L’ho pensato ascoltando la giornata indetta a Cortona da Dario Franceschini, con la partecipazione di Pierluigi Bersani, Giuliano Amato, Piero Fassino, Giovanni Floris, il ministro Andrea Riccardi (il noachico seguace di Elia Benamozegh): un trust di cervelli convocatosi sul tema: «2013, idee per l’Italia che verrà». Perchè nel 2013 questi si aspettano di vincere le elezioni, e stilano un programma.
Quale programma? Da quel che ho capito, il primo punto è: «Mantenere il finanziamento pubblico dei partiti», com’è ora, «perchè noi i soldi li abbiamo già spesi». E perchè «la democrazia senza partiti è impossibile». Quindi niente tagli.
Secondo: sostegno convinto e fiero al governo Monti. «L’abbiamo voluto noi», Bersani dixit. E tante tasse, ovviamente. Ancora più tasse di Monti. Sui patrimoni, dicono loro.
Terzo: se mai, ottenere da Monti, «tanto autorevole in Europa», un addolcimento del «fiscal compact», ossia delle feroci austerità che hanno devastato l’economia.
Ora, il fiscal compact imposto da Berlino è totalmente irrealizzabile (Monti ci ha impegnato a riportare il debito pubblico da 120% al 60% del PIL, a forza di «finanziarie» annue da 45 miliardi per un decennio) ma, se ha qualcosa di sensato, è che esso obbligherebbe ad incidere, finalmente, non solo sui redditi dei contribuenti con le imposte, ma sugli emolumenti pubblici, sul personale pubblico in eccesso, sugli scandalosi sprechi regionali e la corruzione pubblica relativa al «fare politica». Proprio ciò che non vuole la sinistra, che ha nel parassitismo pubblico gran parte della sua base sociale. Questo addolcimento, ha detto Giuliano Amato, diverrà possibile quando in Francia vincerà la sinistra, e poi anche in Germania. Con il permesso della nuova Europea gauchiste, la spesa pubblica e l’alimentazione delle clientele potrà ripartire, con la scusa di «tornare alla crescita».
Quarto: restare nell’euro. Questo, nemmeno si discute a sinistra. Ciò significa, è implicito, continuare a servire il debito pubblico impagabile fatto a nostre spese da poltici che hanno perso ogni legittimità. La sinistra – come diceva Spengler – fa sempre il gioco del grande capitale (1). Non può farne a meno.
Insomma, le «idee», il programma della sinistra si riduce a questo: lasciare tutto com’è. Con più tasse e più partiti strapagati di oggi (è la da loro auspicata «fine del sistema maggioritario» che in Italia non è mai veramente esistito, col «ritorno al proporzionale» che ha creato l’immane debito pubblico nei decenni dei governicchi di coalizione che duravano sei mesi).
Attenzione, perché nel 2013, dato lo sgretolamento nella vergogna e nel ridicolo dei partiti di «destra» (cosiddetta) che hanno tradito i loro elettorati, questi partiti di «sinistra» (sedicenti) possono fare il governo. E siccome è più che probabile che in Francia prenda la presidenza Hollande e in Germania i socialdemocratici – anche se sono sinistre molto diverse dalla nostra – i Bersani e Franceschini potranno proclamare che «l’Europa va a sinistra»; si sentiranno di nuovo «l’ala marciante della storia», il che li imbaldanzirà ad attuare le loro «idee» (cosiddette).
Ovviamente, come sempre, sono «idee» in ritardo. Oggi in Europa ambienti molto diversi stanno cominciando a considerare l’eventualità di un’uscita dall’euro, sentito in modo sempre più chiaro come il cappio strangolatore della crescita europea.
La narrativa egemonica, che nasce da interessi bancari (2) – per cui l’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe impensabile – è stata infatti scossa, negli ambienti che contano, dallo studio di Jonathan Tepper, un economista che ha vinto un concorso sul tema indetto dal Policy Exchange (conservatore britannico): il quale ha mostrato che nel ventesimo secolo sono avvenute 69 separazioni di unioni monetarie, e «in quasi tutti i casi», la transizione dalla moneta unica alle monete nazionali «è stata dolce». Nient’affatto catastrofica.
Tepper ha studiato specificamente questi 69 casi di rottura di unioni monetarie. A parte le uscite dovute alla decolonizzazione, molti riflettono situazioni simili alla zona euro. La fine dell’impero austro-ungarico nel 1919 è passata senza lasciare nella memoria il ricordo di catastrofi monetarie-finanziarie, quando una mezza dozzina di nazioni unite sotto l’imperial-regio scellino adottarono le rispettive monete nazionali. La separazione della Cecoslovacchia nel '93 non solo è stata incruenta, ma monetariamente ben guidata, senza troppi problemi. La spaccatura della vecchia URSS nel '92 ha prodotto catastrofi, ma non certo dovute alla transizione dalla moneta unica alle monete nazionali, bensì alla transizione dal sistema «socialista» a quello privatista sotto dettatura del Chigaco Boy Jeffrey Sachs.
Così, nella separazione fra India e Pakistan nel 1947, quello dell’adozione di due monete non è stato certo il problema. La separazione monetaria fra Pakistan e Bangladesh (ex Pakistan Orientale) nel 1971 è avvenuta pacificamente mentre le due entità erano in stato di guerra civile politica. Il caso dell’Argentina nel 2002 (la separazione della moneta dal dollaro USA, a cui era agganciata rigidamente) è noto.
Insomma, Tepper ha dimostrato – con esemplare rigore analitico – che la fine di unioni monetarie è un fenomeno banale nella storia economica recente. Che le procedure di smontaggio sono perfettamente conosciute (sovra-impressione delle vecchie banconote, loro graduale sostituzione con le nuove, controllo del capitali); e che si può descrivere con precisione i meccanismi dell’uscita. E, infine, che il cambiamento è stato mobido «anche quando c’è stata ristrutturazione del debito». Conclusione di Tepper: «L’uscita è lo strumento più potente per riequilibrare l’Europa e creare la crescita» dei Paesi europei.
Lo studio di Tepper ha indotto l’Economist a cambiare posizione. Perchè l’Economist, il settimanale dei Rothschild, è sempre stato un fiero sostenitore della moneta unica europea. Fino ad oggi, l’Economist ha difeso l’euro sostenendo che bastava emettere euro-obbligazioni, mutualizzare i debiti e aumentare i fondi del Fondo di Stabilizzazione (FESF), insomma «più Europa» e non meno, per superare l’attuale crisi. Una posizione in contrasto con la finanza speculativa britannica (che sta attaccando l’euro contando di lucrare dalla sua spaccatura), e dall’ideologia britannica in generale: il che dovrebbe dirci qualcosa sulla complessità del fronte «liberista» anglo-americano, che è difficile ridurre a semplicismi.
Dunque, l’Economist, il 7 aprile, ha cambiato rotta di 180 gradi. Citando lo studio di Tepper, scrive: «Se i fondatori dell’euro avessero previsto la tormenta attuale, non si sarebbero forse avventurati in questa unione monetaria»(Currency disunion).
L’Economist vede vicino il momento in cui «gli Stati indebitati potrebbero stancarsi della svalutazione interna»: ossia la situazione in cui, non potendo svalutare la moneta, devono svalutare i salari dei loro cittadini per renderli «competitivi». Inoltre, gli Stati creditori (leggi Germania, Olanda, eccetera) «potrebbero voler smettere di sostenere gli altri». E infine, «i 17 membri dell’eurozona esiteranno davanti alla perdita di sovranità necessaria per il salvataggio dell’euro» (non i nostri politici).
Conclusione: «Un processo concertato (di separazione) aumenta le possibilità di salvare gli altri apparati dell’integrazione europea, in special modo il mercato unico».
Data la fonte, si potrebbe dubitare legittimamente degli intenti e delle opinioni dell’Economist, e dei consigli di cui è prodigo agli europei.
Allora sentiamo un’altra fonte: Patrick Artus, francese. Pochi in Italia conoscono Artus, ma in Francia è notissimo e molto ascoltato: economista capo di Natixis (la grande banca d’affari francese). Patrick Artus ha pubblicato uno studio di 13 pagine sul «Ruolo dei tassi di cambio nell’uscita dalle crisi di bilancia dei pagamenti» (Artus explique pourquoi l’euro ne marche pas).
È la crisi che colpisce Spagna, Grecia, Italia, Portogallo e presto colpirà la Francia. Le sole due vie possibili, spiega Artus, sono: abbassare il tasso di cambio (svalutare la moneta) o abbassare i salari. Per volontà della Germania, oggi la soluzione imposta è la seconda.
Anche Artus studia vari casi storici recenti: Spagna e Italia nel 1992-93, Messico nel 1994, Corea del Sud e Thailandia nel '97, Brasile nel '98, Argentina nel 2001.
In tutti questi casi, lo stesso scenario: deterioramento della bilancia corrente (tra -1 e -10% del PIL) a causa di una moneta sopravvalutata, che provoca un aumento dell’indebitamento estero, e una speculazione finanziaria che spinge verso alto i tassi a cui i Paesi, le imprese e le famiglie si indebitano. In tutti questi casi, i Paesi hanno finito per svalutare. Dopodiché hanno avuto un momentaneo picco della disoccupazione (provocata dal rialzo dei tassi), ma la svalutazione ha permesso di far ripartire l’economia, provocando una rapida diminuzione dei disoccupati.
È molto significativo che sia Tepper sia Artus si applichino a studiare la «storia dell’economia», anziché valersi delle formule algebriche che costituiscono il (falso) sapere economico contemporaneo. Così s’ha da fare quando mordono le crisi, e le formule sono un danno anzichè un aiuto: torna in auge la storia, ossia l’economia politica (che cosa s’è fatto in passato, quale è l’azione politica necessaria), anzichè la pseudo-scienza algebrica che presuppone l’intangibilità dei «mercati».
Ma torniamo all’economista francese. Artuis studia anche il caso della zona euro, e constata lo stesso scenario: i Paesi la cui bilancia dei pagamenti è squilibrata devono abbassare i salari per ritrovare la competitività e riequilibrare i loro conti esteri. Ma, ammaestrato dalle esperienze precedenti che ha appena esposto, conclude: «Sembra nettamente meno costoso, in termini di posti di lavoro, realizzare un deprezzamento reale del cambio in un Paese toccato dalla crisi (...) che da una riduzione dei salari».
In altre parole: svalutare la moneta, non il lavoro. Svalutare crea più posti di lavoro che tagli salariali.
Ma come svalutare l’euro? Artuis non lo dice. Anzi, fatto singolare e quasi surreale, nemmeno evoca la questione della moneta unica come strangolatrice delle economie deboli dell’eurozona. Nella sua posizione, Artuis non può esplicitamente raccomandare la rottura dell’euro, ciò che lo metterebbe alla pari coi blogger più marginali. Però, fornisce gli argomenti che dimostrano che la moneta unica è un errore. E un errore, oggi, strangolatore.
La sinistra italiana ha delle «idee» contrarie, dà fiato al terrorismo psicologico bancario che descrive come catastrofe l’uscita dall’euro, e lo adotta come proprio programma. La difesa dell’euro ad oltranza, fino all’ultimo posto di lavoro.
Tutto ciò dice che i nostri governanti non organizzeranno mai uno smontaggio concordato – le cui fasi sono note, comprovate e realizzabili – ma lo dovranno fare «en catastrophe», sotto la pressione dell’urgenza e della realtà. Con grave danno aggiuntivo e superfluo, perchè gli effetti dell’uscita saranno tanto più drammatici socialmente «quanto più a lungo ci si sia sforzati di mantenere nel tempo il tasso fisso, con la forte recessione indotta da questa scelta» (Gabriele Tagi).
Occhio alla sinistra e alle sue «idee», cosiddette. Ma anche alla «destra», però. E chi ci salverà, allora?
1) Ultimo e clamoroso caso, l’uscita con cui Milena Gabanelli s’è giocata la sua credibilità come giornalista con una smaccata promozione della moneta virtuale, proponendo addirittura una tassa punitiva del 30% sull’uso delle banconote: stalinismo al servizio delle banche. Queste hanno bisogno estremo che i pagameni vengano fatti tutti in moneta elettronica, essenzialmente per nascondere la loro insolvenza.
2) I fondi d’investimento e i fondi pensione sarebbero a favore del dissolvimento dell’euro. Infatti molti di loro hanno alleggerito le loro posizioni su debito pubblico dei PIIGS, e sarebbero lieti di riacquistarle con uno sconto sul cambio (lira-euro) del 20%-30%. Per contro, le grandi banche temono di dover svalutare le loro posizioni di trading-investimento. Per questo diffondono «scenari catastrofici in caso di rottura dell’Euro, per convincere tutti gli investitori della necessità di restare aggrappati all’Euro, facendo così i loro propri interessi e cercando di evitare pesanti svalutazioni in bilancio e conseguenti necessità di ricapitalizzare e/o di cambiare management». Vedi Ritorno alla Lira: pochi rischi di forte-svalutazione ed iper-inflazione, ma qualche lezione da ricordare sulla tempestività di decisione
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