domenica 9 giugno 2013

“Italia malata”. Luigi Preti, quarant’anni dopo!

di POALO L. BERNARDINI
Rimettendo a posto uno scaffale polverosissimo di vecchi libri miei, letture dell’adolescenza, o addirittura dell’infanzia, mi sono imbattuto in una busta piena di libercoli strani, che non ricordavo neppure d’aver letto. Da “Coca e cocaina” di Daniel Worthon, che sa molto di 68 malvissuto, editori Savelli, collana “Il pane e le rose”, introduzione di Marco Lombardo Radice, a “Marcovaldo” di Italo Calvino, nell’Einaudi scolastica, e finalmente, un momento di luce, “Fossili invertrebrati”, di Giovanni Pinna, Istituto Geografico De Agostini, 1972. Che bambino prodigio, o piuttosto che “enfant terrible”, che leggeva tutte quelle cose. Ma nella busta vi è anche un quarto libro, questo davvero misterioso. Si intitola “Italia malata”, ed è di Luigi Preti. Edizioni Mursia, per la precisione, quarta ristampa, del febbraio 1973. La copertina, marrone lucida, il nome dell’autore e dell’editore in verde, nessuna nota biografica in quarta, quasi che l’autore fosse stato troppo noto per menzionarlo anche soltanto, non lo rendono gradevole alla vista. E neppure il titolo “Italia malata”. In vacanza si pensa solo a cose belle e sane! Poi l’anno, 1973. Sorge qualche dubbio in me, nel 2013. Ma davvero a dieci anni leggevo quelle cose…? Difficile, improbabile. E allora cosa ci fa tra i miei libri? Ma in effetti lo apro, è pieno di polvere e odora di carta sfatta, e vi leggo qualcosa di sorprendente: una dedica, a mio padre, senza data, dove mio padre viene definito “socialdemocratico”. Segue un “cordialmente, Preti.” Dunque, l’opera non faceva parte delle mie letture pre-adolescenziali, forse in quell’età remota mi occupavo della mia salute, ottima, e poco mi calava di quella dell’Italia, definita “malata”. Ricordavo vagamente le simpatie di mio padre per quel che si chiamava, credo, PSDI, in un’allegra era di sigle morte, che comprendeva anche l’extraterrestre PSIUP; se non sbaglio.
Nella mia mente che pure coglie i nomi come i pesci nelle reti più fitte, lo stesso Preti evoca certamente qualcosa, ma, lo confesso – quale confessione d’ignoranza, per uno storico! – ben poco. Per fortuna Wikipedia mi soccorre, e arrossisco nel rendermi conto che di gigante, della politica italiana, ben inteso, si tratta, di figura stellare, per i governi cui ha partecipato, per la sua opera di scrittore, prima che di ministro, per un libro, “Giovinezza, giovinezza…” da cui fu tratto un film, per tante altre cose, ad esempio aver trattato lo scottante argomento degli ebrei nel e per il fascismo. Nato nel 1914 – e allora mi offro volontario per espiare la mia ignoranza come relatore gratis ad un potenziale convegno su di lui l’anno venturo – morto nel 2009, caspita, a quasi cent’anni, antifascista che sfugge per un soffio alla pena capitale, professore universitario, e chi più ne ha più ne metta. Chapeau. Forse anche persona onesta, ma questo non sta a me dirlo, mi pare, ad intuito, ma non so.
Naturalmente, un libro trovato per caso che si intitoli “Italia malata”, invita alla lettura, anche se personalmente tali libri li ho sempre messi in un genere a parte, dei Maestri di Diagnosi, a cui mancava ogni prognosi realistica, con l’eccezione lodevole di Gianfranco Miglio, ad esempio (ma sono pochi gli altri esempi, francamente), che la prognosi l’aveva formulata davvero. Radicale. Gran diagnostico il Preti lo è di sicuro. Sono passati quarant’anni, ma non si può dire che sia cambiato molto, e dunque rimangono i problemi di sempre, che sarebbe ozioso elencare. Non si è colmato, ma anzi avanza, il “divario tra Nord e Sud”, quel che il Preti definisce come pratica occasionale, la “fiscalizzazione degli oneri sociali” (mai il concetto di rapina fu rivestito di più straordinaria circonlocuzione, o locuzione, davvero) è diventata prassi consueta, il rischio che l’Italia divenisse marginale nella “Comunità economica europea” si è avverato, tanto più, quanto più la seconda è diventata UE (o per altri, “i più scaltri”, IV Reich). Preti parla di “scuola degli asini”, di “lentezza della giustizia” (civile e penale), di politici corrotti, di appalti corretti, singolarissimo il caso ANAS: per due anni e passa una ditta vinse tutti gli appalti ANAS indovinando la cifra “segreta” tanto che la magistratura si avvalse in qualità di periti di due professori di matematica, esperti in calcolo di probabilità…Stabilirono la probabilità in frazioni di miliardesimi ma tant’è, quel che è probabile (anche se poco probabile) è ontologicamente diverso dal “possibile” (e dall’impossibile, nel caso di specie).
Ma leggere il libro di Preti, un ministro delle finanze giurista e letterato, ma assai poco economista, è immergersi nello statalismo “socialdemocratico”, ovvero, mio padre non si arrabbi, temperato da anticorpi liberali talmente deboli da far aggravare la malattia anziché curarla. Vi è sempre la diffidenza per il ricco “evasore potenziale”, l’attacco al lusso, insomma, come si diceva una volta ai battesimi, “il Diavolo e tutte le sue pompe”, espressione credo ora addolcita, le pompe sono diventate tentazioni, al più lusinghe…Vi è un ottimismo di fondo che forse fu parte dell’uomo, ch’io non ebbi la ventura di conoscere, e si respira un’aria di “piccolo mondo antico” tragicamente sospeso nell’abisso del moderno, insomma l’ombra di Ombretta sembra ad ogni punto, in forma di terribile fantasma, di zombie deforme, far capolino e quantomeno terrorizzarci, per poi ritornare infida dieci mila leghe sotto il lago. Caspita, io compivo 10 anni e l’Italia già andava in malora!
Aldilà della celia, è lettura consigliata perché si colloca proprio in quel momento critico,epocalmente critico, che fu la fine della generazione miracolata, di quei venticinqueanni tra il 1945 e il 1969 in cui l’Italia crebbe, esponenzialmente, ma grazie a capitale americano (che Preti non menziona), grazie ad una voglia di rinascere dalle macerie, ad una corruzione tollerata e ad una fiscalità non esasperata. Preti si compiace nel descrivere i passi da gigante della piccola Italia tra 1945 e 1969. Ma non capisce, o meglio non vuole ammettere del tutto, che dal 1970 in poi, il crinale tragico della storia italiana, è proprio la presenza sempre più massiccia dello Stato nell’economia, oltre ad un corollario di sciagure come l’approvazione del finanziamento pubblico dei partiti, e l’aumento esponenziale dei dipendenti pubblici in discreta parte parassitari, che condanna ad una lunga “stagnazione” l’Italia di quegli anni. Singolarmente, Preti si rivolge ad Andreotti spesso, che allora guidava uno dei suoi innumerevoli governi.
Sono tempi lontani, certo, i primi anni Settanta, che ricordo da bambino non ricco ma felice,ma vi sono affinità enormi, leggendo Preti si vede un paese congelato nella sua malattia, i cui tratti sono presenti anche ora, in cui la parte fondamentale della sovranità, quella monetaria, è stata (e sarà) progressivamente alienata, e dunque non si è più un vero stato, ma un’ombra di quello. Certe ingenuità fanno sorridere, certe pie illusioni di socialdemocratico – ahimè la democrazia può essere la più terribile delle dittature – fanno pensare alla tragica discrasia tra liberalismo e socialismo, il matrimonio, per dirla con William Blake, del cielo e dell’inferno (che dà poi ai cittadini un eterno purgatorio inameno).
Preti è morto, Andreotti è morto, il PSDI anche. Ma l’Italia “malata” è morta anche quella, l’euro è un organo alieno e artificiale che abili chirurghi hanno inserito su un corpo politico come una gruccia. Quel che fa rabbrividire sono le cifre date dal libro. Vi erano circa 1.300.000 dipendenti pubblici nel 1972, ora sono quadruplicati, ma la popolazione era di 54 milioni di abitanti, il 90% di quella attuale! Da allora è aumentato anche il numero dei pensionati, in assoluto e in percentuale, e dunque il peso dello Stato, come la spesa pubblica e il debito (di cui Preti parla poco) sono immensamente cresciuti.
Tra gli ultimi scritti di Preti vi è un “sempre viva l’Italia” che lascia pensare che egli non amasse molto prospettive di secessione e indipendenza. Ma se molti di coloro che si ponevano quarant’anni fa molte questioni ancora vivissime oggi l’avessero anche solo un pochino presa in considerazione come (possibile) soluzione, il loro stesso discorso critico ne avrebbe abbondantemente beneficiato. E da Gran Maestri di Diagnosi veritiere si sarebbero trasformati in buoni estensori di prognosi corrette. Ma così non è stato. Riporterò in continente questo libro e lo ridarò a mio padre, chissà se se ne ricorda. E se ora concorderà con me.

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