Malasanità a Frosinone, morte sospetta in ospedale
Sul caso è intervenuto Francesco Storace (La Destra) che ha presentato un'interrogazione al governatore Nicola Zingaretti
Martedì 21 ottobre un uomo di 54 anni si reca presso il pronto soccorso dell’ospedale Spaziani di Frosinone per una insufficienza polmonare associata a febbre. Necessitava di ricovero, assistenza e cura presso il reparto di pneumologia, non presente nell’ospedale del capoluogo, ma il fax per richiedere presso altra struttura ospedaliera un posto letto sarebbe stato inviato soltanto al terzo giorno di degenza dietro insistenza dei familiari. L’uomo muore tre giorni dopo il suo ricovero, nella notte tra giovedì e venerdì.
Per questo motivo il Vice Presidente del Consiglio regionale e Capogruppo de La Destra, Francesco Storace, ha presentato una interrogazione urgente al Presidente della Giunta, Nicola Zingaretti, per sapere come intende intervenire per porre fine all’ennesimo caso di malasanità presso il pronto soccorso dell’ospedale “Spaziani” di Frosinone e pretendere, dal vertice aziendale della Asl di Frosinone, una rapida e precisa delucidazione sull’episodio verificatesi nei giorni che vanno dal 21 ottobre al 24 ottobre 2014, soprattutto per sapere se corrisponde a vero che il fax per la richiesta di un posto letto presso il reparto di pneumologia di un altro ospedale sia partito solamente al terzo giorno di ricovero. Eventualmente prevedendo una audizione, sulla cattiva gestione del pronto soccorso ciociaro, presso la Commissione Sanità del Consiglio Regionale.
“Sembrerebbe che presso il pronto soccorso – si legge nell’interrogazione - l’uomo sia stato tenuto per 3 giorni senza ricevere alcuna assistenza e alcuna terapia adatta alla patologia in essere. I medici sono stati avvisati del tipo di malattia in quanto una parente ha provveduto a portare con se tutte le sue cartelle cliniche. I medici avrebbero fatto presente alla famiglia del malato che a Frosinone non c'è il reparto di pneumologia. Di conseguenza, nell’attesa, i familiari avrebbero chiesto, sempre in maniera educata e considerando l’esperienza maturata nell’assistere da oramai 6 anni l’uomo, la somministrazione dell’antibiotico e del cortisone.
Dopo le insistenti richieste dei familiari – continua Storace nell’interrogazione - sembrerebbe che soltanto il giovedì (quindi al terzo giorno di ricovero) sia stato inviato un fax all'ospedale di Cassino per la richiesta di un posto letto presso il reparto di pneumologia. Inoltre, sempre il giovedì, all’uomo è stato trovato un posto presso il reparto di otorino dell’ospedale di Frosinone. Purtroppo nella notte tra giovedì e venerdì il paziente muore ed i familiari chiedono immediatamente la cartella clinica per avere notizie sulle cause del decesso, ma la stessa sarà disponibile tra circa 20 giorni.
Si spera, quindi, in un rapido e deciso intervento del Presidente della Giunta per fare chiarezza sull’accaduto, considerato che il sottoscritto – conclude Storace - ha presentato, venerdì 24 ottobre, una altra interrogazione su un gravissimo caso di malasanità avvenuto presso il pronto soccorso di Frosinone, dove una giovane donna ha rischiato la vita per una errata lettura di una tac ed un anno fa una mozione in cui veniva messo in evidenza la critica situazione in cui versa il pronto soccorso di Frosinone. Nella stessa si chiedeva l’impegno, da parte della Giunta e del Presidente della regione, a prendere in considerazione l’ipotesi di ripristinare il pronto soccorso di Ceccano che, garantendo assistenza a circa 80 mila persone l’anno, contribuirebbe concretamente a ridurre il congestionamento dello Spaziani di Frosinone. La mozione è stata approvata successivamente nell’Aula della Pisana”.
A poche ore dalla denuncia del capogruppo de La Destra, la Regione Lazio ha chiesto alla direzione generale dell'azienda locale di avere, nel più breve tempo possibile, una relazione dettagliata sulla vicenda.
Alessandro Verga
https://www.facebook.com/pages/Alessandro-in-Lotta/259125420891283?ref=ts&fref=ts
venerdì 31 ottobre 2014
Per le calotte glaciali il punto di non ritorno è superato
"Le nostre osservazioni danno oggi la prova che un largo settore della calotta glaciale dell’Antartico Ovest è entrato in una fase di arretramento irreversibile. Il punto di non ritorno è superato". Ecco ciò che ha dichiarato recentemente il glaciologo Eric Rignot, professore dell’Università di California, Irvine, le cui proposte sono riportate dal New York Time (1).
Il professore Rignot coordina un programma di ricerche sull’evoluzione dei sei chiacciai che si buttano nel Mar di Amundsen (riva occidentale del continente antartico). La regione ha la forma di una ciotola, aperta dalla parte dell’oceano. Lo zoccolo roccioso sul quale i ghiacciai avanzano è situato sotto il livello del mare e non presenta asperità significative, capaci di frenarli. Per il riscaldamento delle acque, lo strato di ghiaccio va assottigliandosi verso il bordo della ciotola. Per questo fatto, le masse di ghiaccio situate a valle accelerano il loro scivolamento verso le acque più profonde, che accelera la loro fusione e aumenta il rischio di rottura.
Da 1,2 a 4 metri
La calotte glaciale dell’Antartico Ovest raggiunge fino a quattro kilometri di spessore. I volumi dei ghiacciai coinvolti sono pertanto enormi. Secondo l’equipe del professore Rignot, da sola, la scomparsa dei sei ghiacciai studiati farà salire il livello degli oceani di 4 piedi (1,2 metri) in qualche secolo. Non è tutto: questa scomparsa destabilizzerà molto probabilmente i settori adiacenti della calotta, in maniera che il livello dei mari potrebbe alzarsi, alla fine, di circa 4 metri.
Queste conclusioni sono confermate da un altro studio, i cui risultati sono stati scoperti simultaneamente. Diretto dal professor Ian Joughin dell’Università di Washington, esso analizza uno dei sei ghiacciai della regione, Thwaites, uno dei più importanti. Secondo questa equipe di ricercatori, la scomparsa lenta di Thwaites è inevitabile e irreversibile. Anche se le acque calde si disperdono in una maniera o nell’altra, ciò sarebbe “troppo poco, troppo tardi per stabilizzare la calotta glaciale” secondo Ian Joughin. E aggiunge: "non c’è meccanismo di stabilizzazione".
In effetti, ho avuto l’occasione di spiegarlo, un giorno, poco prima dell’uscita di questi studi (2); il solo meccanismo capace di stabilizzare la situazione, e anche di rovesciare la tendenza, sarebbe una nuova glaciazione. Ora, secondo gli astrofisici, questa non interverrà che prima di 30.000 anni…
35 anni di messa in guardia
Le osservazioni di Rignot e Joughin vanno a confortare le messe in guardia lanciate da parecchi anni da altri specialisti. Gli autori dell’articolo del New York Time riportano anche che un primo avvertimento rispetto alla fragilità della calotta glaciale l’aveva lanciata fin dal 1978 John H. Mercer, glaciologo dell’Università dello Stato dell’Ohio. Secondo Mercer, il riscaldamento dovuto alle emissioni di gas serra faceva pensare ad una "minaccia di disastro".
Questo pronostico era stato molto contestato all’epoca. Ma dieci anni più tardi, e un anno dopo la morte di Mercer, il climatologo in capo della NASA, James Hansen, lanciava lo stesso avvertimento davanti ad una commissione del Congresso degli Stati Uniti. E ancora dieci anni più tardi, nel 2008, Hansen e otto altri scienziati pubblicavano in Sciences un articolo che analizzava nel dettaglio la minaccia evocata per la prima volta da Mercer.
Mercer arrivava alla sua conclusione da un ragionamento teorico fondato da una conoscenza profonda delle caratteristiche dell’Antartico Ovest. Hansen e i suoi colleghi vi arrivano interrogando i paleologhi. La loro dimostrazione era impressionante: 65 milioni di anni fa, la terra era senza ghiaccio; la glaciazione dell’antartico si è prodotta all’incirca 35 milioni di anni fa; a questo punto, una soglia fu superata, caratterizzata da parametri precisi in termini di irraggiamento solare, di albedo, e di concentramento atmosferico di gas a effetto serra; paragonando i valori stimati di questi parametri oggi e nel passato, gli autori concludevano noi stavamo probabilmente superando la soglia nell’altro senso…
La conferma dall’osservazione
La novità degli studi che escono oggi è che essi si basano su osservazioni e misure, e non su ragionamenti. Eric Rignot ha fatto ricorso a osservazioni dal satellite, mentre Ian Joughin ha concepito un modello matematico dell’evoluzione del ghiacciao Thwaites. Il fatto che questi metodi differenti portano a risultati concordanti con le spiegazioni teoriche e non lasciano alcun serio dubbio sull’estrema gravità della situazione. Niente permette tuttavia di sperare che i decisori ne tireranno le conclusioni.
Quanto alle cause, Rignot e Joughin confermano il meccanismo già messo in luce da altri ricercatori prima di loro: non è il riscaldamento dell’aria ma quello dell’acqua che provoca la dislocazione della calotta. I negazionisti climatici al soldo delle lobbies petrolifere e carbonifere saranno soddisfatte evidentemente di questo elemento per gridare alto e forte che il cambiamento climatico non c’entra niente. I ricercatori, da parte loro, legano i due fenomeni nella maniera seguente: l’atmosfera al di sopra dell’Antatartico è mantenuta a una temperatura molto bassa da venti violenti che girano intorno al continente: per il fenomeno del riscaldamento, la violenza di questi venti si accresce, perché il differenziale di temperatura tra l’antartico e il resto del globo aumenta; e la forza del vento provoca un movimento delle acqua che "tira" per così dire le acque più calde dei grandi fondi verso la superficie.
Ecosocialismo o barbarie: è vero!
Conviene precisare che le proiezioni avanzate sopra per quanto riguarda l’innalzamento del livello dei mari (1,2 m. e vicino ai 4m. nel giro di alcuni secoli) vengono considerati solo i sei ghiacciai studiati e la zona circostante l’Antartico Ovest. Ora, la fragilità delle calotte mina anche altre regioni, in particolare, la Groenlandia e la penisola antartica – la regione del mondo dove il riscaldamento (e qui, si tratta certo di riscaldamento dell’aria) è più rapido (0,5°C per decennio). I ghiacci accumulati in queste regioni, se dovessero sparire totalmente, equivarrebbero rispettivamente a sei e cinque metri di aumento del livello degli oceani.
Conviene ricordare anche che, secondo il professore Kevin Anderson, direttore di uno dei più prestigiosi centri di studio del cambiamento climatico (Tyndall Center on climate change Research) il ritmo attuale di aumento della concentrazione atmosferica in CO2 ci mette sulla strada di un riscaldamento di 6°C da qui alla fine del secolo. Secondo Anders Levermann, uno dei "lead authors" del GIEC, ciò corrisponderebbe a un aumento del livello dei mari di una dozzinali metri nei prossimi mille o due mila anni (3).
Conviene infine e soprattutto ricordare che i meccanismi capitalisti immaginati da più di vent’anni (Rio, 1992) dai neoliberali (indennità, quote, diritti di emissioni scambiabili, tasse, e altre "internalizzazioni delle esternalità" - che servono da pretesto a una gigantesca ondata di appropriazione delle risorse) sono stati e sono impotenti a ridurre la curva delle emissioni di gas a effetto serra: al contrario esse aumentano più veloci nel tornante di questo secolo!
Questa impotenza non può che aumentare in avvenire. Per fare fronte alla situazione di urgenza assoluta la cui realtà viene confermata dai ricercatori, bisognerebbe:
1) che le emissioni dei paesi sviluppati diminuiscano immediatamente di almeno l’11% ogni anno;
2) che i responsabili capitalisti del disastro siano costretti a finanziare un gigantesco piano mondiale di adattamento, includendo chiaramente la protezione delle zone costiere.
E’ insensato credere che degli obiettivi così ambiziosi possano essere raggiunti nel quadro del mercato. Non possono essere raggiunti che con la fondamentale rimessa in discussione dell’accumulazione capitalista e la pianificazione della transizione ecologica. Riuscire in questo democraticamente e nella giustizia sociale necessita almeno dell’appropriazione collettiva del settore dell’energia, dell’espropriazione del settore del credito, della soppressione delle produzioni nocive e inutili, della localizzazione delle produzioni (con priorità agricola) del libero accesso alle tecnologie verdi, di una nuova organizzazione dello spazio e della mobilità, così come della riduzione radicale del tempo di lavoro, senza perdita di salario, con assunzione compensatoria e ribasso dei ritmi di lavoro.
.
Fratelli umani che dopo ci vivrete...
Non è facile concludere questo articolo senza sprofondare nella escatologia catastrofista. Perché la catastrofe è là in verità. E' in marcia, inesorabile. Se Rignot e Joughin hanno ragione – e credere che loro abbiano torto sarebbe il colmo della farneticazione! - niente può arrestarla, è irreversibile… per 30.000 anni almeno. Per limitarla al massimo, tiriamo le conclusioni che s’impongono. Rifiutiamo il nichilismo misantropico dei cretini per cui il ritorno alla vera natura, è la natura senza l’essere umano. Denunciamo il cinismo criminale di quelle e quelli che preferiscono immaginare la fine del genere umano piuttosto che la scomparsa del capitalismo. Chiediamo agli scienziati di uscire dalla loro torre d’avorio e scendere nell’arena sociale. Suoniamo la campana senza tregua né riposo, nelle nostre associazioni, nei nostri sindacati, dappertutto.
L’alternativa anticapitalista, ecosocialista, non è una posizione "ideologica" ma una necessità obiettiva, imperiosa, inevitabile. Agiamo insieme per trasformare questa necessità in coscienza prima che sia troppo tardi. Altrimenti, non ci resterà altro che implorare il perdono dei nostri discendenti, alla maniera di Francois Villon:
«Frères humains qui après nous vivez
N’ayez le cœur contre nous endurci
Car si pitié de nous pauvres avez
Dieu en aura plutôt de vous merci»
______________________________ __________
Notes
[1] « Scientists Warn of Rising Oceans from Polar Melt », New York Times, May 12. http://www.nytimes.com/2014/ 05/13/s...
[2] Discorso al meeting della LCR, 11 mai. http://www.youtube.com/ watch?v=TzR6...
[3] http://www.lcr-lagauche.org/ plus-de...
* http://www.lcr-lagauche.org/
Traduzione di Giovanni Peta
Alessandro Verga
https://www.facebook.com/pages/Alessandro-in-Lotta/259125420891283?ref=ts&fref=ts
"Le nostre osservazioni danno oggi la prova che un largo settore della calotta glaciale dell’Antartico Ovest è entrato in una fase di arretramento irreversibile. Il punto di non ritorno è superato". Ecco ciò che ha dichiarato recentemente il glaciologo Eric Rignot, professore dell’Università di California, Irvine, le cui proposte sono riportate dal New York Time (1).
Il professore Rignot coordina un programma di ricerche sull’evoluzione dei sei chiacciai che si buttano nel Mar di Amundsen (riva occidentale del continente antartico). La regione ha la forma di una ciotola, aperta dalla parte dell’oceano. Lo zoccolo roccioso sul quale i ghiacciai avanzano è situato sotto il livello del mare e non presenta asperità significative, capaci di frenarli. Per il riscaldamento delle acque, lo strato di ghiaccio va assottigliandosi verso il bordo della ciotola. Per questo fatto, le masse di ghiaccio situate a valle accelerano il loro scivolamento verso le acque più profonde, che accelera la loro fusione e aumenta il rischio di rottura.
Da 1,2 a 4 metri
La calotte glaciale dell’Antartico Ovest raggiunge fino a quattro kilometri di spessore. I volumi dei ghiacciai coinvolti sono pertanto enormi. Secondo l’equipe del professore Rignot, da sola, la scomparsa dei sei ghiacciai studiati farà salire il livello degli oceani di 4 piedi (1,2 metri) in qualche secolo. Non è tutto: questa scomparsa destabilizzerà molto probabilmente i settori adiacenti della calotta, in maniera che il livello dei mari potrebbe alzarsi, alla fine, di circa 4 metri.
Queste conclusioni sono confermate da un altro studio, i cui risultati sono stati scoperti simultaneamente. Diretto dal professor Ian Joughin dell’Università di Washington, esso analizza uno dei sei ghiacciai della regione, Thwaites, uno dei più importanti. Secondo questa equipe di ricercatori, la scomparsa lenta di Thwaites è inevitabile e irreversibile. Anche se le acque calde si disperdono in una maniera o nell’altra, ciò sarebbe “troppo poco, troppo tardi per stabilizzare la calotta glaciale” secondo Ian Joughin. E aggiunge: "non c’è meccanismo di stabilizzazione".
In effetti, ho avuto l’occasione di spiegarlo, un giorno, poco prima dell’uscita di questi studi (2); il solo meccanismo capace di stabilizzare la situazione, e anche di rovesciare la tendenza, sarebbe una nuova glaciazione. Ora, secondo gli astrofisici, questa non interverrà che prima di 30.000 anni…
35 anni di messa in guardia
Le osservazioni di Rignot e Joughin vanno a confortare le messe in guardia lanciate da parecchi anni da altri specialisti. Gli autori dell’articolo del New York Time riportano anche che un primo avvertimento rispetto alla fragilità della calotta glaciale l’aveva lanciata fin dal 1978 John H. Mercer, glaciologo dell’Università dello Stato dell’Ohio. Secondo Mercer, il riscaldamento dovuto alle emissioni di gas serra faceva pensare ad una "minaccia di disastro".
Questo pronostico era stato molto contestato all’epoca. Ma dieci anni più tardi, e un anno dopo la morte di Mercer, il climatologo in capo della NASA, James Hansen, lanciava lo stesso avvertimento davanti ad una commissione del Congresso degli Stati Uniti. E ancora dieci anni più tardi, nel 2008, Hansen e otto altri scienziati pubblicavano in Sciences un articolo che analizzava nel dettaglio la minaccia evocata per la prima volta da Mercer.
Mercer arrivava alla sua conclusione da un ragionamento teorico fondato da una conoscenza profonda delle caratteristiche dell’Antartico Ovest. Hansen e i suoi colleghi vi arrivano interrogando i paleologhi. La loro dimostrazione era impressionante: 65 milioni di anni fa, la terra era senza ghiaccio; la glaciazione dell’antartico si è prodotta all’incirca 35 milioni di anni fa; a questo punto, una soglia fu superata, caratterizzata da parametri precisi in termini di irraggiamento solare, di albedo, e di concentramento atmosferico di gas a effetto serra; paragonando i valori stimati di questi parametri oggi e nel passato, gli autori concludevano noi stavamo probabilmente superando la soglia nell’altro senso…
La conferma dall’osservazione
La novità degli studi che escono oggi è che essi si basano su osservazioni e misure, e non su ragionamenti. Eric Rignot ha fatto ricorso a osservazioni dal satellite, mentre Ian Joughin ha concepito un modello matematico dell’evoluzione del ghiacciao Thwaites. Il fatto che questi metodi differenti portano a risultati concordanti con le spiegazioni teoriche e non lasciano alcun serio dubbio sull’estrema gravità della situazione. Niente permette tuttavia di sperare che i decisori ne tireranno le conclusioni.
Quanto alle cause, Rignot e Joughin confermano il meccanismo già messo in luce da altri ricercatori prima di loro: non è il riscaldamento dell’aria ma quello dell’acqua che provoca la dislocazione della calotta. I negazionisti climatici al soldo delle lobbies petrolifere e carbonifere saranno soddisfatte evidentemente di questo elemento per gridare alto e forte che il cambiamento climatico non c’entra niente. I ricercatori, da parte loro, legano i due fenomeni nella maniera seguente: l’atmosfera al di sopra dell’Antatartico è mantenuta a una temperatura molto bassa da venti violenti che girano intorno al continente: per il fenomeno del riscaldamento, la violenza di questi venti si accresce, perché il differenziale di temperatura tra l’antartico e il resto del globo aumenta; e la forza del vento provoca un movimento delle acqua che "tira" per così dire le acque più calde dei grandi fondi verso la superficie.
Ecosocialismo o barbarie: è vero!
Conviene precisare che le proiezioni avanzate sopra per quanto riguarda l’innalzamento del livello dei mari (1,2 m. e vicino ai 4m. nel giro di alcuni secoli) vengono considerati solo i sei ghiacciai studiati e la zona circostante l’Antartico Ovest. Ora, la fragilità delle calotte mina anche altre regioni, in particolare, la Groenlandia e la penisola antartica – la regione del mondo dove il riscaldamento (e qui, si tratta certo di riscaldamento dell’aria) è più rapido (0,5°C per decennio). I ghiacci accumulati in queste regioni, se dovessero sparire totalmente, equivarrebbero rispettivamente a sei e cinque metri di aumento del livello degli oceani.
Conviene ricordare anche che, secondo il professore Kevin Anderson, direttore di uno dei più prestigiosi centri di studio del cambiamento climatico (Tyndall Center on climate change Research) il ritmo attuale di aumento della concentrazione atmosferica in CO2 ci mette sulla strada di un riscaldamento di 6°C da qui alla fine del secolo. Secondo Anders Levermann, uno dei "lead authors" del GIEC, ciò corrisponderebbe a un aumento del livello dei mari di una dozzinali metri nei prossimi mille o due mila anni (3).
Conviene infine e soprattutto ricordare che i meccanismi capitalisti immaginati da più di vent’anni (Rio, 1992) dai neoliberali (indennità, quote, diritti di emissioni scambiabili, tasse, e altre "internalizzazioni delle esternalità" - che servono da pretesto a una gigantesca ondata di appropriazione delle risorse) sono stati e sono impotenti a ridurre la curva delle emissioni di gas a effetto serra: al contrario esse aumentano più veloci nel tornante di questo secolo!
Questa impotenza non può che aumentare in avvenire. Per fare fronte alla situazione di urgenza assoluta la cui realtà viene confermata dai ricercatori, bisognerebbe:
1) che le emissioni dei paesi sviluppati diminuiscano immediatamente di almeno l’11% ogni anno;
2) che i responsabili capitalisti del disastro siano costretti a finanziare un gigantesco piano mondiale di adattamento, includendo chiaramente la protezione delle zone costiere.
E’ insensato credere che degli obiettivi così ambiziosi possano essere raggiunti nel quadro del mercato. Non possono essere raggiunti che con la fondamentale rimessa in discussione dell’accumulazione capitalista e la pianificazione della transizione ecologica. Riuscire in questo democraticamente e nella giustizia sociale necessita almeno dell’appropriazione collettiva del settore dell’energia, dell’espropriazione del settore del credito, della soppressione delle produzioni nocive e inutili, della localizzazione delle produzioni (con priorità agricola) del libero accesso alle tecnologie verdi, di una nuova organizzazione dello spazio e della mobilità, così come della riduzione radicale del tempo di lavoro, senza perdita di salario, con assunzione compensatoria e ribasso dei ritmi di lavoro.
.
Fratelli umani che dopo ci vivrete...
Non è facile concludere questo articolo senza sprofondare nella escatologia catastrofista. Perché la catastrofe è là in verità. E' in marcia, inesorabile. Se Rignot e Joughin hanno ragione – e credere che loro abbiano torto sarebbe il colmo della farneticazione! - niente può arrestarla, è irreversibile… per 30.000 anni almeno. Per limitarla al massimo, tiriamo le conclusioni che s’impongono. Rifiutiamo il nichilismo misantropico dei cretini per cui il ritorno alla vera natura, è la natura senza l’essere umano. Denunciamo il cinismo criminale di quelle e quelli che preferiscono immaginare la fine del genere umano piuttosto che la scomparsa del capitalismo. Chiediamo agli scienziati di uscire dalla loro torre d’avorio e scendere nell’arena sociale. Suoniamo la campana senza tregua né riposo, nelle nostre associazioni, nei nostri sindacati, dappertutto.
L’alternativa anticapitalista, ecosocialista, non è una posizione "ideologica" ma una necessità obiettiva, imperiosa, inevitabile. Agiamo insieme per trasformare questa necessità in coscienza prima che sia troppo tardi. Altrimenti, non ci resterà altro che implorare il perdono dei nostri discendenti, alla maniera di Francois Villon:
«Frères humains qui après nous vivez
N’ayez le cœur contre nous endurci
Car si pitié de nous pauvres avez
Dieu en aura plutôt de vous merci»
______________________________
Notes
[1] « Scientists Warn of Rising Oceans from Polar Melt », New York Times, May 12. http://www.nytimes.com/2014/
[2] Discorso al meeting della LCR, 11 mai. http://www.youtube.com/
[3] http://www.lcr-lagauche.org/
* http://www.lcr-lagauche.org/
Traduzione di Giovanni Peta
Alessandro Verga
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Acqua e beni comuni, il secondo scalpo di Renzi
Attraverso la famigerata coppia normativa, formata dal decreto «sblocca Italia» e dalla legge di stabilità, il governo Renzi sta tentando di portare un secondo scalpo al tavolo dei rigoristi europei e al banchetto dei grandi interessi finanziari: i servizi pubblici locali, a partire dall’acqua.
Il disegno sotteso è quello di un processo di aggregazione/fusione che veda i quattro colossi multiutility attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già collocati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo gli unici campioni nazionali, finalmente in grado di «competere» sui mercati internazionali.
Dietro la propaganda della riduzione del carrozzone delle società partecipate e dei costi della «casta» — problema reale, le cui soluzioni, se affidate ai cittadini e ai lavoratori dei servizi, andrebbero in direzione ostinata e contraria agli interessi delle lobby politico/finanziarie che dominano il paese– si cerca di mettere una pietra tombale sull’esito della straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011 e sul suo profondo significato di pronunciamento di massa contro le politiche liberiste e di affermazione del nuovo paradigma dei beni comuni.
Con lo «sblocca Italia» — piano di cementificazione devastante del paese, alla faccia delle lacrime di coccodrillo sul suo dissesto idrogeologico — si è imposto il concetto dell’unicità della gestione del servizio idrico dentro ogni ambito territoriale ottimale (Ato) in cui è diviso il territorio, buttando a mare il pre-esistente concetto di unitarietà della gestione, che permetteva di mantenere, integrandola, la pluralità delle gestioni esistenti in ogni territorio.
Se a questo si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridisegnando gli ambiti, tendendo sempre più spesso a farli coincidere con l’intero territorio regionale, il risultato appare chiaro: al termine di questo processo, vi sarà un unico soggetto gestore per regione, e sarà giocoforza il pesce più grosso che annetterà tutti i pesci più piccoli. Rompendo definitivamente ogni legame con la territorialità dei servizi pubblici locali e la possibilità, se non di una gestione partecipativa, almeno di un controllo democratico affidato alle istituzioni locali.
In realtà, il disegno di fusione progressiva ha un preciso obiettivo: la valorizzazione finanziaria di società che, basandosi sulla redditività garantita dall’erogare servizi essenziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liquidità periodica garantita dalle tariffe, se dimensionate su un numero significativo di utenti-cittadini, possono produrre, una volta collocate dentro la rete delle grandi multiutility, un importante valore aggiunto sui mercati finanziari.
Ciò che prevede lo «sblocca Italia» è tuttavia solo la premessa di quanto disposto dalla legge di stabilità, che si prefigge il colpo finale per ogni idea di riappropriazione sociale dei beni comuni e di gestione partecipativa e priva di profitti da parte delle comunità locali.
Infatti, approfittando del progressivo strangolamento degli enti locali, scientificamente portato avanti negli anni attraverso i tagli dei trasferimenti e l’applicazione di un patto di stabilità interno che ha reso praticamente impossibile il mantenimento di ogni funzione pubblica e sociale (gli osannati «angeli del fango» della recente alluvione a Genova, altro non sono che ragazzi sanamente arrabbiati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abbandono in cui sono lasciati dalle istituzioni, decidono di fare da sé) , il governo Renzi regala ai Sindaci il definitivo ricatto, togliendo dai parametri del patto di stabilità, quindi permettendo loro di spendere, una parte delle cifre ricavate dalla cessione di quote pubbliche delle società partecipate di servizi pubblici locali e rendendo nel contempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pubblica degli stessi.
Si chiede ai sindaci, dunque, di mettere in vendita i beni comuni primari delle proprie comunità di riferimento, per consentire loro di mantenere uno straccio di funzionamento ordinario dell’ente locale
L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo neppure un mese dalla proclamazione della vittoria referendaria, scrissero all’allora governo Berlusconi la famosa lettera di diktat, in cui il punto n. 26 chiedeva «cosa intende fare il suo governo per la privatizzazione dei servizi idrici nel Paese, malgrado l’esito del recente risultato referendario?».
L’obiettivo di Renzi è quello di dimostrare di essere l’unico capace di portare a termine un compito che nessun altro governo era sinora riuscito a fare.
Il compito del movimento per l’acqua e dei movimenti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimostrare che indietro non si torna, riaprendo una forte mobilitazione territoriale e nazionale che sappia parlare a quella maggioranza di persone, intimorita dalla crisi ma non annichilita nella speranza, che votando «sì» al referendum ha suggerito la possibilità di un altro modello sociale, basato sulla riappropriazione dei beni comuni e sulla loro gestione partecipativa, democratica, territoriale.
E di far schierare i sindaci, costretti, oggi più che mai, a scegliere se essere l’ultimo terminale delle politiche rigoriste che dall’Ue ai governi nazionali precipitano sui beni comuni della popolazioni locali o se finalmente essere i primi rappresentanti del territorio e delle persone che lo abitano.
Renzi non è che il presente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non conserva memoria e non immagina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pretendono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.
* Forum italiano dei movimenti per l’acqua
Alessandro Verga
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Attraverso la famigerata coppia normativa, formata dal decreto «sblocca Italia» e dalla legge di stabilità, il governo Renzi sta tentando di portare un secondo scalpo al tavolo dei rigoristi europei e al banchetto dei grandi interessi finanziari: i servizi pubblici locali, a partire dall’acqua.
Il disegno sotteso è quello di un processo di aggregazione/fusione che veda i quattro colossi multiutility attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già collocati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo gli unici campioni nazionali, finalmente in grado di «competere» sui mercati internazionali.
Dietro la propaganda della riduzione del carrozzone delle società partecipate e dei costi della «casta» — problema reale, le cui soluzioni, se affidate ai cittadini e ai lavoratori dei servizi, andrebbero in direzione ostinata e contraria agli interessi delle lobby politico/finanziarie che dominano il paese– si cerca di mettere una pietra tombale sull’esito della straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011 e sul suo profondo significato di pronunciamento di massa contro le politiche liberiste e di affermazione del nuovo paradigma dei beni comuni.
Con lo «sblocca Italia» — piano di cementificazione devastante del paese, alla faccia delle lacrime di coccodrillo sul suo dissesto idrogeologico — si è imposto il concetto dell’unicità della gestione del servizio idrico dentro ogni ambito territoriale ottimale (Ato) in cui è diviso il territorio, buttando a mare il pre-esistente concetto di unitarietà della gestione, che permetteva di mantenere, integrandola, la pluralità delle gestioni esistenti in ogni territorio.
Se a questo si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridisegnando gli ambiti, tendendo sempre più spesso a farli coincidere con l’intero territorio regionale, il risultato appare chiaro: al termine di questo processo, vi sarà un unico soggetto gestore per regione, e sarà giocoforza il pesce più grosso che annetterà tutti i pesci più piccoli. Rompendo definitivamente ogni legame con la territorialità dei servizi pubblici locali e la possibilità, se non di una gestione partecipativa, almeno di un controllo democratico affidato alle istituzioni locali.
In realtà, il disegno di fusione progressiva ha un preciso obiettivo: la valorizzazione finanziaria di società che, basandosi sulla redditività garantita dall’erogare servizi essenziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liquidità periodica garantita dalle tariffe, se dimensionate su un numero significativo di utenti-cittadini, possono produrre, una volta collocate dentro la rete delle grandi multiutility, un importante valore aggiunto sui mercati finanziari.
Ciò che prevede lo «sblocca Italia» è tuttavia solo la premessa di quanto disposto dalla legge di stabilità, che si prefigge il colpo finale per ogni idea di riappropriazione sociale dei beni comuni e di gestione partecipativa e priva di profitti da parte delle comunità locali.
Infatti, approfittando del progressivo strangolamento degli enti locali, scientificamente portato avanti negli anni attraverso i tagli dei trasferimenti e l’applicazione di un patto di stabilità interno che ha reso praticamente impossibile il mantenimento di ogni funzione pubblica e sociale (gli osannati «angeli del fango» della recente alluvione a Genova, altro non sono che ragazzi sanamente arrabbiati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abbandono in cui sono lasciati dalle istituzioni, decidono di fare da sé) , il governo Renzi regala ai Sindaci il definitivo ricatto, togliendo dai parametri del patto di stabilità, quindi permettendo loro di spendere, una parte delle cifre ricavate dalla cessione di quote pubbliche delle società partecipate di servizi pubblici locali e rendendo nel contempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pubblica degli stessi.
Si chiede ai sindaci, dunque, di mettere in vendita i beni comuni primari delle proprie comunità di riferimento, per consentire loro di mantenere uno straccio di funzionamento ordinario dell’ente locale
L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo neppure un mese dalla proclamazione della vittoria referendaria, scrissero all’allora governo Berlusconi la famosa lettera di diktat, in cui il punto n. 26 chiedeva «cosa intende fare il suo governo per la privatizzazione dei servizi idrici nel Paese, malgrado l’esito del recente risultato referendario?».
L’obiettivo di Renzi è quello di dimostrare di essere l’unico capace di portare a termine un compito che nessun altro governo era sinora riuscito a fare.
Il compito del movimento per l’acqua e dei movimenti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimostrare che indietro non si torna, riaprendo una forte mobilitazione territoriale e nazionale che sappia parlare a quella maggioranza di persone, intimorita dalla crisi ma non annichilita nella speranza, che votando «sì» al referendum ha suggerito la possibilità di un altro modello sociale, basato sulla riappropriazione dei beni comuni e sulla loro gestione partecipativa, democratica, territoriale.
E di far schierare i sindaci, costretti, oggi più che mai, a scegliere se essere l’ultimo terminale delle politiche rigoriste che dall’Ue ai governi nazionali precipitano sui beni comuni della popolazioni locali o se finalmente essere i primi rappresentanti del territorio e delle persone che lo abitano.
Renzi non è che il presente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non conserva memoria e non immagina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pretendono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.
* Forum italiano dei movimenti per l’acqua
Alessandro Verga
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NO ALLA ORTE-MESTRE. A ORTE DUE GIORNATE DI INFORMAZIONE E MOBILITAZIONE
Sabato 20 e Domenica 21 settembre, dalle 15,30 al tramonto, presso i caselli autostradali di Orte, iniziativa di presidio e volantinaggio per opporsi al progetto della Orte-Mestre.
Il progetto di costruzione dell'autostrada Orte-Mestre (e, per quanto riguarda l'attuale superstrada E45 , la sua trasformazione nel tratto umbro della suddetta), nonostante abbia ricevuto un primo "stop" dalla Corte dei Conti, e nonostante gli scandali che puntualmente emergono per tali "grandi opere", è stato nuovamente rivitalizzato dal decreto "SBLOCCA ITALIA" del Governo Renzi, che se ne è fatto da sempre uno dei suoi più grandi sponsor, a tutela delle larghe intese e dei grandi affari trasversali che sono dietro di esso.
Tramite il decreto "SBLOCCA ITALIA" inoltre viene semplificata e forzata la stessa normativa nazionale, in deroga pure a qualsivoglia normativa di tutela ambientale e di legislazione antimafia.
Tutto ciò dimostra che non serviranno né procure, né ricorsi, né la Corte dei Conti a fermare scellerati progetti definiti "grandi opere", come la TAV, l'autostrada Orte-Mestre, la TAP, ecc., progetti dietro cui si celano grandi interessi privati e politicamente trasversali: la possibilità di ribaltare le devastazioni che si profilano, il nuovo sistema di furto di risorse economiche pubbliche a tutto vantaggio dei diversi gruppi privati di potere economico-politico, risiede nella mobilitazione dei comitati sociali ed ambientali, nelle popolazioni locali, nei semplici cittadini.
E' per questo motivo che, nell'ambito della due giorni di mobilitazioni (20 e 21 settembre) promossa dalla rete nazionale Stop Or-Me, come comitato della provincia di Terni terremo un PRESIDIO-VOLANTINAGGIO INFORMATIVO sui costi economici ed ambientali che la trasformazione della superstrada E45 in autostrads comporterebbe(si pensi solo all'introduzione del PEDAGGIO) in prossimità dei CASELLI AUTOSTRADALI di ORTE.
Alessandro Verga
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Sabato 20 e Domenica 21 settembre, dalle 15,30 al tramonto, presso i caselli autostradali di Orte, iniziativa di presidio e volantinaggio per opporsi al progetto della Orte-Mestre.
Il progetto di costruzione dell'autostrada Orte-Mestre (e, per quanto riguarda l'attuale superstrada E45 , la sua trasformazione nel tratto umbro della suddetta), nonostante abbia ricevuto un primo "stop" dalla Corte dei Conti, e nonostante gli scandali che puntualmente emergono per tali "grandi opere", è stato nuovamente rivitalizzato dal decreto "SBLOCCA ITALIA" del Governo Renzi, che se ne è fatto da sempre uno dei suoi più grandi sponsor, a tutela delle larghe intese e dei grandi affari trasversali che sono dietro di esso.
Tramite il decreto "SBLOCCA ITALIA" inoltre viene semplificata e forzata la stessa normativa nazionale, in deroga pure a qualsivoglia normativa di tutela ambientale e di legislazione antimafia.
Tutto ciò dimostra che non serviranno né procure, né ricorsi, né la Corte dei Conti a fermare scellerati progetti definiti "grandi opere", come la TAV, l'autostrada Orte-Mestre, la TAP, ecc., progetti dietro cui si celano grandi interessi privati e politicamente trasversali: la possibilità di ribaltare le devastazioni che si profilano, il nuovo sistema di furto di risorse economiche pubbliche a tutto vantaggio dei diversi gruppi privati di potere economico-politico, risiede nella mobilitazione dei comitati sociali ed ambientali, nelle popolazioni locali, nei semplici cittadini.
E' per questo motivo che, nell'ambito della due giorni di mobilitazioni (20 e 21 settembre) promossa dalla rete nazionale Stop Or-Me, come comitato della provincia di Terni terremo un PRESIDIO-VOLANTINAGGIO INFORMATIVO sui costi economici ed ambientali che la trasformazione della superstrada E45 in autostrads comporterebbe(si pensi solo all'introduzione del PEDAGGIO) in prossimità dei CASELLI AUTOSTRADALI di ORTE.
Alessandro Verga
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BONANNI (CISL). DIETRO LE DIMISSIONI UNA PENSIONE D'ORO?
Le dimissioni di Raffaele Bonanni dalla guida della Cisl, sembrano avere un retroscena. Si tratterebbe di una pensione di tutto rispetto con qualche ombra sui tempi e le modalità. Secondo il Fatto Quotidiano, il sindacalista, sarebbe arrivato a guadagnare 336 mila euro l'anno nell'ultimo anno di contribuzione.
IL sostanzioso aumento ci sarebbe stato proprio nel 2011, anno in cui Bonanni avrebbe deciso di andare in pensione, evitando la micidiale riforma Fornero – che ha rovinato l'esistenza a milioni di lavoratori - contro cui Cgil Cisl Uil si limitarono a.... ben tre ore di sciopero.
Alcuni numeri, sono stati resi noti recentemente. L'importo della pensione dell'ex segretario della Cisl, dal 2012 percepisce 8.593 euro lordi al mese, pari a 5.391,50 euro netti.
Ma come si è arrivati a queste cifre? Secondo il Fatto gli aumenti di stipendio di Bonanni sono avvenuti negli ultimi anni di attività. Fino al 2006 era segretario confederale guadagnando 80 mila euro lordi all'anno. Diventando segretario generale, ha avuto diritto a un aumento del 30%. Nel 2009 Bonanni ha guadagnato 255.759 euro (+26% sull'anno precedente), nel 2010 è arrivato a 267.436 (+4%), e nel 2011 c'è un stato un ulteriore aumento del 25%, giungendo a 336.260 euro. Presentando la domanda prima della riforma Fornero, Bonanni si è così potuto basare sulle ultime cinque retribuzioni per il calcolo della propria pensione.
L'Usb nel dicembre del 2013, contestando l'ennesima assist del leader della Cisl a favore della previdenza integrativa, aveva diffuso un comunicato nel quale denunciava che Bonanni, 64 anni, prendeva già da un paio d'anni una pensione di 7 mila euro lordi al mese, circa 4.300 euro netti. Con questo pregresso – indubbiamente confortevole - Bonanni aveva proposto – per gli altri ovviamente - di rendere obbligatoria per legge l'adesione ai fondi pensione (costituiti su iniziativa delle associazioni imprenditoriali ma anche dei sindacati), al fine di favorire l'aumento della previdenza integrativa. Nel comunicato, Pierpaolo Leonardi,, dell'esecutivo della Usb, denunciava che “lui (Bonanni, ndr ) è andato in pensione con il sistema retributivo pochi giorni prima del varo della riforma Fornero (fine del 2011, ndr ) e con un assegno dell'Inps di 7 mila euro mensili lordi”. Bonanni, dicono, che si fosse infuriato parlando di grave violazione della privacy e rivendicando di aver versato 45 anni di contributi all'Inps. La pensione di Bonanni beneficia del vantaggioso metodo di calcolo retributivo, che con il massimo di anni di contribuzione, avvicina l'assegno agli ultimi anni dello stipendio. Nella puntata di Report del 26 ottobre 2008, cioè sei anni fa, affermò di guadagnare 90 mila euro lordi all'anno, in pratica un netto di circa 4.500 euro.
Alessandro Verga
https://www.facebook.com/pages/Alessandro-in-Lotta/259125420891283?ref=ts&fref=ts
Le dimissioni di Raffaele Bonanni dalla guida della Cisl, sembrano avere un retroscena. Si tratterebbe di una pensione di tutto rispetto con qualche ombra sui tempi e le modalità. Secondo il Fatto Quotidiano, il sindacalista, sarebbe arrivato a guadagnare 336 mila euro l'anno nell'ultimo anno di contribuzione.
IL sostanzioso aumento ci sarebbe stato proprio nel 2011, anno in cui Bonanni avrebbe deciso di andare in pensione, evitando la micidiale riforma Fornero – che ha rovinato l'esistenza a milioni di lavoratori - contro cui Cgil Cisl Uil si limitarono a.... ben tre ore di sciopero.
Alcuni numeri, sono stati resi noti recentemente. L'importo della pensione dell'ex segretario della Cisl, dal 2012 percepisce 8.593 euro lordi al mese, pari a 5.391,50 euro netti.
Ma come si è arrivati a queste cifre? Secondo il Fatto gli aumenti di stipendio di Bonanni sono avvenuti negli ultimi anni di attività. Fino al 2006 era segretario confederale guadagnando 80 mila euro lordi all'anno. Diventando segretario generale, ha avuto diritto a un aumento del 30%. Nel 2009 Bonanni ha guadagnato 255.759 euro (+26% sull'anno precedente), nel 2010 è arrivato a 267.436 (+4%), e nel 2011 c'è un stato un ulteriore aumento del 25%, giungendo a 336.260 euro. Presentando la domanda prima della riforma Fornero, Bonanni si è così potuto basare sulle ultime cinque retribuzioni per il calcolo della propria pensione.
L'Usb nel dicembre del 2013, contestando l'ennesima assist del leader della Cisl a favore della previdenza integrativa, aveva diffuso un comunicato nel quale denunciava che Bonanni, 64 anni, prendeva già da un paio d'anni una pensione di 7 mila euro lordi al mese, circa 4.300 euro netti. Con questo pregresso – indubbiamente confortevole - Bonanni aveva proposto – per gli altri ovviamente - di rendere obbligatoria per legge l'adesione ai fondi pensione (costituiti su iniziativa delle associazioni imprenditoriali ma anche dei sindacati), al fine di favorire l'aumento della previdenza integrativa. Nel comunicato, Pierpaolo Leonardi,, dell'esecutivo della Usb, denunciava che “lui (Bonanni, ndr ) è andato in pensione con il sistema retributivo pochi giorni prima del varo della riforma Fornero (fine del 2011, ndr ) e con un assegno dell'Inps di 7 mila euro mensili lordi”. Bonanni, dicono, che si fosse infuriato parlando di grave violazione della privacy e rivendicando di aver versato 45 anni di contributi all'Inps. La pensione di Bonanni beneficia del vantaggioso metodo di calcolo retributivo, che con il massimo di anni di contribuzione, avvicina l'assegno agli ultimi anni dello stipendio. Nella puntata di Report del 26 ottobre 2008, cioè sei anni fa, affermò di guadagnare 90 mila euro lordi all'anno, in pratica un netto di circa 4.500 euro.
Alessandro Verga
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giovedì 30 ottobre 2014
Miriam Ponzi: sparire e' facilissimo 200 dollari per un documento falso
L' INVESTIGATRICE
L' INVESTIGATRICE Miriam Ponzi: sparire e' facilissimo 200 dollari per un documento falso MILANO - Signora Ponzi, quante possibilita' ci sono per un investigatore di rintracciare lo "scomparso per scelta"? L' erede di Tom Ponzi non ha dubbi: "Chi vuole sparire, di solito, e' in vantaggio di 20 / 40 punti rispetto a chi lo cerca. Mi spiego: se un adulto prepara con cura la sua fuga, 100 volte su 100 riesce a portare a termine il piano. Chi viene incaricato di trovarlo ha invece il 60 / 80 per cento di chances di risolvere il caso". "In pochi anni e' raddoppiato il numero delle persone che volutamente fanno perdere le loro tracce - aggiunge -. La vicenda della famiglia Carretta, che conosco solo attraverso i giornali, non mi stupisce affatto. Sapesse quanti decidono di cambiare vita! E non parlo dei ragazzi che covano la fuga come un sogno. Mi riferisco a insospettabili professionisti, i quali, per i motivi piu' vari - debiti, guai col fisco, rotture sentimentali - compiono il gran passo. Che non e' improvviso, ma "organizzato", impiegando uno o due anni di preparativi". Miriam Ponzi, 44 anni, titolare della "Tom Ponzi Investigation" di Roma, svolge il suo mestiere da un ventennio. "La ricerca degli scomparsi - dice - e' una delle richieste piu' frequenti. Il prezzo della nostra prestazione? Dai 2 ai 25 milioni. Attenzione, pero' : diamo un termine di 3 mesi al cliente. Se la missione non va a buon fine in quel tempo, solo in casi eccezionali rinnoviamo il contratto". Sparire e rifarsi un' esistenza presuppone, naturalmente, buone possibilita' economiche o, quantomeno, riferimenti solidi nel luogo dove ci si vuole trasferire. Inoltre, per sicurezza, e' meglio cambiare generalita' . Lo hanno fatto anche i Carretta. "Niente di piu' facile - osserva Miriam Ponzi -. Si puo' perfino arrangiarsi da soli, se si e' dotati di una certa abilita' . Si comincia alterando un documento, poi si dichiara lo smarrimento, richiedendo quello nuovo con altri dati. Un paio di "lavaggi" e il gioco e' fatto. La via piu' rapida e' entrare in contatto con un giro malavitoso, frequentando i posti giusti. Risultato? Con 200 dollari si compra il documento "falso di pacca". Qual e' il percorso - tipo dell' investigatore alla ricerca dello scomparso? "Innanzitutto bisogna scoprire le motivazioni della fuga. Poi, da li' si procede. Anche il piu' bravo nello scomparire lascia sempre qualche traccia. Nulla va trascurato da chi conduce le indagini: dai movimenti bancari, all' acquisto insolito di un libro o di un vestito. E altri indizi, apparentemente banali".
http://archiviostorico.corriere.it/1996/novembre/28/Miriam_Ponzi_sparire_facilissimo_200_co_0_96112812115.shtml
Le melon de Mélanie Laurent
Une vidéo virale du tumblr Mélanie is curious of everything compile les interviews les plus prétentieuses de l'actrice-réalisatrice-chanteuse Mélanie Laurent.
VIDEO. Le melon de Mélanie Laurent
REUTERS
Mélanie Laurent manquerait-elle de modestie? L'actrice-réalisatrice-chanteuse française de 31 ans, dont le nouveau film Respire sortira en salle le 12 novembre, semble avoir légèrement la grosse tête. C'est du moins ce que tendent à prouver quelques citations sorties de ses interviews et rassemblées dans un montage vidéo partagé par Les Inrocks et Brain. "Mon métier d'actrice évolue de manière assez impressionnante...", observe-t-elle, en toute simplicité, avant de crâner d'une voix de midinette: "En ce moment, je suis sur le prochain Tarantinooo avec Brad Piiiiit." "Moi, j'ai été adorée, mais presque trop", déclare-t-elle, blasée, au micro du site belge WAF!. "Tout est simple (dans ma vie), pff, c'est un bonheur", lache-t-elle encore sur Au Féminin. Un exemple d'humilité!
http://www.lexpress.fr/styles/vip/video-melanie-laurent-sa-lecon-d-humilite_1615897.html?xtor=EPR-5013-[20141028_44_camp_edito_lexpress_melanie_laurent_melon_soir_000TF6]-20141028-[__002H6VM]-[RB2D106H001ECCUV]-20141028050400
mercoledì 29 ottobre 2014
Terni. Massacra la moglie a coltellate mentre i figli dormono, poi si costituisce
Secondo una prima indagine dei carabinieri il pensionato è stato spinto da motivi passionali.
-Redazione- Un pensionato di 66 anni è stato arrestato per l’omicidio della moglie, trentaseienne, trovata morta la scorsa notte nella loro abitazione. L'ennesimo caso di omicidio in famiglia è accaduto a Terni.
L’uomo si è presentato in carcere, dove si trova ora in stato di arresto per omicidio volontario. La donna è stata uccisa con due coltellate all’addome.
L’uomo si è presentato in carcere, dove si trova ora in stato di arresto per omicidio volontario. La donna è stata uccisa con due coltellate all’addome.
"Ho ucciso mia moglie": sarebbero state le prime parole del pensionato da quando si è presentato alla polizia penitenziaria al carcere di Terni per costituirsi.
Nell’abitazione del delitto c’erano anche i due figli della coppia , di 2 e 7 anni, che però in quel momento dormivano e non si sarebbero accorti di nulla.
Prima di compiere il delitto l'uomo ha chiuso i figli in una stanza, quindi ha sfogato tutta la sua rabbia contro la donna colpendola con violenza all'addome.
Nell’abitazione del delitto c’erano anche i due figli della coppia , di 2 e 7 anni, che però in quel momento dormivano e non si sarebbero accorti di nulla.
Prima di compiere il delitto l'uomo ha chiuso i figli in una stanza, quindi ha sfogato tutta la sua rabbia contro la donna colpendola con violenza all'addome.
Secondo le prime indagini dei carabinieri dietro l’omicidio ci sarebbero motivi passionali; sarebbe, infatti, stato mosso dalla gelosia. L'omicidio sarebbe avvenuto nel corso di una lite, probabilmente iniziata a causa della forte gelosia di lui.
Secondo quanto si è appreso, l'uomo aveva un altro matrimonio alle spalle concluso con una separazione.
http://www.articolotre.com/2014/10/terni-massacra-la-moglie-a-coltellate-mentre-i-figli-dormono-poi-si-costituisce/
I residenti di Greco non vogliono
il refettorio dei poveri per Expo
LA POLEMICA
Lettera al cardinale Scola contro il progetto della Caritas: «Decisione imposta dall’alto»
di Paolo Foschini
Va bene tutto, ma i poveri vicino a un oratorio - addirittura a un asilo - no e poi no. È questa la posizione assai allarmata del «neo costituito comitato di cittadini Greco in Movimento per Greco»: i quali hanno scritto al cardinale Angelo Scola per chiedergli un incontro e dirgli che a loro il progetto del Refettorio ambrosiano con annessa Casa di accoglienza, da farsi proprio nel loro quartiere, non piace neanche un po’. E non perché sia troppo bello («con gli stessi soldi se ne poteva fare uno meno chic ma con più posti», era la riserva di altri): no, questi proprio non lo vogliono. Naturalmente precisano che «non si tratta di egoismo». Ma Greco «non è più in grado di sostenere altre iniziative - dicono - soprattutto se imposte dall’alto come ora ha fatto la Caritas». Spiegano, quelli del Comitato, che «aprire una mensa per i poveri e una casa di accoglienza ai lati di un oratorio e di un asilo nido, vicino a una scuola elementare, senza precauzioni per il mantenimento del decoro urbano e della sicurezza, potrebbe cagionare a Greco gli stessi disagi già sperimentati in altre zone».
Il Refettorio Ambrosiano
La replica
«Vorrei solo far osservare - è la risposta del direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo - che progetti come questo portano ordine, non disordine. E che la vicinanza tra una iniziativa di carità e un oratorio, oltre che una scuola, è parte educativa non secondaria di questo progetto».
http://milano.corriere.it/notizie/politica/14_ottobre_29/greco-non-vuole-refettorio-poveri-de5fd390-5f45-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57a.shtml
martedì 28 ottobre 2014
Condividiamo spazi, tempo e trapani
Un trapano costa in media 100 euro e, da quando viene acquistato, viene utilizzato mediamente dai sei ai tredici minuti. Una famiglia che vive in cohousing può risparmiare in un anno 5.500 euro e 3.000 ore di tempo. Sembrano dati scollegati tra loro, in realtà portano entrambi ad una considerazione importante, soprattutto in tempi di crisi: condividere premia e paga. Di questo ho parlato conSilvia Sitton, giovane modenese studiosa di modelli abitativi community-oriented e appassionata di innovazione sociale nonché autrice del blogIrughegia.
«Cohousing è prima di tutto una parola molto di moda e per questo troppo spesso usata impropriamente – mi spiega Silvia -. Abitare collettivo è una definizione sicuramente meno cool ma che, senza fraintendimenti comunitaristi, racchiude quelle esperienze abitative che vogliono recuperare la dimensione sociale del vivere del passato, quella di famiglia allargata. Spesso oggi si vive in una realtà atomizzata, diffidente alle relazioni e ostile alla mutualità. Ho provato questo per la prima volta quando sono andata a vivere da sola e poi, in misura maggiore, una volta diventata mamma: tra lavoro e famiglia la vita si complica e, per come è strutturata, diventa sempre più individuale».
Sul suo blog Silvia scrive: “La sociologa premio Nobel Alva Myrdal già nel 1932 metteva in luce l’irrazionalità delle residenze isolate ‘dove venti donne preparano le loro polpette in venti piccole cucine mentre venti bambini giocano soli nelle loro camerette’ gridando i benefici di un modello alternativo di abitare collaborativo, che prevede la condivisione di spazi, tempo, impegno, risorse, attrezzature, valori, energie, nell’assoluto rispetto della privacy e dell’autonomia individuale”.
«Alla base di queste idee – mi spiega Silvia- c’è il lusso democratico: le famiglie si uniscono in primo luogo per necessità e non per un ideale. E poi perché insieme possono ottenere cose che da soli non potrebbero permettersi, risparmiando contemporaneamente tempo e denaro. In più in queste esperienze c’è spesso anche una spinta verso un nuovo modello di welfare, autogestito e di comunità, capace di offrire sevizi alla collettività (ad esempio l’accoglienza famiglie in difficoltà, una piccola biblioteca o uno spazio ricreativo per bambini). Questa nuova idea di welfare non andrebbe a sostituirsi ai servizi già presenti ma si inserirebbe al loro interno, con un risparmio anche da parte delle amministrazioni locali. Un esempio: far risiedere una mamma con il suo bimbo in un appartamento sociale destinato a famiglie con fragilità genitoriali costa al Comune circa 150 eurp al giorno. La stessa soluzione, se prevista in una realtà di cohousing e concordata tra amministrazione e cohouser, costerebbe invece al pubblico circa 400 eurol mese, quelli dell’affitto dell’appartamento, e permetterebbe alla donna di vivere in maggiore autonomia dai servizi sociali, in comunità accogliente con altre sue pari».
Compresa la portata innovativa e di forte convenienza economica di questi modelli abitativi le amministrazioni locali dovrebbero, secondo Silvia, mettere a disposizione in primo luogo immobili non utilizzati (e, solo quando non disponibili, terreni) e offrirli alle famiglie a condizioni vantaggiose in cambio dello sviluppo, da parte loro, di progetti di abitare collettivo. Le famiglie, infatti, oltre a costruirsi la loro casa, dovrebbero garantire la presenza di ambienti comuni aperti alla collettività e prevedere forme di fruizione pubblica.
«Un buon progetto di cohousing – continua – deve essere innanzitutto sperimentale, cioè deve essere nuovo e avere il coraggio di andare al di là degli schemi. Per non trasformarsi in qualcosa di elitario e rispondere a reali esigenze abitative è indispensabile abbia costi e tempi sostenibili. Infine deve essere facile da capire e in qualche modo istituzionalizzato, per essere replicabile su vasta scala». Anche a Modena qualcosa si sta muovendo. Un anno e mezzo fa il Comune ha infatti aperto un bando per la realizzazione di una palazzina in un’area confinante con il parco di via Divisione Acqui da destinarsi a cohousing, vinto, dopo una storia tormentata, dalla cooperativa Modena Casa e dall’associazione Coabitat, fondata da Silvia e altre famiglie. Il progetto prevede la realizzazione di una palazzina costruita in classe energetica B composta di 16 appartamenti, due dei quali saranno a disposizione dell’amministrazione comunale. 276 metri dell’edificio saranno destinati ad aree comuni come un piccolo deposito per il Gas (Gruppi di acquisto solidale), una sala polivalente condominiale, la ciclo officina, uno spazio pensato appositamente per bambini e un ambiente destinato alla musica. Spesso i bisogni delle famiglie e la loro volontà di sperimentare nuovi modelli abitativi si scontrano con i tempi lunghi, la burocrazia e la poca voglia di osare da parte degli enti locali.
Così è successo anche alle famiglie di Itaca, la prima realtà di cohousing modenese, alle quali ci sono voluti dieci anni di costanza per vedere realizzato il loro progetto. «Itaca è un condominio di 12 appartamenti in via Faenza – mi racconta Silvia -, autocostruito dalle famiglie seguendo i principi dellabioarchitettura e ponendo attenzione al riuso e riciclo dei materiali, con diversi spazi comuni. Itaca è anche una cooperativa a proprietà indivisa che è riuscita ad ottenere dal Comune il terreno in diritto di superficie su cui costruire le case. Nonostante questo le difficoltà sono state tantissime e il progetto ha visto la luce solo dopo dieci anni».
«La nuova frontiera dell’abitare – conclude Silvia, che sta facendo un dottorato in Sharing Economy e nuovi modelli dell’abitare – è quella che riesce a integrare la parte di costruzione di una casa con quella di gestione sociale degli abitanti, passando dalla logica dell’edilizia popolare (‘ti dò un tetto’) o di mercato (‘scegli il tetto che più ti piace’) ad una logica che mette al centro la persona e le sue esigenze, non solo abitative (‘attraverso la casa ti do degli strumenti’). In italiano esiste una sola parola per definire la casa. In inglese invece ce ne sono due: si utilizza house per indicare l’edificio e home per fare riferimento alla parte emozionale e sociale dell’abitare, alla casa come luogo-identità. In quest’ottica anche in Italia l’housing dovrebbe essere trattato come un verbo, non come un sostantivo, come un processo più che un prodotto».
Fonte: notemodenesi.it
http://comune-info.net/2014/10/condividiamo/
Parlando di rivoluzione
Nella crisi in corso una cosa diventa sempre più chiara: la distanza dell’istituzione statale dalla società. È sempre più evidente fino a che punto lo Stato sia parte integrante dei flussi di denaro, tanto da non apparire più come un’istituzione che possa essere orientata diversamente. La sola cosa importante, per lo Stato, sono i mercati finanziari, l’accumulazione del capitale. In una conversazione con Jerome Roos tratta dal libro agire altrimenti (a cura di Salvo Vaccaro, Elèuthera editrice), John Holloway sostiene che ovunque, nel mondo, c’è una percezione crescente dell’incapacità di funzionare del capitalismo: se il sistema non ha più posto per noi, se lascia disoccupati la metà dei giovani e taglia le sovvenzioni, se lo Stato rifiuta di negoziare e la polizia si fa ogni giorno più repressiva, allora saremo costretti non solo a inventare forme creative di protesta, a reinventare una politica, ma dovremo creare altri modi possibili di vivere, la base di un nuovo mondo e di una nuova società
John Holloway in una conversazione* con Jerome Roos
Sono passati più di dieci anni da quando hai pubblicato Change the World Without Taking Power: The Meaning of Revolution Today(Cambiare il mondo senza prendere il potere: il significato della rivoluzione oggi), e da allora molte cose sono venute a galla: le crisi finanziarie, la crisi del debito nell’Eurozona o la scelta statale di scaricare sul pubblico i debiti privati. Credi che la crisi corrente del capitalismo ci stia dicendo qualcosa di nuovo che ancora non sapevamo oppure sta solo confermando ciò che già sapevamo sulla natura dello Stato e le possibilità che ha un’azione rivoluzionaria ancorata alla concezione statuale nel contesto del capitalismo finanziario mondiale?
Credo che nella crisi attuale una cosa davvero impressionante a proposito dello Stato sia proprio il suo grado di chiusura. Forse la questione da porre non è se siamo di fronte a qualcosa che non sapevamo. Piuttosto, l’aspetto sorprendente è constatare come lo Stato non risponda minimamente alla sequela di proteste in atto. Mi pare che ciò sia soprattutto evidente guardando al caso greco e a quello spagnolo con le loro proteste massicce, sia da parte della sinistra più tradizionale sia da parte della sinistra più creativa, se vogliamo chiamarla così. Lo Stato semplicemente non ascolta nessuno e tira dritto per la sua strada. Infatti, a me sembra che nella crisi in corso una cosa sia divenuta sempre più chiara a porzioni sempre maggiori di popolazione, ovvero la distanza dell’istituzione statale dalla società. Non solo, ma è diventato sempre più evidente anche fino a che punto lo Stato sia parte integrante dei flussi di denaro, tanto da non apparire più come un’istituzione che possa essere orientata diversamente. È ormai palese che lo Stato tende a fare tutto quanto è in suo potere per soddisfare le esigenze dei mercati finanziari, così da garantire l’accumulazione di capitale. E questo è diventato sempre più evidente nel corso degli ultimi quattro o cinque anni. Se questa decisione comporta di lasciare completamente inascoltate le proteste, o di non intervenire quando le città vengono prese d’assalto dai rivoltosi, ebbene sia quel che sia. La cosa realmente importante è il mercato finanziario. Pensiamo alla Grecia del 2011 e alle straordinarie manifestazioni che hanno avuto luogo in quel periodo, durante le quali sono stati incendiati parecchi edifici del centro città: lo Stato ha proseguito imperterrito per la sua strada. A mio avviso si tratta di un fatto decisamente importante, e forse cruciale per possibili direzioni da prendere in futuro, perché la forza di attrazione delle politiche e delle proteste ancorate al paradigma statuale dipende in ultima istanza dalla disponibilità dello Stato ad aprire tavoli di negoziazione e confronto con i sindacati e con la popolazione che protesta. Se lo Stato decide che non ci sono più margini di manovra per trattative e cambiamenti, se semplicemente decide di attestarsi sulla linea del «non è possibile alcuna negoziazione», allora si chiuderanno tutti gli spazi a disposizione di una politica statalista di sinistra e le persone saranno spinte verso l’idea che cercare di realizzare qualcosa attraverso lo Stato sia del tutto inutile. A questo punto possiamo sperare che le politiche non statuali diventino sempre più comuni e diffuse in tutta la società.
Non è proprio quello che abbiamo visto verificarsi per un certo periodo, specialmente nel 2011, con il movimento Occupy?
Assolutamente sì, e in tutto il mondo. Alcuni affermano che stiamo entrando in un’era di rivolte. Di fatto, una chiusura da parte dello Stato implica la fine di qualunque trattativa, e di conseguenza ogni forma di protesta si incanala verso la rivolta. Che cosa questo comporti nel nostro modo di procedere, non lo so per certo. Suppongo tuttavia che possa verificarsi uno sviluppo davvero fertile e produttivo.
Come un rigetto?
Sì, come un rigetto. Una sorta di radicale rottura con il vecchio modo di fare le cose, il quale potrebbe anche portare qualche beneficio minore, ma finora non ha condotto nessuno molto lontano. Sono anche convinto che un gran numero di persone si è visto costretto a reinventare non solo le proprie strategie politiche ma la stessa concezione della politica, sia in termini di protesta che in termini di invenzione di nuove alternative. Se il sistema non ha posto per noi, se lascia disoccupato il 50% della popolazione giovanile, se taglia le sovvenzioni statali, se lo Stato si rifiuta di negoziare e la polizia diventa ogni giorno più repressiva, allora credo che siamo costretti non solo a inventare forme creative di protesta, ma anche a inventarci altri possibili modi di vivere. E lo vediamo bene in Grecia e in Spagna, dove le cose stanno andando esattamente in quella direzione. Credo che la crisi ci stia dicendo proprio che quella è la via da percorrere, ma che non ci siamo spinti ancora abbastanza avanti. Non siamo ancora al punto di poter dire al capitale che se ne può andare all’inferno perché tanto ce la caviamo benissimo senza di lui. Il vero problema sta qui. Ma credo comunque che sia questa la direzione da seguire.
Per poter rompere definitivamente con il capitalismo, tu suggerisci di iniziare creando delle «crepe» al suo interno in molti punti e momenti. Tuttavia queste «crepe», come le chiami, sembrano prodursi soprattutto nei tempi di crisi. L’abbiamo visto nella rivolta popolare in Argentina nel 2001-2002, come ha acutamente rilevato Marina Sitrin nel suo libro Everyday Revolutions, e lo rivediamo oggi nell’Europa meridionale. Ritieni che ci sia un modo per protrarre queste crepe oltre i «tempi duri» delle crisi economiche oppure questo tipo di organizzazione popolare spontanea si verifica necessariamente in tempi di crisi, per poi ricomporsi nel populismo statal-capitalista in stile kirchnerista?
Non saprei, perché in primo luogo non sono certo che i tempi miglioreranno, e in secondo luogo non sono neppure certo che ci si debba preoccupare di perpetuare queste crepe. Se pensiamo all’Argentina, lì c’era chiaramente la convinzione che le cose sarebbero migliorate. Appena l’economia e i tassi di profitto hanno recuperato, molti movimenti del biennio 2001-2002 sono stati risucchiati dallo Stato. Ma i problemi naturalmente sono riemersi altrove. Se guardiamo alla Spagna e alla Grecia, innanzi tutto notiamo che non ci sono prospettive di miglioramento a breve termine. Inoltre, qualora migliorassero davvero, la crisi si sposterebbe da un’altra parte. E la ricerca di stili di vita alternativi continuerebbe.
Sono convinto che esista un accumulo di esperienze e anche un accumulo di coscienza che si diffonde da un paese all’altro, e che ci dice che il capitalismo semplicemente non sta funzionando e anzi ha dei seri problemi. Credo che la gente in Grecia guardi all’Argentina e riconosca l’importanza dell’esperienza di dieci anni fa. E credo che le persone in Argentina (anche se le condizioni economiche sono migliorate da allora) guardino alla Grecia e rivedano l’instabilità del capitalismo. Il fallimento del capitalismo si sta palesando ancora una volta ma in un altro posto. E a mio avviso c’è una percezione crescente ovunque nel mondo dell’incapacità di funzionare del capitalismo. C’è una crescente certezza che le crepe o i progetti folli che creiamo potrebbero davvero essere la base di un nuovo mondo e di una nuova società, anzi che siano il solo modo per farlo.
Ciò che invece non mi piace nell’idea di rendere qualcosa perpetuo è che rimanda a un procedere stabile e costante. Non credo che funzioni così. Credo piuttosto che sia come un flusso sociale di ribellione, qualcosa che si muove dappertutto nel mondo, con eruzioni ora in un luogo ora in un altro. Ma esistono delle continuità sotto le discontinuità. Dobbiamo pensare in termini di movimenti di rivolta che ribollono qui e lì piuttosto che pensare a come perpetuare il movimento in un solo posto. Se continuiamo a pensare in termini di perpetuazione in un luogo, alla lunga non possiamo che finire nell’istituzionalizzazione, il che non mi sembra proficuo, oppure soccombere a un senso di sconfitta, che non mi sembra corretto.
Potresti spiegarci in modo un po’ più esteso cosa credi ci sia di sbagliato nell’ idea di istituzionalizzazione? Hai aperto un dibattito e un carteggio con Michael Hardt su questo tema, laddove mi pare che per Hardt e Negri l’istituzionalizzazione non sia in sé un problema fintanto che rimane parte di un movimento costituente, di un’auto-organizzazione di rivolta. Qual è il tuo punto di vista su questo argomento?
Credo che l’istituzionalizzazione non sia necessariamente deleteria, può esserlo oppure no, ma non dovremmo impuntarci su questo, dovremmo pensare più in termini di movimenti. L’aspetto pericoloso è che cominciamo a pensare in termini di istituzionalizzazione nel momento in cui i movimenti iniziano a fallire. Istituzionalizzarli può essere un modo di prolungare la loro vita, ma subito dopo si trasformano in qualcosa di poco stimolante e di poco interessante. Se poi intendiamo l’istituzionalizzazione in senso partitico, questo può rivelarsi decisamente pernicioso. È un po’ quello che sta succedendo di recente in Argentina. Se ti convinci che devi presentarti alle prossime elezioni, sarai fortunato se otterrai un 1,5% dei voti, e dopo cinque anni forse ne otterrai il 4% o poco più. Una volta che si procede in quella direzione, sono davvero convinto che la sconfitta sia inevitabile; è un modo di spingere i movimenti nella palude della politica statuale. Se consideriamo l’istituzionalizzazione nei termini del World Social Forum, così com’è oggi,allora non risulta molto dannosa, ma di certo non è lì che batte il cuore dei movimenti. Sono convinto che sia utile avere momenti di incontro ed è certamente proficuo creare collegamenti fra i movimenti presenti nelle diverse parti del mondo. Anzi, è molto importante superare, in termini pratici, l’orientamento nazionale dei movimenti. Ma le istituzioni non sono affatto i luoghi in cui tutto questo può avvenire.
Se vogliamo analizzare un esempio estremo di rivoluzione istituzionalizzata, possiamo guardare al pri (Partido Revolucionario Institucional) qui in Messico, un partito politico che ha risolutamente monopolizzato l’eredità della Rivoluzione messicana e continua a perpetuare questa metodologia rivoluzionaria per legittimare i suoimetodi corrotti e autoritari. Vedi qualche connessione fra la «dittatura perfetta» del pri dal 1930 al 2000 e il proliferare in Messico di movimenti autonomi che cercano di organizzarsi al di fuori dell’apparato statale?
Sì, credo che possa esserci una connessione. L’intera storia del pri, per la maggior parte della popolazione, è la storia dei tentativi falliti di realizzare qualcosa attraverso di esso e del conseguente discredito dello Stato. La convinzione comune è che se si vuol fare qualcosa di innovativo e cambiare radicalmente la società, senza dubbio non è possibile farlo attraverso lo Stato perché quello è il luogo della corruzione, il luogo della cooptazione. Suppongo che il pri possa ben rappresentare l’esaurimento della politica statalista.
Tuttavia ci sono alcuni che esortano a guardare all’esperimento bolivariano in Venezuela. Il mese scorso abbiamo assistito al funerale di Hugo Chávez. C’ è chi, e penso a Dario Azzelini, ha elogiato Chávez per il suo supporto alla creazione di decine di migliaia di cooperative e consejos comunales sostenendo che la rivoluzione bolivariana ha realmente rafforzato la base popolare. Fino a che punto è possibile mobilitare lo Stato come una crepa dentro il sistema della dominazione capitalista?
Non credo che possa funzionare. D’altronde sono convinto che tutti i movimenti rivoluzionari e tutti i movimenti per un cambiamento radicale siano profondamente contraddittori. Riflettere sul Venezuela è molto interessante, perché da una parte è un movimento decisamente statalista, ma dall’altra ci sono anche molti movimenti genuini che mirano a trasformare la società dal basso, partendo dai propri quartieri. Ritengo che con Chávez ci fosse la netta consapevolezza di questa contraddizione e la sincera volontà, partendo dal basso, di rafforzare in molti modi il movimento e di potenziare i consigli di zona. Ma se si tenta di fare la stessa cosa dall’alto, dallo Stato, la contraddizione diventa palese. E in alcuni casi ha portato a rinvigorire alcuni movimenti popolari, che spesso sono stati in forte tensione con le strutture statali. Ritengo che la durata nel tempo del chavismo dipenda non tanto dall’organizzazione statale quanto dalla forza di questi movimenti comunitari. Quindi no, non credo che si possa pensare lo Stato come una crepa, un’entità anti-capitalista, semplicemente perché lo Stato è una forma di organizzazione che esclude le persone; è una forma di organizzazione che si adatta perfettamente alla riproduzione del capitale e deriva i suoi proventi dall’accumulazione stessa del capitale. Ma credo che persino in quelle nazioni nelle quali il movimento per un cambiamento radicale è dominato dallo Stato, come in Venezuela, Bolivia o in certa misura anche Cuba, continui a esistere contemporaneamente una spinta che punta in direzioni diverse.
Hai sempre avuto questa idea dell’impraticabilità di un’azione rivoluzionaria statalista?
Probabilmente è sempre stata parte del mio modo di vedere. Diciamo che risale ai vecchi dibattiti sullo Stato degli anni Settanta, nei quali l’enfasi era posta sul tentativo di definire lo Stato come una forma capitalista delle relazioni sociali. E credo di aver sempre dato per scontato che, ovviamente, se si immagina lo Stato come un’organizzazione capitalista delle relazioni sociali, allora di certo non è possibile pensare di ricorrere allo Stato per mettere in pratica una rivoluzione. Dobbiamo pensare in termini di forme organizzative anti-statali. Per questo, quando sono arrivato a scrivere Cambiare il mondo senza prendere il potere, pensavo di affermare qualcosa di veramente ovvio, di assodato. Credo che sia sempre stata la mia visione dei fatti, ma quando sono giunto in Messico e dopo le rivolte zapatiste, certamente mi sono imbattuto in nuove forme, in nuovi stimoli.
È nota la critica secondo cui «se non prendi il potere, il potere si prende te». Come rispondi a un simile argomento?
Io sono convinto che quando tu prendi il potere, allora il potere si prende te. Non c’è via di scampo. Intendo dire che è molto difficile posizionarsi nel contesto del potere, almeno nell’accezione comunemente intesa di «potere su». Inevitabilmente si inciampa nei modelli dell’esercizio del potere, dell’esclusione delle persone, della riproduzione di tutto ciò contro cui si stava lottando all’inizio. L’abbiamo visto capitare in continuazione, sempre di più. Se si afferma «non prenderemo il potere», suppongo che una delle critiche possibili sia che se non si prende il potere, allora se lo prenderanno persone veramente nefande, che non prendendo il potere si lascia un vuoto. Credo che non sia vero:dobbiamo considerare il capitalismo come un «modo», non come una «cosa», vederlo come un modo di agire. La lotta contro il capitale e la lotta per creare un altro mondo, un altro «modo», riguarda appunto come fare diversamente le stesse cose. Non ha alcun senso dire che la via migliore per ottenere il nostro «modo» è di reiterare i comportamenti che stiamo rifiutando. È un’affermazione del tutto insensata. Se diciamo che l’obiettivo della lotta è creare modalità diverse di agire, altri tipi di relazioni reciproche, allora molto semplicemente non abbiamo altra scelta che iniziare a farlo, e fare tutto il possibile per resistere all’imposizione del «modo» che rifiutiamo.
Hai scritto che la transizione dal capitalismo al mondo futuro è necessariamente un processo interstiziale, come lo fu la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Questa posizione si pone in netta contraddizione con la visione marxista ortodossa, secondo la quale la rivoluzione è per definizione un ribaltamento drammatico che avviene in un breve periodo di tempo. Se questa visione ortodossa della rivoluzione come evento è scaduta, come descriveresti il processo transitorio che la rimpiazzerebbe?
A prima vista la concezione interstiziale contrasta con la visione tradizionale che suona «prenderemo il potere e ribalteremo la società dall’alto in basso». Ma in realtà persino questa è ancora un’idea interstiziale, perché si basa sull’idea che lo Stato corrisponda alla società, che le due entità coincidano, il che è naturalmente una sciocchezza. Stato e società non hanno gli stessi confini. Dato che esistono circa duecento Stati nel sistema mondiale, e dato che questi Stati non saranno certo rovesciati tutti in un solo giorno, anche se volessimo rifarci al potere statale dovremmo pensare in modo interstiziale. Ma da questa prospettiva, il solo pensare che lo Stato possa essere un interstizio cruciale suona ridicolo. Questo significa che si sta cercando di conquistare la più rilevante forma di organizzazione che è stata costruita dalla nascita del capitale. E ogni evento dell’ultimo secolo testimonia che la cosa non funziona. Quindi dobbiamo pensare in termini di interstizi, ma nel senso di nostre forme di organizzazione. Gli Stati qui non hanno molto senso. Dobbiamo pensare a qualcosa dal basso, a creare nostri modi di relazionarci e di interagire. Facciamolo alla nostra scala: magari è solo una piccola cosa, come il giardino in cui ci troviamo ora. Qualche volta è più grande, come la vasta porzione dello Stato del Chiapas ora auto-governata dagli zapatisti.La domanda cruciale allora diventa: come provocare la confluenza di tutte queste crepe? C’è questa idea che la transizione dal feudalesimo al capitalismo sia avvenuta in modo interstiziale, ma che il movimento dal capitalismo al comunismo o al socialismo non possa invece verificarsi. E questo è evidentemente errato. Se pensiamo al comunismo, o meglio alla società che intendiamo creare sulla base dell’auto-determinazione, essa deve essere costruita dal basso e non a partire dalle strutture che ne negano l’esistenza. Ciò comporta un processo interstiziale in due tempi, felicemente espressi dagli zapatisti. Prima arriva un Ya basta!, ossia non possiamo più accettare questa situazione, né in termini di sopravvivenza, né per la nostra salute mentale. Se questo sistema continuerà a esistere, comporterà la distruzione dell’umanità. Dobbiamo iniziare adesso e aprire una breccia adesso. In questo senso il processo non è graduale: è qui e ora che dobbiamo creare qualcos’altro. Ma ecco che arriva il secondo slogan zapatista: «Noi camminiamo, non corriamo, perché dobbiamo andare molto lontano», con la consapevolezza che non si tratta soltanto di trasformare la società per un giorno, ma di creare un nuovo mondo.
* Il testo qui sopra viene pubblicato per gentile concessione a Comune-info da parte dell’editore. E’ tratta da agire altrimenti (elèuthera): il libro di Salvo Vaccaro che raccoglie saggi, tra gli altri, di David Graeber, Michael Albert, Noam Chomsky, ma anche di alcuni anarchici e altri autori anti-autoritari spagnoli. La conversazione con Holloway è stata realizzata il 3 aprile 2013 a San Andrés de Cholula (Messico).
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