sottoterra una parte di petrolio, carbone e gas, adottatata ad esempio nel parco di Yasuní, in Ecuador, è ragionevole quanto urgente. La proposta in realtà era partita dal Delta del Niger, dove molti utilizzano il termine «ogonizzare» invece di «yasunizzare» (yasunizar), perché dopo il 1995, in seguito alla morte del poeta ribelle Ken Saro-Wiwa, gli Ogoni sono riusciti a espellere dal loro territorio la Shell per molti anni. Oggi sono sempre più, in diversi angoli del mondo, coloro che resistono per yasunizzare il mondo.
di Joan Martinez Alier*
20110813_MAP003Nel maggio 2013, la stampa internazionale ha evidenziato la presenza di una grande quantità di combustibili fossili non utilizzabili. Carbone unburnable («non bruciabile») è diventata subito una parola buzz (nel marketing è l’insieme delle operazioni di promozione non convenzionale con cui si cerca di aumentare il numero delle conversazioni riguardanti un prodotto o un servizio, ndt) sull’Economist e il New York Times. Se le riserve di petrolio, gas e carbone continueranno a essere sfruttate alla velocità attuale, non vi sarà alcuna possibilità di limitare la concentrazione di anidride carbonica al di sotto di 500 parti per milione (ppm).
Una parte consistente di tali riserve deve quindi rimanere sotto il suolo. Il Grantham Institute della London School of Economics ha prodotto una relazione che dimostra l’esattezza delle politiche adottate a partire dal 1997 da Oilwatch, ossia lasciare il petrolio sottoterra, inoltre annuncia che il valore monetario delle riserve di combustibili fossili è destinato necessariamente a scendere qualora si intervenisse concretamente contro il cambiamento climatico. L’Economist (4 maggio 2013, «Combustibili non bruciabili» – «Unburnable Fuels») boccia alcune «soluzioni tecnologiche» quali sequestro del carbonio e geoingegneria.
I primi articoli sui cambiamenti climatici? 1896
Quando Svante Arrhenius, chimico svedese e premio Nobel, ha pubblicato i primi articoli sui cambiamenti climatici nel 1896, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera era pari a 300 ppm. Oggi, questo dato sta raggiungendo quota 400 ppm, con un aumento di 2 ppm all’anno. Arrhenius ha spiegato che, con la combustione del carbone estratto dal sottosuolo, i paesi industrializzati stavano rilasciando nell’atmosfera una quantità sempre maggiore di anidride carbonica e ciò avrebbe determinato un aumento delle temperature. Arrhenius non poteva sapere che, nel ventesimo secolo, la combustione di carbone in tutto il mondo sarebbe aumentata di ben sette volte e che, oltre al carbone, sarebbe stata utilizzata una quantità ben superiore di petrolio e gas naturale; senza contare gli effetti della deforestazione.
La nuova vegetazione e gli oceani non riescono ad assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dall’uomo. Bruciando del tutto le attuali riserve di combustibili fossili, creeremmo un clima preistorico simile a quello che la Terra conobbe milioni di anni fa. Noi li estraiamo, li «stappiamo» e li bruciamo troppo in fretta. L’effetto serra (chiamato così da Arrhenius) così amplificato aumenterà sempre più rapidamente.
In questo senso la proposta di lasciare sottoterra una parte di petrolio, carbone e gas è chiaramente ragionevole. Dobbiamo dimezzare il tasso di estrazione di combustibile fossile. Questa proposta arriva dai luoghi nei quali l’estrazione di petrolio, carbone o gas sta causando danni significativi; ad esempio, l’Amazzonia di Ecuador e Perù o il Delta del Niger. In Messico, il petrolio ha provocato un ingente danno ambientale a Tabasco e Campeche e nel 2010 BP ha causato una fuoriuscita importante nel Golfo del Messico. A ciò si aggiungono i disastri derivanti dalle miniere di carbone in Colombia, Cina e India, nonché dall’estrazione di sabbie bituminose in Canada.
Un parco no oil
Biod-Yasuni_1In Ecuador, al centro del mondo, l’organizzazione Acción Ecológica ha proposto nel 2006 di lasciare sottoterra 850 milioni di barili di petrolio proveniente dai pozzi Itt (Ishpingo, Tiputini, Tambococha) situati all’interno del parco nazionale di Yasuní (foto a lato), al confine con il Perù. La proposta è stata accettata dall’allora ministro dell’energia e delle miniere, Alberto Acosta, e approvato – a malincuore – dal presidente Rafael Correa. Tuttavia, è stata aggiunta una clausola. Per l’Ecuador ciò costituirebbe un sacrificio economico per il bene proprio e dell’intera umanità, nonché la rinuncia all’estrazione del petrolio che, una volta bruciato, produrrebbe 410 milioni di tonnellate di anidride carbonica; in questo modo verrebbe tutelata la straordinaria biodiversità locale, oltre ai diritti delle popolazioni indigene. Il paese ha chiesto perciò un contributo esterno equivalente a circa la metà della cifra che avrebbe guadagnato, circa 3,6 miliardi di dollari in totale, da versare in un periodo di dieci o dodici anni. Questi contributi verrebbero quindi  depositati in un fondo fiduciario amministrato congiuntamente con l’Undp e costituito il 3 agosto 2010. L’offerta è stata inoltrata, il denaro sta arrivando lentamente, tuttavia il presidente Correa minaccia un piano B per l’estrazione del petrolio da alcuni pozzi protetti. Correa non è un ambientalista, ma ha difeso la proposta Yasuní nelle sedi internazionali. Ora egli minaccia di forzare i confini del parco nazionale di Yasuní nel giugno 2013.
La proposta di lasciare il petrolio sottoterra è partita dal Delta del Niger. Alcuni preferiscono il termine “ogonizzare” invece di «yasunizzare» (yasunizar), poiché dopo il 1995, in seguito alla la morte di Ken Saro-Wiwa, gli Ogoni sono riusciti a espellere dal loro territorio la Shell per molti anni. Il loro motto è «lasciare il petrolio sottoterra». Altrove invece si incita a: «lasciare il carbone nelle miniere», o ancora a «lasciare il gas sotto l’erba», lanciando proposte simili a quella dell’Ecuador. Acción Ecologica ha persino scritto alla Real Academia Española chiedendo di aggiungere il termine «yasunizzare» nel dizionario.
In Guatemala è stato chiesto di non estrarre il petrolio dalla Laguna del Tigre, sito Ramsar situato nel Petén (una regione paludosa citata negli elenchi internazionali). Nelle isole colombiane di San Andrés e Providencia (vicino alla costa del Nicaragua), è stata ufficializzata la decisione di lasciare il petrolio sottoterra in seguito alle proteste locali. Nella lontana Nuova Zelanda, coloro che si oppongono alle invasive operazioni nelle miniere a cielo aperto di lignite conoscono la parola «yasunizzare». Lo stesso vale per Quebec, Francia, Bulgaria e Paesi Baschi dove, per ora, l’estrazione di gas da argille con potenziali danni alle falde acquifere, è stata interrotta con la motivazione: «Se il petrolio di Yasuní-Itt resta sottoterra, perché gli altri paesi non adottano la stessa filosofia?». Anche nelle Isole Lofoten in Norvegia è stato proposto di lasciare il petrolio e il gas al di sotto del fondale marino.
Vi sono ragioni locali e globali per yasunizzare il mondo.

*Questo articolo, pubblicato su triplecrisis.com, è stato segnalato da Federico Demaria, ricercatore di economia ecologica presso l’Università autonoma di Barcellona (tra i relatori della Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia 2012) e collaboratore di Comune-info. Joan Martinez Alier è docente di Economia e storia economica all’Università autonoma di Barcellona e autore di numerosi articoli e libri, tra quelli tradotti in lingua italiana Economia ecologica: energia, ambiente società, Garzanti (Garzanti, 1991) e Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale (Jaka Book, 2009).

http://comune-info.net/2013/05/combustibiliprotesteyasunizzare/

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