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Storia di un genocidio per certi versi dimenticato che coinvolse tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo più di un milione di persone, colpevoli soltanto di appartenere ad un'etnia e cultura diverse e di professare un culto di minoranza. Civili Armeni Intellettuali Armeni Membri del Partito Dashnak Parata Turca Guerriglieri Armeni Talaat Pasha Resti del massacro |
La grande persecuzione avviata tra il 1915 e il 1918 dalla Turchia nei confronti del popolo armeno rappresentò il primo tentativo di genocidio sistematico dell'epoca contemporanea perpetrato ai danni di una delle più antiche minoranze etniche della regione anatolico-caucasica. E questa campagna di eliminazione, che per motivi non ancora del tutto chiari non ha mai goduto della giusta attenzione da parte degli storici e dei politologi italiani, fu in larga misura il risultato concreto dell'adozione di un'ideologia scopertamente razzista, le cui radici non affondano soltanto nel credo nazionalista del Partito dei Giovani Turchi, ma anche - particolare meno noto - nell'insofferenza e nell'odio manifestato dalla seconda, grande minoranza etnica dell'Impero Ottomano, quella curda.
Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire le motivazioni e la genesi di uno dei più orribili e meno pubblicizzati fenomeni di intolleranza etnico-religiosa verificatisi nel corso dei secoli. Il genocidio degli armeni, portato a compimento dai nazionalisti, sedicenti "modernisti", Giovani Turchi, tra il 1915 e il 1918, non rappresenta che l'apice, e il completamento tecnico e scientifico, di una lunghissima campagna di persecuzioni e discriminazioni iniziata in Turchia vent'anni prima, tra il 1894 e il 1896, sotto il sultanato di 'Abd ul-Hamid. E in tali massacri, che suscitarono indignazione - se non orrore - in Europa occidentale e nella Russia zarista legata per motivi religiosi alla nazione armena, si poterono individuare i prodromi di una ben più sistematica "risoluzione finale" (1). La persecuzione contro gli armeni da parte degli ottomani va vista come il risultato di complessi processi storici, accelerati dagli avvenimenti che tra la seconda metà del XIX secolo e i primi tredici anni del XX determinarono lo sgretolamento del potere ottomano in Africa Settentrionale e nei Balcani.
Dopo avere perso, in seguito alla guerra con l'Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica (1913) gran parte dei suoi ultimi possedimenti (Libia, Albania, Macedonia e Isole dell'Egeo), il governo ottomano, temendo la completa dissoluzione dell'Impero (che comprendeva oltre che l'intera penisola anatolica, anche i territori corrispondenti all'attuale Siria, Libano, Irak, Israele, e alle regioni della penisola araba occidentale e meridionale dell'Hegiaz, dell'Asir e dello Yemen) assunse un atteggiamento sempre più nazionalista, accentratore e razzista nei confronti di quelle minoranze (come quella greca, bulgara, ebraica, beduina e armena) nelle quali intravedeva pericolosi e destabilizzanti elementi di diversità e frammentazione nocivi all'unità del traballante Impero. E in quest'ottica, la minoranza armena fu quella a destare i maggiori sospetti prima da parte del Sultano Hamid e in seguito da parte del Movimento dei Giovani Turchi di Enver Pascià. La ragione stava innanzitutto sui legami, ai quali si già accennato, tra la nazione armena il più acerrimo avversario dell'Impero Ottomano, cioè quello Russo, che già fino dai tempi di Pietro il Grande (1682-1725) e di Nicola I (1825-55) aveva apertamente parteggiato per le minoranze slave balcaniche, caucasiche e armene cristiane sottoposte alla potestà d'imperio turca. Senza contare che, dalla fine del XVII e quella del XIX secolo, la Russia aveva intrapreso diverse guerre contro i turchi per strappare loro territori sempre più vasti e strategici, sia nell'area del Mar Nero che in quella caucasica e persiana settentrionale. Anzi, si può dire che fu proprio uno di questi ultimi, duri conflitti, cioè la Guerra Russo-Turca del 1877-78, a fare emergere in maniera eclatante ed incontestabile l'insopportabile situazione di soggezione nella quale viveva la minoranza armena, e non solo quella, dell'Impero Ottomano. Infatti, fu proprio in seguito agli eccidi perpetrati nel 1876 dai turchi nei confronti dei bulgari, che le armate dello zar invasero i Balcani costringendo infine Costantinopoli ad una resa umiliante. A guerra finita, i russi imposero ai turchi, attraverso il Trattato di Santo Stefano, di cedere diverse aree dell'Anatolia nord settentrionale e, nel contempo, di garantire il rispetto e la salvaguardia della minoranza armena e bulgara. Tuttavia, il Trattato di Santo Stefano, non divenne mai del tutto operativo, in buona parte a causa delle pressioni esercitate dal Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, ostile ad una eccessiva espansione politica e militare russa soprattutto sui Balcani. In forza dell'intervento di altre potenze occidentali (come la Francia e la Prussia) ostili anch'esse alla Russia, il trattato venne così parzialmente modificato, con l'eliminazione della clausola relativa alla tutela dell'"autonomia armena".
Nonostante le proteste dei rappresentanti della minoranza armena che si recarono anche nelle capitali estere per fare valere i loro diritti sanciti dal trattato, nessuna potenza volle intervenire con decisione in loro favore per rigide "ragioni di stato", anche se l'articolo 61 del successivo Trattato di Berlino del 1878 garantiva, almeno formalmente, la tutela fisica degli armeni. Di questa situazione ne approfittò naturalmente il Sultano Abd ul-Hamid che poco dopo soppresse la fragile Costituzione concessa nel 1876, abolendo tutte le libertà più elementari e costituendo nel contempo un'efficientissima polizia segreta incaricata di arrestare tutti i membri del neonato Movimento Indipendentista Armeno. Il Sultano incoraggiò inoltre le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le tradizionali zone rurali armene della Turchia orientale. I curdi, appoggiati dalla Polizia Segreta e dall'Esercito Ottomano, iniziarono ad insediarsi nella regione, scacciando con la forza gli armeni dalle loro abitazioni e dai loro campi. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a trasferirsi sempre più a nord est in direzione delle regioni caucasiche russe, venendo subito accusati dai turchi di connivenza con il nemico zarista. La situazione precipitava. E nel tentativo di difendersi da quei continui soprusi, alcuni coraggiosi esponenti della minoranza cristiana iniziarono a creare diversi gruppi politici e società segrete, tra cui l'Armenakan (1885), il partito socialdemocratico Hunchak (1887) e il movimento estremistaDashnak (1890). Ma la risposta del Sultano non si fece attendere. Il despota di Costantinopoli organizzò i membri delle tribù curde nei cosiddetti reggimenti di cavalleria Hamidye: autentiche bande armate di predoni che ben presto, sempre con la connivenza dell'Esercito turco, iniziarono a perseguitare e a massacrare quelle migliaia di armeni che si erano rifugiati nelle vallate dell'Anatolia Orientale. Ma se gli armeni rimasti in Anatolia se la passavano male anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi in Russia dopo la Guerra Turco-Russa del 1877/8 non poterono certo dirsi in salvo. In seguito all'assassinio dello zar Alessandro II (1881), il primo ministro liberale di origine armena Loris Melikov, dovette rassegnare immediatamente le dimissioni, in quanto ritenuto incapace di governare il sempre crescente malcontento e le sommosse dei nazionalisti georgiani e armeni del Caucaso, proprio quelle contro le quali Alessandro II e Nicola II erano in rotta. Dalla destituzione di Melikov, quindi, i successivi governi di San Pietroburgo iniziarono a distaccarsi dalle drammatiche vicende che vedevano coinvolta la minoranza armena sotto il giogo ottomano. Addirittura, nel 1903, lo zar Nicola II tentò di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena e a chiudere le scuole e le altre istituzioni della Transcaucasia russa. Forte dell'indiretto sostegno fornito dal tradizionale ed acerrimo nemico, e confidando nell'appoggio del kaiser tedesco Guglielmo II desideroso di appoggiare la Turchia in funzione anti-inglese e anti-francese, il Sultano Abd ul-Hamid alzò il tiro contro l'odiata minoranza, approfittando, tra l'altro, di alcuni gravi attentati compiuti, tra il 1890 e il 1894, dalle frange estreme del Movimento Indipendentista Armeno.
Ma l'inizio del vero confronto armato tra armeni e governo ottomano venne provocato nel 1894, quando un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a rifiutarsi di pagare ai capi curdi locali l'odioso "hafir", o contributo per la protezione. L'"hafir" era in realtà una forma di estorsione regolarizzata dal governo turco a tutto beneficio delle bande curde che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni. L'11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia cambiarono improvvisamente atteggiamento e intimarono al Sultano di allentare la morsa e di concedere almeno una forma di seppur limitata autonomia alle sei province dell'Armenia turca. La richiesta venne naturalmente respinta da Hamid che per contro intensificò la sua politica repressiva nei confronti dei sudditi cristiani, arrivando a compiere vere e proprie stragi, anche nelle principali città dell'Impero. Secondo precise testimonianze scritte dell'epoca vergate da diplomatici italiani, francesi, inglesi e americani, in più di un'occasione, le truppe turche e curde saccheggiarono villaggi, rubarono bestiame, violentarono donne e bambini e costrinsero i prelati armeni a riunirsi nelle loro chiese alle quali appiccarono fuoco dopo averne inchiodato le porte. Tra il 1894 e il 1896, secondo cifre attendibili, le forze ottomane e curde eliminarono nei modi più barbari dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre diversi stati, soprattutto l'Inghilterra di Gladstone, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del Sultano: manovra che pur essendo condivisa in linea di principio anche dalla Russia, preoccupava non poco lo zar Nicola II, timoroso che i governi di Londra e di Parigi (che nutrivano da tempo chiare mire espansionistiche sull'area mediorientale ottomana) potessero in qualche modo approfittare del vuoto di potere che si sarebbe venuto a creare a Costantinopoli. Dal canto suo, il kaiser Guglielmo II, che nel 1889 aveva già effettuato una visita di stato nella capitale del Bosforo, decise invece di mantenere un atteggiamento addirittura amichevole nei confronti del Sultano, al punto da fargli nuovamente visita nel 1898. L'atteggiamento del kaiser scaturiva da ben precise considerazioni di carattere politico ed economico. Guglielmo II era infatti desideroso di portare a termine uno dei suoi progetti più ambiziosi, la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un'arteria che, una volta ultimata, avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di permettere all'Impero tedesco di allargare la sua sfera di influenza verso il Medio Oriente e la Mesopotamia centro-meridionale, cioè in direzione del Canale di Suez e dei giacimenti petroliferi del Golfo Persico. L'ultimo decennio del lungo regno di Abd ul-Hamid fu caratterizzato da una situazione politica molto incerta e da enormi difficoltà economiche. Nel 1898 il sultano fu costretto a lasciare sotto il controllo internazionale l'isola di Creta. E proprio in quel periodo, in alcuni circoli di Salonicco, un gruppo di giovani ufficiali dell'esercito, i Liberi Massoni, assieme ad alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, stavano mettendo a punto una nuova ideologia rivoluzionaria che sarebbe poi sfociata del Movimento dei Giovani Turchi, che aveva come obiettivo il rovesciamento del sultano e l'avvio di un ambizioso, rapido e radicale processo di modernizzazione socio-politica, economica e culturale dell'Impero.
La rivolta scoppiò nel 1908, a Monastir, quando il comandante in capo turco della Macedonia settentrionale venne assassinato da un gruppo di ufficiali ribelli. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al Sultano di ripristinare immediatamente la Costituzione del 1876 (da lui soppressa nel 1878), intimando che in caso di rifiuto l'intero Terzo Corpo d'Armata turco, ormai sotto controllo degli ufficiali "modernisti", avrebbe marciato su Costantinopoli. Il Sultano questa volta cedette e la Costituzione venne ripristinata ufficialmente il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia con grandi festeggiamenti a Costantinopoli, Damasco, Baghdad e nelle città e regioni popolate dalle minoranze etniche e religiose armene, ebraiche, slave e arabe che vedevano nella rivolta militare contro il Sultano l'inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, i giovani ufficiali turchi che avevano costretto Hamid a cedere, arringarono ovunque la folla proclamando che mussulmani, cristiani ed ebrei non sarebbero più stati divisi e avrebbero contribuito, tutti insieme e su uno stato di completa parità, alla gloriosa rinascita economica e sociale della nazione ottomana. Dopo un tentativo, sanguinoso ma fallito, da parte dei sostenitori del regime assolutista di Hamid di riprendere il controllo del potere (1909), durante il quale parecchi ufficiali e altri appartenenti al movimento costituzionale e al Comitato di Unione e Progresso, vennero uccisi dalla polizia segreta del Sultano, gli ufficiali "modernisti" di Taalat Pascià (appoggiati dagli armeni) riuscirono a riprendere le redini del potere e a deporre definitivamente Hamid che lasciò il posto a suo fratello, assumendo il titolo di sultano Muhammad (Mehemet) V. Quest'ultimo, non volendo seccature, accettò di buon grado le direttive del Comitato di Unione e Progresso che nel frattempo aveva iniziato a palesare una sempre più forte connotazione nazionalista e razzista nei confronti delle minoranze che fino a poco tempo prima aveva dichiarato di volere tutelare se non addirittura favorire (subito dopo la caduta di Hamid, i Giovani Turchi avevano dato vita ad un regime parlamentare e a riforme liberali, concedendo ad elementi cristiani, ebrei e arabi di entrare nella pubblica amministrazione e di prestare servizio nell'Esercito). Tuttavia, dopo la sconfitta subita ad opera dell'Italia nel 1912 per la contesa sulla Libia e i primi rovesci subiti nell'ambito della Prima Guerra Balcanica, le cose cambiarono e il 26 gennaio 1913 si verificò a Costantinopoli un nuovo colpo di stato. Il colonnello Enver Pascià e Taalat Pascià e circa 200 loro seguaci fecero irruzione nella sede del governo, eliminando fisicamente il Ministro della Difesa, il liberale Nazim Pascià e deponendo all'istante il Gran Visir Kiamil Pascià. Subito dopo, Enver, alla testa di un esercito, strappò Adrianopoli ai bulgari e in virtù di questa brillante vittoria venne nominato Ministro della Difesa. Ristabilita la situazione militare, anche gli altri alti esponenti del Partito dei Giovani Turchi si insediarono nei posti chiave. Taalat Pascià divenne Ministro degli Interni e Ahmed Gemal Pascià Ministro della Marina, dando vita, con Enver, ad una sorta di triumvirato. Abbandonati ben presto gli ideali liberali e parlamentari, il triumvirato militare iniziò, come si è detto, a pianificare la costituzione di una dittatura militare fondata su principi fortemente nazionalisti e razzisti, dando vita ad un capillare processo di "turchizzazione" dell'Impero Ottomano (alla nuova politica venne data una parvenza di rispettabilità attraverso l'adozione dei principi del "pan-turanismo", la corrente ideologica della "rinascita ottomana" sostenuta da Ziya Gok Alp, discepolo del sociologo francese Emile Durkheim). Imbevuti della dottrina pan-turanica, che magnificava le virtù degli antichi statisti, guerrieri e condottieri turchi, il mai completamente sopito e sostanziale atteggiamento di intolleranza dei Giovani Turchi nei confronti delle minoranze dell'Impero, soprattutto quella armena cristiana, iniziò ad emergere con estremo quanto rapido vigore; proprio nel mentre il governo ottomano intensificava contestualmente i suoi rapporti di cooperazione militare ed economica con la Germania del kaiser Guglielmo (nel dicembre 1913, una speciale delegazione militare comandata dal generale Liman von Sanders giunse a Costantinopoli per iniziare ad addestrare i quadri del nuovo esercito turco voluto da Enver). Verso la primavera del 1914, proprio alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (che, in seguito all'assassinio a Sarajevo dell'Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie, avrebbe poi visto l'Impero Ottomano allearsi alla Germania, all'Austria-Ungheria e alla Bulgaria, contro Russia, Francia, Inghilterra. Italia ed in seguito Stati Uniti), la Giunta dei Giovani Turchi, iniziò a pianificare scientificamente quello che si sarebbe ben presto rivelato il primo "genocidio" programmato dell'era moderna. Dopo l'entrata ufficiale in guerra dell'Impero Ottomano (29 ottobre 1914), la comunità armena, dimentica dei molteplici soprusi subiti in passato, e allo scuro delle manovre segrete dei Giovani Turchi, volle comunque dimostrare a Costantinopoli la sua fedeltà alla nazione ottomana. E nell'estate del 1914, in occasione dell'ottavo congresso armeno di Erzerum, i leader del Partito Dashnak invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell'Impero. E nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna, scatenata nel successivo mese di dicembre da Enver nel Caucaso contro i russi, una assoluta quanto ingenua correttezza e lealtà nei confronti del governo di Costantinopoli, che nel frattempo stava ultimando i preparativi per incominciare, con il totale sostegno delle solite bande prezzolate curde, un vero e proprio massacro a sorpresa. All'inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, il segretario esecutivo Nazim concluse testualmente i lavori: "Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un'occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto". Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. "Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle". In quella data il Comitato decise che "lo sterminio degli armeni" sarebbe stato affidato ad una speciale Commissione a tre, comprendente lo stesso segretario esecutivo Nazim, Behaettin Shakir e il Ministro della Pubblica Istruzione, Shoukrie, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. All'inizio della primavera 1915, in seguito ad una pericolosa offensiva russa e allo sbarco anglo-francese a Gallipoli (Dardanelli), i capi turchi accelerarono ulteriormente la realizzazione del loro piano, scatenando innanzitutto la polizia segreta contro i villaggi armeni che, con la scusa di semplici perquisizioni di guerra, vennero sistematicamente depredati. Successivamente, bande armate curde e reparti dell'esercito e della polizia, incominciarono ad arrestare, accusandoli di connivenza con il nemico russo, tutti gli esponenti del Movimento Armeno. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti ai quali strapparono le unghie con le tenaglie, furono tolti i denti uno ad uno, bruciata la barba e strappati gli occhi. Geudet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià fu visto dare ordine ai suoi uomini di inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle vittime, costringendo poi quei disgraziati ad effettuare improbabili danze, fino allo sfinimento.
Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 500 esponenti del Movimento Armeno vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro nel profondo di sordide segrete. Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, duemila soldati di etnia armena, reduci dalla campagna del Caucaso, vennero spediti, disarmati, nella regione della città di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Giunti in una vallata, i militari armeni vennero circondati da un battaglione della polizia turca e massacrati a colpi di moschetto. Tutti i cadaveri vennero poi scaraventati in una profonda grotta. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni, anch'essi preventivamente disarmati, vennero condotti nei pressi di una cava di pietra, in località Diyarbakir, e lì trucidati da un grosso reparto misto formato da soldati e miliziani curdi. Sempre secondo i resoconti del console statunitense, i corpi delle vittime vennero seviziati, spogliati e lasciati a marcire nella cava. Nel giugno 1916, dopo avere eliminato circa 150.000 militari di origine armena, i turchi, non contenti, decisero di fare fuori anche un terzo degli operai armeni impiegati nella costruzione e manutenzione dell'importante linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, anche gli alleati tedeschi e austriaci, che da tempo avevano palesato il loro disappunto per le orrende carneficine, denunciarono finalmente, e in maniera ufficiale, il governo turco. L'ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich, si precipitò alla Sublime Porta, accusando direttamente Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià "di inutili atrocità e persino di sabotaggio", ma le vibranti proteste dell'ambasciatore lasciarono praticamente impassibili i capi turchi. Fu allora che, presi dalla disperazione ma decisi a vendere cara la pelle, molti ufficiali e sottufficiali scampati ai massacri tentarono di organizzare sui monti la resistenza, provando in taluni casi anche a difendere con le armi gli ultimi villaggi e città armene non ancora travolte dal ciclone turco-curdo. Nell'aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di soldati e civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano dove resistettero per molti giorni alla controffensiva ottomana e curda; fino all'arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio liberò dall'assedio quei disperati. Eguale successo ebbe poi la storica e ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro non meno di 4.000 armeni si trincerarono decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei bene armati reparti regolari dell'esercito ottomano, segnando una delle pagine più eroiche della storia di questa nazione. Alla fine, proprio quando la resistenza sembrava dovere cedere di fronte alle preponderanza dell'avversario, i reduci vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese che riuscì in gran parte a trarli in salvo (l'epopea del Musa Dagh venne in seguito narrata da Franz Werfel nel suo celebre romanzo storico "I quaranta giorni di Musa Dah"). Purtroppo, altri tentativi di resistenza da parte di gruppi armati armeni non ebbero la medesima fortuna, come nel caso della resistenza di Urfa (Edessa). Qui, tutta la guarnigione armena, composta di ex-militari e civili, dovette soccombere alle soverchianti forze ottomane che, a battaglia conclusa, massacrarono tutti i difensori ancora in vita, compresi i feriti.
Verso l'autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il Ministero degli Interni Turco iniziò a pianificare lo sterminio di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati per utilizzarli nel lavoro delle campagne, e degli ultimi prelati. Ma in questa operazione vennero poi incluse anche le donne e i bambini. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. "Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l'intera popolazione armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza". Per risparmiare denaro e per razionalizzare al massimo l'operazione, la Giunta dei Giovani Turchi diede il via ad una deportazione di massa (dalla quale talvolta vennero però risparmiati i medici o i tecnici utili al governo, come accadde nella città di Kayseri) in modo da concentrare in pochi siti, considerati adatti, tutti gli armeni ancora in vita. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata e poverissima regione siriana di Deir al-Zor, dove, dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, intere famiglie armene - strappate alle loro abitazioni e ai loro poderi - vennero poi ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le violente ma inutili proteste di un gruppo di ufficiali tedeschi e austriaci che assistette a quei tragici eventi. Queste deportazioni vennero architettate per consentire un più agevole esproprio dei beni immobili armeni. Abbandonata la precedente prassi della distruzione dei villaggi, molti dirigenti del partito dei Giovani Turchi e moltissimi funzionari di polizia e comandanti delle famigerate bande a cavallo curde si arricchirono proprio in virtù di questi lasciti forzati (è da notare, a questo proposito, che i turchi evitarono di effettuare espropri clamorosi nelle principali città dell'Impero, come Costantinopoli, Smirne e Aleppo, per cercare di evitare le proteste delle numerose delegazioni diplomatiche occidentali presenti). Tuttavia, nell'inverno del '15 il rappresentante tedesco a Costantinopoli, conte Wolff-Metternich - che, come si è già detto, non aveva mai mancato di stigmatizzare "il crudele e controproducente comportamento degli ottomani nei confronti delle minoranze cristiane" - denuciò, in una missiva inviata a Berlino, questa "orribile prassi", accusando nuovamente i Giovani Turchi di "tradimento nei confronti della comune causa tedesco-ottomana". Il coraggioso ambasciatore tedesco agì in maniera talmente vibrante e diretta da indurre Enver Pascià e Taalat Pascià a chiederne a Berlino la sua sostituzione, cosa che in effetti avvenne nel 1916. A testimonianza delle dimensioni del fenomeno "espropriazioni", dopo la fine della guerra, nel 1919, lo scrittore e storico tedesco J.Lepsius nel suo "Deutschland und Armenien" stimò che nel 1916 "i profitti derivati all'oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni fossero arrivati a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi". Per onestà va comunque detto che, in certi casi, alcuni governatori (i vali) turchi, come quello di Angora (Ankara), città nella quale vivevano 20.000 armeni, mostrarono una maggiore tolleranza, arrivando anche a disubbidire alle direttive di deportazione o sterminio. Tanto che, nel luglio del '15, il governatore di Ankara (l'antica Angora) e i suoi collaboratori - che avevano dichiarato di potere garantire circa la assoluta fedeltà all'Impero della locale comunità armena e che quindi si erano opposti ad ogni iniziativa governativa - vennero subito rimossi e sostituiti con altri funzionari più solerti. Come il vali Geudet che, nell'estate del '15, a Siirt, a sud di Bitlis, "fece massacrare - come testimonia Rafael de Nogales, un mercenario venezuelano che nel 1915 si era arruolato nell'esercito turco - oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, lasciando i loro corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi".
Identici resoconti possono riscontrarsi anche nei documenti e nelle memorie di numerosissimi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e anche italiani. Sull'edizione del quotidiano Il Messaggero di Roma (25 agosto 1915) venne pubblicata la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Costui affermò che "degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all'inizio del 1915 (dal punto di vista religioso la comunità era composta da cristiani gregoriani, cattolici e protestanti, nda) il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati infatti deportati dalla polizia e dall'esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell'entroterra e massacrati". E intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai famigerati campi di raccolta (e di sterminio) della città di Deir al-Azor. Questi, privi di baracche, servizi igienici, iniziarono ad accogliere all'interno dei loro perimetri cintati da fitti sbarramenti di filo spinato sorvegliato da guardie armate, decine di migliaia di profughi. "Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo eccellente e ben documentato Armeni, un popolo in esilio - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l'agosto 1916 e l'agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo". Queste epidemie si rivelarono così devastanti da mettere in allarme lo stesso generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare, attraverso il suo Servizio Sanitario, una qualche forma di assistenza, sempre contrastato dalle autorità ottomane che, accecate dall'odio verso gli armeni, non si rendevano conto dell'immane disastro che avevano provocato. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte per fame, malattia o alle fucilate degli aguzzini turchi. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre dai loro guardiani ottomani ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di essere state convertite all'Islam con la forza. Nell'autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby sconfissero i turco-tedeschi e occuparono la Palestina e la Siria, trovarono ancora in vita alcune decine di queste derelitte, tutte marchiate a fuoco dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi vennero infatti sottratti alle madri e inviati anch'essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come turchi mussulmani da Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di "raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena".
Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del "problema armeno". Nei campi, gli armeni morivano infatti troppo lentamente. Quindi, nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero un ulteriore giro di vite alla loro politica di sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di "eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici". In questa seconda fase del massacro ebbe modo di distinguersi proprio il governatore del distretto di Deir al-Azor, certo Zekki, che ogni mattina era solito "cavalcare nei campi tra i profughi, tirare su un bambino, farlo roteare in aria, e scagliarlo contro le rocce". Zekki - secondo quanto scrive J. Bryce (The Treatment of Armenians), "rinchiuse 500 armeni all'interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete". E a dimostrazione dello zelo di questo governatore, basti pensare che, durante l'estate del 1916, i suoi uomini eliminarono oltre 20.000 armeni. Taalat Pascià, divenuto Gran Visir, arrivò addirittura a vantarsi dell'efficienza del suo governatore con l'esterrefatto ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l'ardire di chiedere "l'elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze". Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell'Impero Ottomano, la situazione delle comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso si fece improvvisamente drammatica. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917 l'esercito russo aveva infatti iniziato a ritirarsi dall'Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni, fino a quel momento protetti, al loro destino. Rioccupata l'importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane, ormai libere di agire, iniziarono una meticolosa caccia all'uomo, arrivando a sopprimere circa 20.000 persone in poche settimane. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi preventivamente in Transcaucasia, soprattutto in Cecenia e nella regione caspica di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e, appunto, cecene. Tra il dicembre del '17 e il febbraio del '18, nella sola area di Baku furono eliminati 15.000 armeni. Ma la guerra stava volgendo ormai al termine e nell'imminenza del crollo della Sublime Porta - determinato dalle offensive britanniche del 1918 in Palestina e Mesopotamia - i responsabili turchi delle stragi iniziarono a sparire nell'ombra, onde evitare il peggio. Quando, nell'ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell'Intesa (Francia, Inghilterra, Italia e Stati Uniti), i principali dirigenti e responsabili del partito dei Giovani Turchi e del Comitato di Unione e Progresso vennero arrestati dagli inglesi e internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte, in contumacia, Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim, accusati di avere architettato e portato a compimento, tra il 1914 e il 1918, l'olocausto armeno. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia regolare. Ci pensò il destino e, come spesso accade, lo spirito vendicativo dell'uomo a colpire chi si era macchiato di tanti efferati crimini. Il 15 marzo 1921, Taalat Pascià, forse il più crudele dei tre triumviri di Costantinopoli, venne assassinato a Berlino da uno studente armeno; sorte che toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, che venne ucciso da un altro giovane armeno a Tbilisi, in Georgia. "Strana e sotto molti aspetti decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più intelligente e "idealista" dei tre: il "Piccolo Napoleone" dell'Impero, il propugnatore fanatico e determinato del Pan-Turanismo" (D.M. Lang). Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica centrale di Bukhara, dove pensava di portare a compimento la realizzazione del suo sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne circondato dai bolscevichi con il suo piccolo esercito e ucciso. Con la morte di Enver tramontava per sempre il progetto revanchista, di chiara matrice nazionalista e razzista, che non soltanto aveva trascinato la Turchia nel disastro del Primo Conflitto, ma che aveva contribuito a riaccendere l'atavico e mai sopito odio della popolazione turca nei confronti della minoranza armena cristiana. Oggi, a distanza di tanti anni, quell'impetuoso rigurgito di intolleranza etnico-religiosa che scatenò la persecuzione contro gli armeni, sta - paradossalmente - interessando un'altra minoranza, quella curda, che da colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in vittima di una logica di persecuzione assurda e spietata.
NOTE
(1) La storia del popolo armeno ha radici profonde. Gli armeni, intesi come etnia, derivano da una commistione, avvenuta in tempi remoti, tra elementi indoeuropei (gli "armenoi" che sia Erodoto che Eudossio collegano ai Frigi) ed elementi asianici o anatolici, cioè quelle popolazioni che in antichità abitavano la parte orientale della penisola anatolica, e che non appartengono né al ceppo semita né a quello indoeuropeo. La prima apparizione degli armeni sul palcoscenico della storia avviene, molto probabilmente, nel VII secolo a.C. quando gli attacchi e le migrazioni dei cimmeri, degli sciti e dei medi da un lato e le pressioni degli assiri dall'altro, contribuirono alla caduta del regno di Urartù (Ararat, secondo gli scritti biblici). Da quel periodo, gli armeni, la cui lingua era di origine indoeuropea, si stabilirono nella regione del lago Van (Anatolia orientale), assumendo con rapidità una netta ed autonoma fisionomia culturale. Gli armeni, che si autodefiniscono "haik" (dal nome di un loro leggendario eroe nazionale) sono soliti chiamare la propria terra Hayastan. Inizialmente vassalli dei medi e dei persiani, gli armeni cercarono di rendersi indipendenti sotto Tigrane il Grande (I secolo a.C.) entrando a fare parte prima dell'Impero Romano (e successivamente di quello bizantino) e sasanide. Verso la fine del III secolo, gli armeni si convertirono al cristianesimo che ancora oggi rappresenta l'elemento fondamentale della loro autocoscienza etnica: peculiarità che ha assicurato a questo popolo l'odio di tutte le popolazioni anatoliche mussulmane. Dal 639 d.C. gli armeni furono dominati dagli arabi. Prima dal califfo Uthman (645) e poi dalla dinastia degli Omayyadi, la cui dominazione fu più volte spezzata da violente rivolte. Dopo la pesante sconfitta subita dai bizantini ad opera dei persiani a Manzikerk (1071), la regione armena cadde sotto il dominio dell'Impero selgiuchide. Sudditi dell'Impero Ottomano a partire dalla fine del XIV secolo, gli armeni furono costretti ad adottare la lingua turca, pur conservando la propria compattezza etnico-culturale grazie alla specificità religiosa. Dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453), Maometto II il Conquistatore chiamò a sé nella capitale il vescovo armeno di Brussa (Bursa), elevandolo alla dignità di patriarca, con prerogative pari a quelle del patriarca greco-ortodosso. Nasceva così ufficialmente il "millet", o nazione degli armeni, che assunse presto grande importanza, soprattutto economica e culturale, in seno all'impero. La comunità armena forniva infatti ai sultani banchieri, imprenditori, mercanti, funzionari, ministri, contribuendo molto alla rinascita economica di un Impero sostanzialmente incapace, attraverso la classe di potere mussulmana, di badare al suo ammodernamento interno. Fino dal XII secolo diversi missionari cattolici inviati in Anatolia dal Papa cercarono di convincere gli armeni ad abbandonare la Chiesa ortodossa e questa politica (mal tollerata dagli ottomani) venne intensificata dopo il Concilio di Firenze (1438-1445) e sotto Sisto V, fino a raggiungere un significativo successo con la conversione , ad opera dei gesuiti, di Mechitar (Sivas 1675 - Venezia 1749), fondatore dell'Ordine da cui prende il nome e che ha sede nell'isola veneziana di San Lazzaro. Gli armeno-cattolici, perseguitati a più riprese dalle autorità ottomane e criticati dagli armeno-ortodossi, cercarono e spesso ottennero l'appoggio di potenze occidentali, prima fra tutte la Francia che nel 1866 ottenne che questa minoranza armena venisse inquadrata e tutelata sotto un'organizzazione ecclesiastica separata: il patriarcato armeno-cattolico di Cilicia. In ogni caso, fino verso la metà del XIX secolo, la nazione armena, nel suo complesso, fu considerata dagli ottomani alla stregua di una minoranza "leale" nei confronti del potere centrale di Costantinopoli, anche se, nell'ultimo scorcio dell'Ottocento, l'intensificarsi della contrapposizione diplomatico-militare tra l'Impero Ottomano e quello Russo e i sempre più frequenti attacchi delle minoranze curde e circasse di recente immigrazione (appoggiate più o meno apertamente da Costantinopoli) convinsero i sultani a comprimere sempre di più i diritti elementari dell'intera etnia armena. |
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