lunedì 27 gennaio 2014

Che cosa c’è di male in un pasto trafugato? Il dibattito sul reddito di base in Germania

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di FRANCESCA CALIGIURI

Il dibattito sul reddito di cittadinanza o sul cosiddetto basic income è molto vivace in tutti i paesi europei. Qui si analizza il caso tedesco, considerando i fondamenti normativi che caratterizzano questa idea – distinguendola così da altre forme di assistenza – e prendendo in esame i suoi punti critici.


Negli ultimi anni in Germania si è discusso – in maniera sconnessa ma costante e su diversi fronti, da quello filosofico a quello economico-sociologico e giornalistico fino ai forum in rete – dell’idea di un bedingungsloses Grundeinkommen (BGE), ovvero di un reddito di base o reddito universale di cittadinanza – incondizionatamente garantito – di ciò che nel dibattito anglosassone viene anche indicato come basic income[1].
Nel 2004 si è formato in internet un network[2] che fa parte di una piattaforma internazionale volta alla discussione, riflessione e creazione di modelli per concretizzare un reddito di base, e che vede il coinvolgimento di specialisti di diversi settori, come rappresentanti di diverse parti sociali e organizzazioni di vario genere. Questo network si riallaccia al progetto introdotto a livello internazionale sotto il nome di basic income da Yannikck Vanderborght e Philippe van Parijs.
Questi ultimi sono noti sostenitori dell’idea di un reddito di base, quale programma che mira a realizzare una forma radicale di giustizia politica e sociale. Nella loro piattaforma, tre sono le fonti di finanziamento di tale misura che vengono proposte: l’imposta sul reddito, l’imposta sui consumi, o una combinazione di entrambe. In Germania la discussione si gioca su livelli molto diversi: al dibattito filosofico-sociologico, il cui principale protagonista è il sociologo Claus Offe[3], si unisce anche una dimensione più strettamente politica. Nel dibattito politico viene a delinearsi uno spettro di opzioni che va dall’idea di un reddito di base incondizionatamente garantito – come appunto vuole esser pensato in linea teorica il BGE – fino a diverse forme di reddito minimo di cittadinanza per non lavoratori. Queste ultime sarebbero frutto di un’opera di riforma delle attuali politiche di welfare sulla base però di argomentazioni fondanti il BGE (vale a dire che il reddito deve esser concepito come diritto derivante dalla appartenenza ad una comunità e non come la mera compensazione di disparità sociali). Nella campagna elettorale appena conclusasi, l’unico partito politico a farne un punto forte del programma è stato quello dei Pirati. Una posizione intermedia è stata occupata dalla Sinistra radicale (die Linke) e dai Verdi (die Grünen), i quali – a loro modo e ciascuno con una posizione specifica a riguardo della sua concretizzazione – propongono un modello di reddito minimo garantito. A rifiutare il progetto vi sono, insieme ai cristiano-democratici (CDU/CSU) e ai liberali (FDP), anche i socialdemocratici (SPD). Questi ultimi però mostrano, se non altro, di esser aperti ad un percorso di riflessione sul tema, che viene anche condotto sistematicamente dalla Friedrich-Ebert-Stiftung, la fondazione vicina al partito.
Ma di cosa si parla in concreto in Germania quando si dice bedingungsloses Grundeinkommen (BGE)? Con BGE si intende una proposta in grado di dar corpo a un modello sociopolitico nel quale ogni cittadino, indipendentemente dalla propria situazione economica, riceva dallo Stato un somma fissa mensile. Questa somma di denaro, finanziata attraverso il prelievo fiscale, sarebbe di uguale importo per tutti i riceventi, non sarebbe condizionata da controprestazioni da parte del cittadino e dovrebbe essere sufficiente a far fronte a tutte le spese di sussistenza. Con queste ultime, si noti, non vengono intese solo le spese legate ad una “sussistenza naturale”, quindi quelle legate all’abitazione, al cibo e ai vestiti, ma anche quelle che possono permettere di condurre una vita dignitosa, in cui siano soddisfatti anche i bisogni di base, intesi come quelli mediamente diffusi nella società di cui si fa parte. Per fare un esempio, in una società come la nostra permettersi un computer, anche se non è certo considerabile come un bisogno di sussistenza naturale, è certamente necessario alla sussistenza sociale, perché senza computer si è esclusi da una porzione molto ampia della vita associata.
Se ci si addentra maggiormente nella questione, si capisce che le varie proposte legate a questo modello differiscono sia sul piano dell’ammontare finanziario del contributo, sia rispetto alla modalità di prelievo fiscale necessario a garantirne la sostenibilità. È su questo terreno che diventa immediatamente visibile la natura prettamente politica della decisione intorno a che cosa sia un bisogno socialmente rilevante e che cosa non lo sia.
Ma tornando al principio cardine di questo modello socio-economico, è facile notare come sia il reddito di base sia quello minimo di cittadinanza si differenzino sia da una indennità di disoccupazione che può ottenere solo chi abbia pagato un contributo assicurativo lavorando, sia dai sussidi erogati in caso di bisogno. Importante inoltre è notare la differenza rispetto ad un reddito minimo garantito o di sussistenza, nel quale si unifichino le forme di sussidi e indennità preesistenti (disoccupazione, disabilità) con la definizione di nuove categorie di aventi diritto (come quelle che presentano un’insufficienza di reddito a causa di occupazione precaria). Mentre il reddito di base e quello di cittadinanza si basano sul presupposto della cittadinanza (o un altro criterio di appartenenza ad una comunità), il reddito minimo, essendo rivolto a individui in età lavorativa (disoccupati o inoccupati) a rischio di discesa sotto la soglia di povertà relativa, rimane legato in maniera fondamentale alla categoria del sussidio economico.
Ma è la categoria del sussidio, cioè dell’aiuto ai bisognosi, a venire messa in discussione con il BGE. Il reddito di base (BGE) viene infatti concepito come qualcosa che deve esser garantito come diritto. Il diritto da proteggere è quello a una esistenza sociale dignitosa per ogni cittadino, che non deve esser né dipendente dagli alti e bassi del mercato del lavoro né da un atto di misericordioso soccorso da parte dello stato. Ciò che lo caratterizza è quindi la sua valenza universale, il carattere “incondizionato”, secondo due accezioni del termine: nel senso di “esser per tutti”, indipendentemente dagli specifici bisogni degli individui e dallo svolgimento o meno di una attività lavorativa; e nel senso di “esser senza riserve”, ovvero di non essere suscettibile di scambiarsi con prestazioni. In ultima istanza esso pare infatti avere almeno una condizione, e cioè l’esser cittadini o, in alcune altre versioni, l’essere residenti a partire da un determinato numero di anni.
I sostenitori di questo genere di modello si trovano di fronte al compito non facile, e ancora di dubbia riuscita, di giustificarlo in maniera argomentativamente convincente, non solo contro le obiezioni provenienti dal versante liberale, ma anche contro lo scetticismo che vige all’interno di ambienti politici e intellettuali impegnati in una critica all’economia capitalistica. I sostenitori del BGE hanno l’onere sia di provare per quali ragioni etico-morali e di giustizia sociale debba esser adottato un modello del genere, sia di mostrare chiaramente gli eventuali presupposti normativi che lo qualificherebbero come un diritto. Inoltre occorre anche dimostrare come questo modello possa concretamente “funzionare”, così da rappresentare non solo una possibile soluzione a problemi quotidiani di moltissimi individui, ma anche una risposta a tutte quelle disfunzioni strutturali che sono caratteristiche di questa fase di evoluzione dei rapporti capitalistici.
Sono molti gli argomenti che vengono portati a favore di un reddito di base incondizionatamente garantito. Da una parte viene sottolineato come il reddito di base possa dare una risposta concreta a problemi che sono stati messi in luce in particolar modo dalla critica femminista, in riferimento alla divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo. Un reddito di base rappresenterebbe contemporaneamente una risposta critica su due fronti: da un lato nei confronti delle concezioni liberali del lavoro che stanno alla base delle politiche di welfare[4]; dall’altro nei confronti del classico concetto di lavoro di provenienza marxista. La critica riposa sulla convinzione per cui oltre a non esser così ovvio (come nel caso del concetto marxista di lavoro), sia anche profondamente ingiusto che sia solo il lavoro produttivo in senso stretto (quindi quello relativo in maniera diretta o indiretta alla produzione di profitto) a ricevere un riconoscimento sociale e una remunerazione monetaria. Da sempre è esistito anche un altro genere di lavoro, ovvero quello riproduttivo, storicamente svolto prevalentemente da donne. Si tratta dell’educazione dei figli, della cura degli anziani e della cura della casa – intesa come luogo di riposo, di riproduzione materiale ed anche emotiva –, tutte attività “lavorative” che però sono state tradizionalmente escluse dall’ambito della remunerazione. L’idea di un reddito di base incondizionatamente garantito supererebbe in maniera più decisiva questa separazione gerarchica tra prestazione produttiva e riproduttiva, poiché anche attraverso lo svolgimento della seconda un individuo sarebbe in grado di provvedere in maniera autonoma alla propria sussistenza.
Il nocciolo normativo più profondo di questa idea va invece cercato nel concetto di autonomia di scelta della persona, e nel suo stretto nesso con la possibilità per le persone di esser realmente libere di condurre una vita soddisfacente/felice. Questo nesso tra autonomia di scelta, libertà, vita soddisfacente/felice, che funge qui come orizzonte normativo, è pensato appunto nei termini di quelle che sono le concrete condizioni sociali della sua attuazione. Il concetto di libertà fatto valere qui è robusto e positivo, ovvero un concetto che esprime non solo le sue condizioni formali – il mero godere quindi del “diritto” di essere liberi – ma anche la condizione di possedere i “mezzi” per esserlo. In questo caso, ciò significa che per esser liberi non basta la sola possibilità di scegliere tra un discreto raggio di beni di consumo, ma di impostare e condurre la propria vita come si desidera.
La forma che una società deve assumere per poter garantire una reale libertà ai propri membri è promossa dalla critica a quelle pratiche di “inquadramento” (Eingliederungsmaßnahmen) a cui, allo stato attuale, vengono sottoposte alcune categorie di persone. Ovvero coloro che si trovano, non volontariamente ma piuttosto per costrizioni di sistema, ad essere temporaneamente disoccupate. Direttamente collegato a questo orizzonte normativo si profila un altro argomento che gioca un ruolo fondamentale nella giustificazione di un reddito di base incondizionatamente garantito: quest’ultimo permetterebbe di porre fine alla stigmatizzazione ed esclusione delle persone che, per un motivo o per l’altro, sono dipendenti da sussidi statali. Il BGE favorirebbe invece l’integrazione, dando tempo e possibilità alle persone di formarsi, di sviluppare capacità lavorative che possano offrire loro la possibilità di perseguire piani di vita alternativi e di attuare così la propria libertà.
Si noti che lo scopo delineato non è solo quello di favorire la libertà, ma anche quello di migliorare la qualità della vita degli individui, poiché molti disturbi psicologici quali ansia, stress cronico e crisi depressiva da esaurimento (burn out), che sembrano essere in rapida e incessante crescita, potrebbero diminuire[5]. Allo stesso tempo si affronterebbe il problema dei lavori necessari ma poco desiderati e per di più mal pagati: l’introduzione del BGE comporterebbe un aumento dei salari per queste occupazioni, poiché non si troverebbero molte persone economicamente costrette ad accettare condizioni di lavoro ingiuste. Così facendo, secondo i sostenitori, si stabilirebbe uno stato di cose in cui si potrebbe effettivamente mettere in pratica la libertà che più caratterizza, almeno in linea di principio, il mercato del lavoro salariato, ovvero quella di poter dire “no” nei confronti di condizioni che si considera o inaccettabili o inadeguate[6].
L’idea di un reddito di base garantito incondizionatamente sembra quindi voler fornire risposte ad uno spettro molto ampio di domande. Da una parte manifesta lo scopo di accrescere l’uguaglianza sociale per mezzo di un piano di radicale ridistribuzione, cercando così di superare sia ingiustizie di natura economica sia quelle di natura sociale, ovvero sia lo sfruttamento che l’esclusione sociale prodotta da uno stato costante di disoccupazione indesiderata a intermittenza; dall’altra però è anche forte la speranza che questo modello possa – data appunto per buona la possibilità del suo funzionamento – contribuire alla possibilità di una vita sociale forse meno produttiva ma, alla lunga, migliore.
Moltissime sono le critiche a questo modello. Al di là dell’obiezione di natura funzionale contro quella che è una salda convinzione dei sostenitori e che sembra in realtà avere una sua intuitiva plausibilità – ovvero l’idea che il numero di occupati non diminuirebbe affatto, anzi aumenterebbe – viene spesso messa in dubbio la fondatezza di un diritto del genere. Questo sarebbe un diritto incondizionato alla sussistenza: l’assenza di un obbligo di prestazioni di qualunque tipo contraddirebbe la tradizionale etica del lavoro e non presupporrebbe nessun rapporto di reciprocità tra cittadino e stato. Ciò interesserebbe, si argomenta, sia chi liberamente decidesse di non lavorare, sia chi ricevesse il reddito di base non avendone però palesemente bisogno o a causa di un alto reddito legato ad una occupazione o a un patrimonio.
Ma è anche vero, come viene ribattuto, che vi sono già diverse forme di “free lunch”[7] nella nostra società: evidente è il caso dello sfruttamento, deperimento e inquinamento di risorse naturali appartenenti a tutti. Il caso dell’Alaska, unico stato ad aver adottato una forma di basic income è in questo senso esemplare: questo reddito di base è frutto di una ripartizione a favore dei cittadini dei proventi ottenuti attraverso lo sfruttamento di una risorsa naturale del paese, quale appunto il petrolio. I sostenitori sembrano avere anche una risposta all’obiezione per cui anche i non bisognosi riceverebbero il reddito di base: l’idea è che quando ciò avvenisse il sistema di tassazione dovrebbe essere configurato in maniera tale da costringere a rimborsare l’intera somma. In questo modo non verrebbe però intaccato il loro diritto, sul quale questi individui potrebbero comunque fare affidamento nel caso di un improvviso crollo del loro reddito.
Le critiche più fondate, tuttavia, sono a mio parere quelle di ispirazione marxista. Queste mettono in luce come questo dibattito ponga sì le domande giuste, ma dia loro solo una risposta parziale, ovvero una risposta che si limita a predicare una radicale ridistribuzione dei beni, ma che non contribuisce alla ridefinizione dei processi della loro produzione e quindi alla ridefinizione collettiva dei bisogni e del loro soddisfacimento. L’azione del BGE contro problemi socio-economici strutturali della nostra società sarebbe cioè patogenica più che eziologica. Questa critica ha una sua valenza teorica, considerando anche che il reddito base incondizionatamente garantito non sembra in grado di affrontare fattori come  l’inflazione, che annullerebbero gli effetti del reddito di base. Senza considerare il problema di definizione stessa dei limiti della comunità degli aventi diritto e il rischio di creare una interna comunità di esclusi, i quali rimarrebbero soggetti sia allo sfruttamento economico che alla discriminazione sociale.
Nonostante queste critiche, il dibattito pare presentare degli aspetti molto interessanti, e prova ne è la sua popolarità in Germania: sembra infatti dare un taglio rivoluzionario a determinati concetti come quelli di lavoro e produttività, e suggerire una nuova maniera di concepire il tempo a nostra disposizione. I sostenitori di questo modello sembrano esser guidati più che dall’ambizione di affermare questo progetto – tant’è vero che ne viene spesso pensata una introduzione graduale, o a partire da una certa età, per evitare di disincentivare i giovani a formarsi – dalla convinzione che è ormai improcrastinabile riuscire a concepire una dimensione che vada al di là di quella del lavoro per il mercato – un “Jenseits der Marktarbeit”[8] – e lavorare per far in modo che la forma nuova di società così pensata possa funzionare in maniera migliore di quella precedente. La convinzione dei sostenitori del progetto è che il BGE possa essere la soluzione per due problemi contemporaneamente: l’ineguaglianza sociale e l’alienazione da routine lavorativa. La prima verrebbe appunto compensata da una programma di radicale ridistribuzione, mentre la seconda, verrebbe contrastata attraverso un mantenimento degli aspetti liberatori contenuti nell’affermazione dell’ideale della flessibilità, ammortizzandone però, dal punto di vista materiale, gli effetti precarizzanti.
Il dibattito tedesco sul bedingungsloses Grundeinkommen (BGE) nasce proprio come atto di critica a un sistema che, se da una parte ha sostenuto le dinamiche neoliberali, dall’altro lato ne riflette oggi anche la profonda crisi. Va a questo proposito sfatato un falso mito: in Germania non solo non esiste un reddito di base o di cittadinanza ma nemmeno un reddito minimo che sia “incondizionatamente” garantito a tutti. Esiste però un reddito minimo sotto determinate condizioni, patrimoniali (esser a rischio di povertà relativa) e di condotta (impegnarsi nella ricerca di un lavoro, divieto di recarsi all’estero etc.). Nel caso in cui queste norme non vengano rispettate, vengono comminate delle sanzioni, che possono giungere fino alla perdita del diritto al sussidio stesso. Se infatti il sussidio nella sua forma minima in Germania è quindi formalmente garantito a ogni cittadino (non occorre aver lavorato precedentemente per ottenerlo), non sono incondizionati però i termini che esso pone per il proprio mantenimento. Questa forma di sussidio implica forti forme di controllo e disciplinamento della vita dei cittadini e ha come conseguenza, in molti casi, una emarginazione sociale duratura.
Il dibattito mira inoltre a mettere in discussione quei principi cardine dell’economia liberale di mercato, e cioè quelli di una infinita crescita e del conseguente aumento dell’occupazione, intesi come strumenti per realizzare una ridistribuzione capace di esorcizzare la minaccia di una discesa sotto la soglia della povertà relativa. Sotto accusa è poi allo stesso tempo quell’apparato di politiche sociali che ha reso possibili, addomesticandole e rendendole relativamente “sostenibili”, le dinamiche di una sfrenata economia neoliberale e le sue conseguenze nel mercato del lavoro.
Se il lavoro rimane infatti ancora oggi uno degli aspetti centrali della vita della maggior parte delle persone (occupati e non), è anche vero che oggi più di prima, e soprattutto nei Paesi come la Germania a capitalismo avanzato, è sempre più raro trovarsi di fronte a persone con una biografia lavorativa tradizionale. A costellare quest’ultima sono non solo contratti a tempo determinato o relazioni di lavoro atipiche,ma anche contratti part-time, con consistente sgravio sui contributi di previdenza – come i famosi minijob introdotti dalla riforma del mercato del lavoro operata dal governo Schröder.
La dissoluzione di legami lavorativi duraturi e delle relative sicurezze porta con sé allo stesso tempo momenti di libertà e momenti di negazione di quest’ultima. Gli attuali rapporti lavorativi mettono di fronte a quello che sembra essere ormai un affermato paradosso o anche solo un “Kippbild” tra flessibilità/precarietà[9]. Il potenziale liberatorio contenuto nell’ideale di flessibilità, nel senso di una espressione di sé sottoposta a una continua possibilità di ridefinizione, viene intrappolato in una dinamica che ha aspetti tutt’altro che liberatori, perché sottopone le persone alla frammentarietà e fugacità di possibilità lavorative che sono sempre più brevi e incerte. Non solo: ad essere operativo è sempre il pericolo di venir gradualmente esclusi da esse, rischiando così, se non un estremo impoverimento materiale, la morte sociale dell’esclusione.[10]
Il dibattito tedesco sul reddito di base garantito parte proprio da questo genere di presupposti empirici. Esso è una presa di posizione o un tentativo di reagire a quello che è, anche senza scomodare Marx, l’evidente paradosso del sistema di produzione e distribuzione capitalistico: anche sotto un regime di costante aumento della produzione di beni, ci si trova di fronte a una sistematica e persistente produzione di povertà, disoccupazione ed esclusione. Ciò che viene tematizzato è come si debba o come si possa concepire un sistema di garanzie economiche di base per ogni cittadino che sia allo stesso tempo garante della sua sussistenza, in una maniera tale da non ferire la sua dignità. Il dibattito che si è aperto in Germania su un reddito di base sembra quindi talvolta assumere l’obiettivo di una profonda riforma dei modelli già esistenti di stato sociale; talaltra invece quello di una radicalizzazione del modo di funzionamento e della forma che essi hanno fin ora assunto. Ciò avverrebbe attraverso la stessa messa in questione di categorie quali lavoro, autonomia, libertà, vita soddisfacente e felice e della forma di una società che ne possa esser garante.
L’ambiguità tra una strategia di riforma o di radicale cambiamento nasce dal fatto che tale proposta è concepita sia come una reazione a quelli che sembrano i problemi sistemici dell’ordine di produzione e distribuzione capitalistico sia come una misura funzionale a costruire un modello alternativo di economia mista (in cui si operi perciò solamente a livello della distribuzione dei beni)[11].
Entrambi i livelli di riflessione sono molto lontani dalla realtà italiana, ma non per questo meno rilevanti per essa. La mancanza di una forma adeguata di welfare e la pungente necessità di una sua introduzione impongono infatti che si tragga insegnamento dal dibattito che si compie in altri paesi su questi temi.
NOTE
[1] cfr. Philippe Van Parijs, Real Freedom for All, What (if anything) can justify capitalism, Clarendon Press, Oxford 1995.
[2] Netzwerk Grundeinkommen: www.grundeinkommen.de.
[3] cfr. Claus Offe, Arbeitsgesellschaft. Strukturprobleme und Zukunftsperspektiven, Campus, Frankfurt/M 1984.
[4] cfr. Nancy Fraser, Unruly Practices: Power, Discourse, and Gender in Contemporary Social Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989.
[5] cfr. Ehrenberg Alain, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 2010.
[6] C. Offe, Familienleistung jenseits der Marktarbeit – das bedingungslose Grundeinkommen http://www.bosch-stiftung.de/content/language1/downloads/Demographiebericht_Offe.pdf, p.6
[7] cfr. J. Cohen, P. Van Parijs, J. Rogers, What´s wrong with a free lunch?, Beacon Press, Boston 2001.
[8] cfr. C. Offe, op. cit.
[9] cfr. Richard Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2000.
[10] cfr. Christoph Menke und Juliane Rebentisch (hrsg. von), „Kreation und Depression“. Freiheit im gegenwärtigen Kapitalismus, Kulturverlag Kadmos, Berlin 2011; Axel Honneth (hrsg. von), Befreiung aus der Mündigkeit Paradoxien des gegenwärtigen Kapitalismus, Campus Verlag, Frankfurt/New York 2002.
[11] cfr. Philippe Van Parijs, Basic income capitalism in Ethics, Chigago, 102 (3), April 1992, pp. 465-484. Van Parijs descrive il progetto di un basic income da una parte come il culmine del welfare state fino ad oggi concepito (che è, come è noto, riposato sul presupposto capitalistico del possesso privato dei mezzi di produzione); dall’altra come uno dei momenti per raggiungere ciò che ancora oggi rimane valido e attraente nella vecchia idea di emancipazione legata al pensiero comunista senza passare dalla realizzazione di un modello di produzione socialista, che storicamente non ha mostrato di esser in grado di funzionare efficientemente.
Francesca Caligiuri è dottoranda presso l’Università Humboldt di Berlino. Si occupa prevalentemente di filosofia sociale e teoria critica.


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