sabato 1 febbraio 2014

Un fotografo nell’inferno di Mugabe


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Il neozelandese Robin Hammond non è un fotoreporter qualunque. Potremmo dire che fa parte di una specie in via d’estinzione, quella del fotogiornalista d’inchiesta. Per intenderci, è uno di quelli che non hanno paura di mettere in gioco la propria vita per raccontare storie “che valgono la pena di essere raccontate”, storie che mostrano situazioni drammatiche di persecuzione, ingiustizia o violazione dei diritti umani, con l’intento di renderle note al grande pubblico e aiutare in qualche modo le vittime a cambiare o a migliorare la loro situazione.

HammonZimbabwe08Violet pensa di avere quasi 90 anni. Nel 2005, dopo che la sua casa fu distrutta dalle milizie di Mugabe, è stata trasferita in un appartamento in rovina senza acqua né luce elettrica nella città di Bulawayo, la seconda più grande dello Zimbabwe. “Vedo che ora le cose stanno cambiando”, dice. “Ma è doloroso perché abbiamo anche fame”. ©Robin Hammond, Panos
Le sue inchieste, spesso realizzate in incognita in condizioni pericolose,  lo hanno portato a indagare sui diamanti insanguinati dello Zimbabwe, sul traffico e lo sfruttamento di giovani calciatori nel’Africa occidentale, sulle donne stuprate nel corso dei conflitti nella Repubblica Democratica del Congo, sulle malattie mentali causate dai conflitti in Africa, nonché su temi ambientali come gli effetti della siccità sulle tribù nomadi del Kenya, l’inquinamento delle industrie occidentali dell’abbigliamento in diversi paesi africani, ma anche sulla discriminazione dei Rom in Italia o sui percorsi dell’oppio dall’Afghanistan a Mosca. Temi importanti, spesso molto scomodi, che fanno di Hammond un giornalista con la G maiuscola, che non ha paura di rischiare la vita o di farsi incarcerare per far conoscere al mondo le ingiustizie di cui è testimone.
Il suo ultimo lavoro, Your wounds wil be named silence, realizzato anche grazie a un grant della fondazione Carmignac per il giornalismo, sarà pubblicato sul numero di maggio di National Geographiced è oggetto di una mostra che inaugura mercoledì 24 aprile alla Fondazione Forma di Milano (vedi la galleria su nationalgeographic.it). Le foto toccanti, a tratti raccapriccianti, di questo reportage realizzato nell’arco di un anno e mezzo raccontano la storia recente dello Zimbabwe, un paese che da oltre 30 anni subisce le conseguenze del regime sanguinario e repressivo di un leader il cui nome è tristemente noto in tutto il mondo: Robert Mugabe.

NONEvelyn, 14 anni, vive in un rifugio per donne e bambine a Musina, in Sud Africa, appena al di là del confine con lo Zimbabwe. Ha attraversato il confine illegalmente quando aveva 12 anni. “Mio padre è morto e mia madre è nello Zimbabwe”, racconta. “Lei non aveva denaro e io ero costretta ad andare in città a fare l’elemosina. Non era bello”. Da grande, aggiunge, vorrebbe fare l’avvocato per difendere i poveri o i malati dalle ingiustizie. ©Robin Hammond, Panos
Il servizio, composto da immagini classiche di reportage e da una serie di delicati e ricercati ritratti posati, è centrato sulla gente dello Zimbabwe, su coloro che hanno subito e continuano a subire le conseguenze del regime di Mugabe: gente a cui è stato tolto tutto: la casa, il lavoro, la dignità, la vita stessa, magari solo perché non appoggiavano apertamente il partito del regime o perché vivevano in una zona del paese considerata roccaforte dell’opposizione al regime. Con queste foto Hammond, come spiega nella breve intervista che mi ha concesso (e che segue in questo post), ha voluto ” …che queste persone emergessero dall’oscurità in cui venivano tenute dai loro leader, che rivelassero se stessi e le loro storie”. Il risultato, come potete vedere da questa piccola anteprima, nonché dal servizio in uscita sul magazine e dalla mostra di Milano, è di grande intensità.
-Quanto tempo hai trascorso nello Zimbabwe per realizzare questo progetto?
RH: Ho cominciato a viaggiare nello Zimbabwe nel 2007, ma per questo particolare progetto ho lavorato nel paese dal dicembre 2011 all’aprile 2012 con due interruzioni.

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Zacharia, 56 anni, ha trascorso i suoi ultimi giorni in un ricovero per pazienti positivi all’HIV gestito dalla Chiesa cattolica ad Harare. Tre ore dopo questo scatto, in cui viene lavato dal nipote, Zacharia è morto.©Robin Hammond, Panos
-Che atmosfera si respirava nel paese?
RH: Gli abitanti dello Zimbabwe sono in gran parte molto amichevoli e il paese è splendido, ma molta gente vive nel terrore, e sebbene alcuni se le siano cavata bene con l’attuale regime molti altri hanno sofferto enormemente. Sono andato nello Zimbabwe per documentare la vita di coloro che hanno vissuto in prima persona queste sofferenze e per raccontare come è stato soffocato il potenziale di questo paese. Ciò significa che ho dovuto anche affrontare l’ostilità di alcuni gruppi di persone che non vogliono che il mondo esterno venga a sapere che stanno traendo grandi benefici a scapito dei loro compatrioti che vivono in miseria.
-Quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato?
RH: Cerco sempre di trascorrere quanto più tempo possibile nelle varie località che considero importanti per raccontare la storia. Solo che farsi vedere con la macchina fotografica in alcuni dei luoghi che dovevo fotografare era rischioso, perciò dovevo essere molto rapido a scattare. Quasi sempre andavo nei luoghi più rischiosi di mattina molto presto, e in genere non potevo più tornare sul posto per paura che qualcuno avesse informato gli agenti della sicurezza della mia presenza e che li avrei trovati lì ad aspettarmi.
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Centocinquanta famiglie sono state costrette ad abbandonare questa fattoria vicino ad Harare dal nuovo proprietario subentrato al precedente proprietario, un agricoltore bianco.
Alcune delle famiglie sgomberate risiedevano in quei terreni da 50 anni. ©Robin Hammond, Panos
-So che sei stato arrestato mentre realizzavi questo lavoro. Puoi raccontarci qualcosa di più?
RH: Sono stato arrestato due volte. La prima volta perché stavo fotografando una fattoria confiscata a un agricoltore bianco da un politico altolocato che la aveva poi lasciata in stato di abbandono e rovina. La seconda volta mi hanno arrestato dopo che avevo fotografato degli emigranti clandestini che uscivano dal paese diretti in Sud Africa. Quando sono tornato in albergo, la polizia mi stava aspettando. A quanto pare, il personale dell’albergo li aveva informati dicendo che ero una persona sospetta. Ho trascorso 26 notti in prigione prima di essere espulso dal paese. Il momento peggiore sono stati i primi quattro giorni, in cui sono stato interrogato a più riprese. Me la sono vista davvero brutta.
-Hai mai avuto modo di incontrare Mugabe di persona?
RH: No, e non ci tengo affatto.
-Come ti è venuta l’idea dei ritratti posati?
RH: Inzialmente non avevo intenzione di fare ritratti per questo progetto, ma entro breve mi sono reso conto che le storie personali della gente che incontravo erano molto importanti. Agli abitanti dello Zimbabwe è stato negato il diritto di parlare della vita difficile che conducono. Volevo che queste persone emergessero dall’oscurità in cui venivano tenute dai loro leader, che rivelassero se stessi e le loro storie.
-Progetti per il futuro?
RH: Ho appena concluso un altro progetto in 10 paesi africani per documentare l’impatto della guerra, delle migrazioni forzate, della corruzione e di altre sciagure sulla salute mentale degli abitanti. Il progetto verrà pubblicato in un libro FotoEvidence a ottobre. Al momento mi sto preparando per un commissionato per National Geographic che mi porterà in diversi paesi africani nel corso dei prossimi mesi. A giugno invece comincerò un progetto su Lagos, in Nigeria. Sarà un anno piuttosto impegnativo…

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