Nel corso degli anni precedenti al 1946, erano state numerose le lotte animate dallo spirito di emancipazione femminile. Nella loro ribellione a questo “sistema”, le donne avevano sempre chiesto il diritto di accesso all’istruzione e quindi alle università, cercando di ottenere la tanto agognata parità dei diritti.
Prima dell’Unità d’Italia, infatti, i vari Stati italiani avevano legislazioni molto diverse e contrastanti in materia: alcuni concedevano pochi diritti alle donne, mentre altri glieli negavano totalmente. Successivamente, con la nascita del Regno d’Italia e l’adozione del Codice Albertino, risalente al re Carlo Alberto, si decise di limitare quasi totalmente tutti i diritti delle donne. Nel 1877, Anna Maria Mozzoni, fondatrice a Milano della “Lega promotrice degli interessi femminili“, presentò la prima storica petizione politica in favore del voto alle donne appartenenti ad un ceto superiore. Ma col tempo, più precisamente nel 1912, dopo accesi dibattiti, fu deciso che, a causa dell’elevato analfabetismo (imputato per lo più al mondo femminile), potesse essere approvato solo il suffragio maschile.
Fu nel 1919 che il Parlamento approvò la proposta di legge per il riconoscimento della capacità giuridica della donna, rimandandone però l’attuazione alla legislatura successiva, quando tutto era già in mano al governo fascista, che però mise subito da parte la questione.
La svolta avvenne il 1° febbraio del 1945, quando finalmente e grazie al governo Bonomi, su proposta di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, venne concesso il diritto di voto alle donne italiane. Il traguardo fu quindi raggiunto proprio il 2 giugno del 1946. Quel giorno, furono oltre dodici milioni di donne ad esprimere il proprio parere politico.
La conferma di questo impegno politico e civile è facilmente riscontrabile in alcune grandi figure, come quella di Nilde Iotti, prima donna a ricoprire l’importante carica di Presidente della Camera, o quella di Tina Anselmi, partigiana attiva nella lotta contro il fascismo.
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