Con il ritrovamento del corpo della povera Giulia Cecchin e l’arresto dell’ex fidanzato Filippo, il coro politico e mediatico del mainstream sembra identificare un unico imputato da prestare alla gogna pubblica: il “patriarcato”, vecchio spettro utilizzato dalla narrazione ufficiale ogniqualvolta si presenti la necessità di lavarsi la coscienza e sviare dalle reali responsabilità legate al preoccupante aumento dei femminicidi.
Tutti gli attori in gioco - dai politici ai magistrati e dai giornalisti agli opinionisti - sembrano concordare sulla soluzione: ri-educare gli uomini, a partire dalla più tenera età. Ma come? Reprimendo sistematicamente tutto ciò che - nel campo della cultura, del costume e delle attitudini - abbia a che fare con la virilità. Un’operazione che risponde alla fluidità della “società aperta”, il cui scopo è oltrepassare la naturale complementarietà dei sessi per produrre degli individui astratti, privi di ogni identità e funzionali alle logiche di consumo e di passiva subordinazione veicolate da un capitalismo che si è fatto “way of life”.
Devirilizzare il maschio e colpevolizzare l’uomo, del resto, non può che alimentare le cause del degrado in atto: giacché il problema, evidentemente, non risiede nell’uomo in sé, ma nella deriva psicologica che scaturisce dalla sua destrutturazione. Questi tragici fatti, piaccia o meno ai paladini del “progresso”, trovano risposta in quello stesso modello sociale che ha fatto dello sradicamento la propria ragion d’essere.
La verità - al netto delle “mele marce” che albergano in ogni società e in ogni tempo - è che c’è un disperato bisogno di Uomini, non di eunuchi isterici che diventano facili prede delle più frivole febbri emotive.