domenica 5 gennaio 2014

Consumatori di formazione

Scritto da Diego Fusaro
Il lessico della vita quotidiana non è mai asettico e innocente. La maggior parte delle espressioni e addirittura delle metafore albergano al proprio interno contenuti schiettamente sociali. A questo proposito, il più grande filosofo del Novecento, Martin Heidegger, diceva che siamo parlati dal linguaggio: in esso si cristallizza lo spirito del tempo. In altri termini, senza che neppure ce ne accorgiamo, quando parliamo si esprime attraverso il nostro linguaggio il senso del nostro orizzonte storico. E dato che il nostro orizzonte storico coincide con l’avvenuta assolutizzazione del nesso della forma merce, in forza del quale tutto – a livello sia reale, sia simbolico – diventa merce liberamente circolante sul mercato, non stupisce che questo processo di onnimercificazione si sedimenti anche nel linguaggio. Prova ne è, tra l’altro, l’orribile definizione ministeriale con cui vengono attualmente qualificati gli studenti: “consumatori di formazione”.

Il nesso mercatistico si è evidentemente trasformato – avrebbe detto Foucault – in “a prioristorico”, in condizione di realtà per ogni enunciato e per ogni prestazione di senso del pensiero. Non riusciamo più a rapportarci ad alcunché se non tramite la mediazione perversa della forma merce, che ha colonizzato il nostro immaginario, ridefinendolo integralmente. Nel mondo integralmente permeato dalla merce, tutto è ridotto al rito del consumo e dello scambio: l’identità umana è ridefinita nei termini reificanti del consumatore (l’homo consumens), e l’intera umanità è atomizzata in un pulviscolo di atomi consumatori.

Accade così che la dimensione privata dei sentimenti venga ridefinita con l’espressione tragicomica di “investimenti affettivi”, la quale rivela l’avvenuto impadronimento della sfera passionale ad opera delle strategie dell’ordo oeconomicus. Si pensi, ancora, alla figura in voga dell’“azienda Italia”, con cui il nostro Paese – la terra di Dante e di Michelangelo, di Petrarca e di Donatello – viene ridotto a una semplice impresa capitalistica. La macabra figura del “capitale umano”, che ricorre disinvoltamente nel lessico dei managers come in quello degli intellettuali che si dicono dissonanti, segnala l’avvenuta riduzione, in forma compiuta, dell’umano a merce, della vita a funzione variabile della logica mercatistica. Il fatto stesso che, sui treni, la figura del viaggiatore sia stata sostituita da quella della “spettabile clientela” deve indurre alla riflessione.

A questa logica oscena, ubiquitariamente dominante, non si sottrae neppure la scuola, come si diceva poc’anzi. Prova ne è, oltre alla già richiamata definizione degli studenti come meri “consumatori di formazione”, il delirante sistema di debiti e crediti con cui tali “consumatori” sono ogni giorno costretti a rapportarsi. Qui, tuttavia, vi è – potremmo dire – un valore aggiunto. Questa ridefinizione mercatistica del lessico della scuola si inscrive nell’oscena dinamica di distruzione della scuola e dell’Università, dinamica evidente a partire dalla riforma Berlinguer, e poi proseguita con stringente coerenza con la riforma Moratti: lo dico non certo per essere bipartisan, come avrebbe detto Ciampi, ma semplicemente per rilevare, una volta di più, che oggi la dicotomia destra-sinistra è morta e inservibile.

Destra e sinistra dicono la stessa cosa fingendo di dire l’opposto. La distruzione della scuola a cui stanno in modo reciprocamente solidale contribuendo si inscrive nella logica di sviluppo dello stesso capitalismo, che non ha bisogno di teste pensanti, ma solo di consumatori senza cultura. Così si spiega l’orribile distruzione in atto del sistema scolastico, rispetto a cui la grande riforma della scuola di Giovanni Gentile resterà sempre uno splendido modello contrastivo a cui richiamarsi. Rispetto alla grande riforma di Gentile, si stanno oggi succedendo riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).

Dalla scuola come erede della paideia greca, della raison illuministica e della Bildung romantica si passa così, disinvoltamente, alla scuola come azienda. La situazione è tragica, ma non seria. Si è realizzata la profezia di Heidegger: “le università in quanto ‘luoghi di ricerca scientifica e di insegnamento’ (tali sono le creazioni del XIX secolo) diventano puri istituti aziendali sempre più ‘vicini alla realtà’ nei quali nulla si decide. Conserveranno un ultimo resto di decoro culturale solo finché dovranno rimanere anche un mezzo di propaganda ‘politico-culturale’” (Contributi alla filosofia, trad. Adelphi, p. 169).


http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/consumatori-di-formazione-13548.html

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