domenica 21 aprile 2013

Tuffo nell'assoluto con gli occhi del cabalista

ERRI DE LUCA
Tuffo nell'assoluto con gli occhi del cabalista

Esce un prezioso trattato del XIII secolo, scritto da un interprete della dottrina ebraica
Nascono profezie da un alfabeto composto di lettere e cifre
Natan ben Sa'adyah Har'ar, "Le Porte della Giustizia", a cura di Moshe Idel, Adelphi, pagine 544, euro 51,64, lire 100.000
Quando la forza-furia dei pensieri raggiunge il grado d'intensità luminosa della visione, non si può scrivere niente. Solo dopo l'ascesso dell'estasi è concesso un accenno. Il cabbalista è il deposito di una tradizione accennata, mai esplicita. È il pellegrino di una linea spezzata che lui deve congiungere senza sapere cosa appare nel disegno. Sua tempera è la febbre, sua officina le lettere dell'alfabeto ebraico che girano e si combinano nella centrifuga del suo pensiero. Lui le riaccorpa, particelle di grasso per il burro e anche cavallucci di una giostra cavalcata dai nonni, dai solenni antenati assorti dentro un alfabeto che è anche numerale, composto di lettere-cifre. Al cabbalista arrivano allora pezzi di profezia, sommità di chiarezze dal subbuglio e dalla fibrillazione del cuore, perché il dono è panico di non reggere alla piena, presentimento di un infarto del cranio, capace di contenere l'irruzione della visita. Il pensiero è solo un secchio calato ad attingere in un vortice. Il cabbalista sa di essere autore di niente, casomai redattore di una porzione millesima dell'avventura interiore. Più spesso è muto, riceve e basta, e se incontra e riconosce un discepolo, può solo dargli delle iniziali, un acrostico di frasi di avviamento. Il cabbalista è antico e solo. Nel suo arroventamento irrompono anche angeli del male che inceppano la linea punteggiata, la scombinano di virgole. Lui deve allora azzardarsi a mescolare lettere del nome santo insieme alle altre, con il rischio di schiantarsi: "Chi ti ha indotto a toccare il nome?", domanda che non soccorre ma inchioda al bivio, o sei santo o sei bestemmiatore.
Il cabbalista va alla sua estasi come l'eroe alla mischia, mai salvo per diritto, protetto solo dal suo sbaraglio, dalla purezza d'essersi spogliato di qualunque cura di sé. Preso per i capelli e salvato, questo gli può accadere spesso, non sempre. Il suo corpo svanisce dietro una nuvola di fumo, il suo corpo è il popolo d'Israele rimasto alle pendici del Sinai, mentre il solo Mosè arde di vicinanza e di solitudine sul monte.
L'esperienza impossibile ha solo parole reduci, disfatte, un residuo d'unguento colato giù fino al corpo "in gioia e in tremito". Non è possibile intendere il percorso, riprodurlo. Si definisce per opposti: la separazione di tutto è punto di attaccamento all'assoluto ascolto, la spalancata rivelazione si svolge sotto una copertura, sotto "la mano" di Dio.
Forse esistono, devono esistere, trentasei lettori in grado di intendere "Shaarè Tzédek", Porte di Giustizia , opera di Natan ben Sa'adyah Har'ar, cabbalista del secolo tredicesimo, secondo un nostro computo del tempo che a lui poco importava. Sorregge la nostra lettura moderna l'immensa competenza amorosa di Moshe Idel, lo studioso e "tzaddìk", il giusto assegnato alla nostra epoca. A lui, al giusto, è data la forza di accostamento a noi di "Shaarè Tzédek", Porte di Giustizia . Il suo commento è guida più premurosa di quella offerta da Virgilio a Dante.
E però solo a scorrere le frasi di Natan sulla lettera ebraica "iod", la più piccola di tutte, ci si trova affacciati a un balcone abissale e ci si deve tenere forte al parapetto. Per fortuna o per difetto siamo incapaci di sporgerci.
"Shaarè Tzédek" è opera di incasso dentro il diadema della Cabbalà di una perla, di una escrezione di luce impenetrabile. Perciò di purissimo pregio editoriale essersi dedicati alla fabbrica di questo trattato in italiano, sobbarcandosi il peso di un vastissimo controllo di fonti. Note, commenti, testo ebraico, indice analitico, esauriscono il bisogno di precisione e di consultazione. La produzione e la messa in commercio di questo volume costituiscono il più principesco spregio delle leggi di mercato. Sono il lusso che vuole concedere a sé e a pochi lettori un editore, Adelphi, semplicemente unico

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