Desideriamo spesso il silenzio, ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro.
È bravissima Goliarda Sapienza, con quel nome che accosta un aggettivo scanzonato alla più nobile delle virtù.
È bravissima quando ci racconta la sensazione vissuta mentre entra nel carcere, mentre i polpastrelli si macchiano dell’inchiostro per la rilevazione delle impronte digitali e “quella che eri prima è morta civilmente per sempre”.
È trasparente come acqua quando ci racconta come è costretta dalle secondine a piegarsi, le ginocchia flesse, per dimostrare che non trattiene nulla dentro di sé.
Lei ha attraversato anche per noi quei corridoi bui, lunghi, angusti come budelli, che portano in luoghi che sono lontanissimi dal mondo, pur appartenendovi a pieno titolo e anzi essendone in qualche modo una fedele rappresentazione in sedicesimo: le dinamiche di potere; i rapporti fra le persone e quelli con le istituzioni; il confronto con sé stessi, esasperato e reso drammatico dalla solitudine.
Lei è lì per poter raccontare la membrana sottile che separa il dentro dal fuori, e di come il tempo, in carcere, abbia una consistenza e una durata che non hanno nulla a che vedere con la consistenza e la duata che si vivono fuori.
Sapienza (e l’allusione ironica al cognome che è contenuta nel titolo di questo libro forse è involontaria, ma amplifica le suggestioni pedagogiche che vi sono contenute) entra a Rebibbia alla fine degli anni Sessanta.
Ha rubato gioielli in casa di un’amica.
“L’ho fatto per rabbia” racconta “per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato”.
Si aprono le porte di Rebibbia. La scrittrice vi resterà alcuni mesi.
Quando esce dalla prigione, Goliarda è una donna trasfigurata dall’esperienza che ha vissuto. “Le mie più grandi amiche”, racconterà anni dopo a un Enzo Biagi (per la verità piuttosto perplesso e incapace di cogliere il senso profondo del racconto di Sapienza) “adesso sono donne che entrano ed escono dal carcere… persone che fuori non sarebbero state nessuno, e che in carcere sono regine”.
L’incontro con una umanità che pretendiamo essere altra da noi, ma che lo diventa solo in conseguenza della condizione innaturale e “fuori dal tempo” cui viene coattamente avviata, è reso magnificamente nelle pagine del diario di Sapienza.
Come pure il paradosso di una società che pretenda di rieducare alla vita civile attraverso la detenzione; paradosso che emerge in tutta la sua assurdità, facendo pensare a tratti al Foucault di “Sorvegliare e punire”, e ai passi in cui il filosofo francese individua in un retaggio moderno la volontà di “… dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze”.
Figlia di anarchici, sceneggiatrice e attrice di cinema, Goliarda Sapienza incarnò un femminismo molto poco dogmatico, e meravigliosamente sui generis.
La sua opera più celebre, "L’arte della gioia", fu pubblicata postuma per le cure e dietro l’interessamento del compagno Angelo Maria Pellegrino. Oggi è un libro molto letto e molto amato in tanti paesi.
"L’università di Rebibbia", capitolo meno conosciuto della breve e intensa bibliografia di Sapienza, è un libro che vale la pena di leggere, anche per la possibilità che ci offre di avvicinarci a un’esperienza radicale e umanissima al contempo.
http://www.wuz.it/recensione-libro/6788/goliarda-sapienza-universit-rebibbia.html
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