domenica 30 marzo 2014

TRE VOLTE LEDA, TRE VOLTE CIGNO


di Michele Proclamato

Quando scrissi di Leonardo, alcuni anni fa, (Il Genio Sonico - Melchisedek Edizioni) sapevo che il conto con “Lui” era e sarebbe rimasto aperto. E puntualmente, direi ciclicamente, si è riproposta la possibilità di aggiungere qualcosa al già scritto, utile a rendere il suo operato più cristallino, almeno per me. Ora credo sia giunto il momento di condividere alcune mie conclusioni riguardanti un opera piuttosto controversa del genio, che per troppo tempo mi ha tenuto prigioniero del mio stesso indagare. Mi riferisco alla ”Leda e il Cigno”, un'opera che sempre nel tempo ha suscitato in me una specie di attrazione–repulsione, dettata soprattutto dalla chiara percezione, non convalidata, della presenza di un sostanziale significato esoterico, che essenzialmente mai è mancato nelle opere di Leonardo. Sempre attratto e mai accettato, in questi anni, ho continuato ad esaminare il dipinto centinaia di volte fino a quando pochi mesi orsono mi son reso conto di come parte del suo messaggio fosse essenzialmente riposto in una “strategia” pittorica perfettamente consona al lavoro “sotterraneo” del maestro.

Ho utilizzato la parola “parte”, perché essenzialmente il significato nascosto dell’opera stessa è a tutti gli effetti suddivisibile in due parti ben distinte, in grado di compenetrarsi perfettamente giustificandosi entrambe. La prima di esse fu brillantemente affrontata e risolta nel numero 20 della rivista: Misteri di Hera, anno 2007, titolo, “Arte e Alchimia”, nel capitolo dedicato al simbolismo del Cigno inserito nel mito della Leda e il Cigno. Da allora ho ritenuto che un passo avanti su quella falsariga fosse possibile e doveroso, per meglio capire chi fosse e conoscesse davvero il geniaccio. Ho utilizzato la parola strategia, perché essenzialmente la stessa, una volta individuata, aveva rappresentato il cuore descrittivo del Genio Sonico, ma andiamo per gradi.

Prima di passare a qualsiasi descrizione, bisogna infatti doverosamente dire che l’originale della Leda e il Cigno diede cenni della sua presenza ancora nel seicento, poi più nulla. Oggi possediamo solo delle copie dello stesso, ben nove, eseguite da alcuni studenti appartenenti alla scuola di pittura fondata dallo stesso Leonardo a Milano e non solo. Ho scelto, fra queste, la copia presente agli Uffizi, la quale, quasi univocamente, è stata attribuita a Francesco Melzi, la cui datazione è inseribile fra il 1505 e il 1507. E l’ho fatto per motivi prettamente numerici, cosa che in questo momento preferisco non giustificare. Detto ciò, credo sia necessario un ultimo brevissimo excursus riguardante la struttura mitologica che l’opera ha ispirato, anche se penso sia superfluo: in breve, Zeus innamoratosi per l’ennesima volta di una donna bellissima, aveva spesso di questi problemi, che per l’ennesima volta lo rifiutava, decideva di trasformarsi in un Cigno per impalmare la moglie di Tindaro re di Sparta, da cui, secondo la leggenda avrebbe avuto in parto due uova contenenti rispettivamente i Dioscuri, Castore e Polluce e due magnifiche bambine destinate anche loro ad arricchire le cronache mitologiche, Elena e Clitennestra.

Alcune varianti del mito attribuiscono solo a due dei quattro figli della Leda la paternità olimpica, riconoscendo a Tindaro la paternità mortale, ma si tratta di un interpretazione secondaria. Senza voler scendere poi nel significato alchemico dei Dioscuri, coinvolti nella ricerca del Vello d’Oro, che comunque consegna all’opera un ulteriore valore simbolico, non secondario, passerei ora a spiegare che cosa secondo me l’opera nasconde, un, che cosa, direttamente collegato ad un vizio descritto molto dettagliatamente dal primo biografo del Leonardo: il Vasari. Il Vasari infatti, con una certa dose di ironia compiaciuta, parlando del maestro, face notare come lo stesso, spesso, molto spesso, si gingillasse attraverso l’uso, definito eccessivo, degli Sghiribizzi.

Voi direte: “E che sò sti Sghiribizzi”

Personalmente vi risponderei che con questo termine venivano individuati i Nodi di Leonardo. Dovrei aggiungere che i Nodi di Leonardo sono essenzialmente un metodo decorativo tutto Vinciano con cui il maestro, frequentemente, arricchiva le sue opere pittoriche e non solo. Non sono una sua invenzione, chiaramente, ma nelle sue mani acquisirono una tale dignità decorativa da rappresentare veri modelli simbolici in grado di ispirare mode e modi di dipingere. Ebbene ad oggi questo uso quasi abnorme di questo suo vezzo rimane un pseudo-mistero, da parte degli esperti ……..ufficiali. Semplicemente perché nessuno, come io feci pochi anni fa, si è preso mai la briga di rimanere con il naso all’insù per alcuni minuti, osservando il centro del soffitto da “Lui” affrescato, con l’aiuto dei suoi studenti, presso la Sala delle Asse, del Castello Sforzesco a Milano. Chiunque avrebbe colto intorno al biscione sforzesco, una ghiera di otto, 32 per l’esattezza, dai quali dipartono senza esitazioni e senza dubbio ciò che il Vasari avrebbe definito Sghiribizzi.

Adesso è il momento di vederli.
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da Richard


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