lunedì 20 gennaio 2014

“Ho scritto di Malala
Ora mi vogliono morto”

Hamid Mir ha scoperto per caso
una bomba nella sua auto
«Ai taleban dà fastidio che abbia
parlato della bimba ferita»
Il giornalista televisivo Hamir Mir

KARACHI
Novantasette. Impossibile dimenticare che dietro quel numero ci sono dei volti, delle storie, degli uomini. Novantasette sono i giornalisti uccisi in Pakistan dal 2000, sette solo lo scorso anno; zero invece i casi risolti, quelli per i quali è arrivata una parola definitiva su responsabilità, mandanti, motivi. La minaccia per i reporter pachistani non viene solo dal potente establishment militare, ma anche dai gruppi terroristici e gli ultimi attentati ne sono la prova inconfutabile.  

Basti pensare a quanto accaduto il 26 novembre del 2012 ad Hamid Mir, il più noto giornalista del Paese. Una bomba piazzata sotto la sua auto non esplose per una fortuita combinazione di cause, lui ne uscì illeso, e ancora più determinato a continuare la battaglia per la libertà di informare la gente, per denunciare connivenze, corruzione e malaffare. A tutti i livelli. «Volevano mandare un segnale non solo a me ma all’intera comunità dei giornalisti», dice Mir impegnato in queste ultime settimane a seguire la campagna elettorale in Pakistan odve fra 10 giorni si voterà il nuovo presidente. Chiarissimo il messaggio, «non raccontare cose che noi non vogliamo che si sappiano». È bastato attendere poco per sentire i taleban pachistani attribuirsi la paternità del gesto. Lo racconta lo stesso Mir: «Quando ho parlato con il loro portavoce, Ehsanullah Ehsan, tramite un intermediario, hanno detto, “il suo reportage su Malala era esecrabile”!». Malala è la bimba pachistana colpita con un proiettile alla testa per zittirne la voglia di istruzione e far naufragare così il suo impegno in prima linea per l’educazione delle ragazze, un tabù nelle zone rurali del Pakistan dove i taleban spadroneggiano. Malala, operata in Inghilterra, ora sta meglio e lei così come Hamid Mir sono ormai i volti di un Paese che non vuole piegarsi alla prepotenza e all’oscurantismo.  

La bomba doveva uccidere Hamid, «era stata confezionata con cura e capacità, per uno scopo preciso», ricorda Hamid. «Era nella parte anteriore della macchina, attaccata sotto il sedile del conducente con un magnete, un sacchetto nero contenente mezzo chilo di esplosivo». «Ma – aggiunge il reporter – ho avuto fortuna». La bomba l’ha trovata lui stesso.  
Ma se i taleban colpiscono a più riprese, pure il governo non è esente da responsabilità, è la denuncia di Mir, che si fa interprete e in pratica portavoce dei reporter pachistani. «Il problema non è solo con i terroristi, naturalmente. Non possiamo dimenticare il ruolo dei governi nella protezione dei giornalisti». A lui per esempio, malgrado le ripetute minacce, le autorità non affidano nè scorta nè protezione. «Ma come può il Governo aiutare o cercare di garantire la sicurezza dei giornalisti se è il primo a usare contro di loro questa violenza?» Garantire tutele ai giornalisti - è la tesi di Mir - dovrebbe essere anche compito delle Nazioni Unite. «Sarebbe un messaggio molto più forte se i membri dell’Onu legiferassero per tutelare la libertà dei mezzi di comunicazione». Sono decine infatti i reporter che finiscono nelle mani di agenti dei servizi e miliziani che li «interrogano» per estorcere loro mezze verità e chissà quali confessioni. «Ci vogliono leggi a protezione della libertà di espressione e a ogni giornalista dovrebbe essere dato il diritto di proteggere le sue fonti».  

Quelle tutele di cui Syed Saleem Shahzad, già collaboratore della «Stampa» dal Pakistan, non ha potuto godere. Il 30 maggio di due anni fa infatti, presumibilmente per conto dell’Isi, il principale servizio d’intelligence militare del Pakistan, Shahzad, venne ucciso. Viveva e lavorava costantemente sotto minaccia ma non aveva mai rinunciato – così come Hamid Mir - a svolgere il suo compito. E ripeteva come un ritornello: «So che mi uccideranno e ho dei figli e sono preoccupato per il loro futuro». E così ha fatto ed è stato ucciso per aver scritto una delle sue storie più audaci rivelando il coinvolgimento di un ufficiale della marina militare in uno degli attacchi di più alto profilo messi a segno quell’anno. 
* traduzione di Carla Reschia  

http://www.lastampa.it/2013/05/03/esteri/ho-scritto-di-malala-ora-mi-vogliono-morto-EOs6PzDyF5M1tnBu0B0Q1I/pagina.html

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