mercoledì 19 giugno 2013

L’Afghanistan e il (triste) destino delle basi Nato 

di: Ferdinando Calda
f.calda@rinascita.eu

“Due fattori rendono difficile l’uscita dall’Afghanistan: il primo è la necessità di non mettere a rischio la sicurezza dello stesso contingente procedendo con il ritiro troppo affrettato delle componenti operative. Il secondo riguarda l’indisponibilità delle vie di trasporto, sia aeree, terrestri e navali, a causa delle richieste contemporanee di ritiro di tutti i Paesi coinvolti”. Così il ministro della Difesa italiano Mario Mauro ha risposto alle richieste di accelerare la partenza delle truppe italiane dall’Afghanistan, nel corso della sua informativa alla Camera sull’attentato costato la vita al capitano dei bersaglieri Giuseppe La Rosa. Ma oltre allo spinoso (e costoso) problema di come far uscire da un Paese senza sbocchi sul mare migliaia di mezzi e tonnellate di materiale, i Paesi della coalizione internazionale – Usa in testa – dovranno affrontare anche il dilemma di cosa fare con le strutture che rimarranno, specialmente le basi militari e gli avamposti costruiti in oltre dieci anni di guerra. La questione non è affatto secondaria per il futuro del Paese ed è strettamente collegata alla capacità (e alla volontà) delle forze afgane di controllare porzioni più o meno vaste di territorio. Il rischio, specialmente per gli avamposti più isolati, è che, una volta partite le truppe internazionali, le forze afgane non siano in grado di mantenerli e finiscano in mano agli insorti. È quindi probabile che alla fine centinaia di strutture verranno demolite. Si parla di circa 500 tra basi vere e proprie, basi avanzate (le cosiddette FOB – Forward Operating Base), avamposti (COP - Combat Out post) e checkpoint fortificati. Un’operazione che è già cominciata poco più di un anno fa con l’assegnazione di un contratto da 57 milioni di dollari alla società Serco, che ha già effettuato lo stesso lavoro in Iraq. Ad esempio, tra agosto e settembre del 2012, venne raso al suolo l’avamposto italiano nel Gulistan “Snow”, nella provincia occidentale di Farah. Lo stesso dove il 31 dicembre 2010 venne ucciso il caporal maggiore Matteo Miotto. A suo tempo lo stesso governo di Kabul protestò contro l’iniziativa di Nato e Usa di demolire le basi, sostenendo che le strutture potrebbero essere riutilizzate per la realizzazione di scuole, ospedali e uffici di governo. Da Washington ribatterono che le autorità afgane non avrebbero avuto la capacità logistica di gestire tutte le basi disseminate nel Paese. Esemplare a questo proposito è la recente vicenda di un checkpoint nella provincia orientale di Paktika, presso il villaggio di Shkin, attaccato alla movimentata frontiera con il Pakistan. Come raccontato lo scorso mese dal colonnello Usa Dennis Sullivan, citato in un articolo del giornale Stars and Stripes, l’avamposto era gestito da 1.200 contractor afgani pagati dagli Stati Uniti. In vista del passaggio di consegne, le autorità afgane hanno proposto di assumere i contractor per continuare a gestire il checkpoint. Ma in mancanza di precise assicurazioni su rifornimenti e assistenza medica (gli afgani non possiedono la nutrita flotta di elicotteri a disposizione della Nato), solo un centinaio di loro hanno accettato. E così la struttura è stata demolita. Una decisione che non è stata ben accolta dalle forze di sicurezza locali, che l’hanno vissuta come l’ennesima prova dell’abbandono imminente al proprio destino da parte degli “alleati” Usa. “Noi siamo pronti a rimanere e difendere il nostro Paese e la popolazione di Shkin dalle [minacce] provenienti dal lato pachistano – spiega un membro della polizia di frontiera afgana – ma all’ultimo minuto voi (statunitensi ndr) avete distrutto tutto senza dirci niente. Perché lo avete fatto? È stata la decisione sbagliata”. “Il rischio se non fosse stato demolito – spiega invece Sullivan – è che due giorni dopo lo avremmo trovato in mano agli insorti, che avrebbero conquistato una posizione dalla quale dominare tutta la zona”. Problema simile anche per strutture più grandi, che potrebbero rappresentare una vera ricchezza per il futuro del territorio. Come nel caso della base militare di Sharana, sempre a Paktika. “Qui esistono una gran quantità di solide infrastrutture che potrebbero tornare utili agli afgani, compresi edifici in cemento e due pozzi di acqua potabile. C’è anche una pista di atterraggio che potrebbe essere utilizzata sia a scopo bellico, sia per la ricezione di aiuti umanitari o altri mezzi in caso di catastrofe. Come aeroporto civile, potrebbe dare impulso allo sviluppo dell’economia locale”, spiega a Strars and Stripes il tenente colonnello Christopher Wendland, comandante della base. In un incontro con i rappresentanti statunitensi, il vice governatore della provincia, Attaullah Fazli, ha riconosciuto che la base potrebbe essere ben utilizzata dall’amministrazione afgana. Ad esempio alcuni edifici potrebbero ospitare parte dei prigionieri dell’altra affollata prigione. E si potrebbe persino pensare di usare temporaneamente la base come sede dell’università provinciale. Tuttavia lo stesso Fazli ha riconosciuto che l’esercito nazionale afgana (Ana) è riluttante a prendersi carico anche del controllo e della manutenzione della grande base. Il diplomatico statunitense Karl Olson, inoltre, fa notare che gli afgani non possiedono le conoscenze e le capacità per gestire autonomamente gli impianti per il trattamento delle acque della base. “Il governo provinciale dovrebbe concentrarsi su ciò che realisticamente può mantenere e proteggere”. 


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