martedì 23 aprile 2013

Rivoluzione culturale



Spero che il titolo non tragga in inganno, non voglio citare Mao, né evocarlo. È solo il titolo di alcune idee alla rinfusa in un momento di estrema emergenza come questo. Una vera rivoluzione contro-culturale negli ultimi trent’anni ha gettato il Paese nell’ignoranza, favorendo la crisi attuale. L’interesse privato da sempre si scontra con quei valori di onestà, modestia, equità, che non permettono di arricchirsi senza limiti e regole. L’interesse privato è la negazione della cultura, che è invece apertura e conoscenza, come avvertiva il Poeta: fatti non foste a viver come bruti. Ergo, è stato necessario relativizzare, mettere in minoranza quei valori, rendere il popolo inetto alla riflessione, ignorante fin nel senso etimologico semplice di “non sapere”. Come? Fornendo a ripetizione contro-modelli all’apparenza facili, poco impegnativi e fonte, invece, di frustrazione. In glottodidattica si chiamano “pattern drills”, frasi registrate e ripetute in continuazione finché non vengono apprese, imparate a memoria, servono a risolvere problemi immediati di comunicazione, ma non mettono certo in grado di conoscere e sviluppare le proprie competenze linguistiche e culturali. Ora non siamo quasi più in grado di leggere e parlare la nostra lingua, di apprezzare la bellezza del nostro Paese, non sappiamo più considerare il Bene pubblico come qualcosa che ci appartiene a pieno titolo. Il crollo delle ideologie e dei sistemi politici locali tra il 1989 e il 1993 ha favorito la disillusione e il disinganno, giustificando a torto il ripiegamento sul successo privato privo di ogni remora e regola. Lentamente (ma neanche tanto, nell’arco di una sola generazione), tutto ciò che poteva essere considerato “cultura” è stato tacciato di snobismo e ipocrisia, mentre il nuovo brillante modello portava a confondere l’ignoranza con la sincerità e la schiettezza, persino l’educazione è diventata sinonimo di affettazione. Come quando affrontiamo e superiamo una dura prova, il mondo ha avuto una sorta di scarico collettivo della tensione accumulata durante la guerra fredda e una perdita conseguente di motivazione per un’abnegazione non più devota a principî e interessi superiori, non dico in termini di politica internazionale, ma di etica civica e privata. Pensare costa fatica, l’attenzione alla regole e al bello costa fatica.
Se la preoccupazione principale è la fatica, ripartiamo da ciò che già abbiamo senza sforzarci troppo. Abbiamo il nostro Paese, una penisola lanciata in mezzo al mare, tra l’Europa e l’Africa, tra Est e Ovest. La vocazione politica nazionale dovrebbe essere in primis mediterranea e solo dopo globale, un faro di riferimento politico e culturale. Migliaia di chilometri di coste, montagne, laghi, città e paesi e tradizioni e piatti e vini e canti e danze e mestieri e lingue. Sono cose che sopravvivono nonostante tutto. Ogni singolo comune o ogni “libero consorzio” di comuni, potrebbe sfruttare uno dei tanti beni immobili pubblici abbandonati (uffici provinciali, postali, caserme…) o anche ex impianti industriali dismessi. Con un piccolo investimento iniziale per restaurarli, potrebbero diventare centri di promozione culturale locali, dove dedicare spazi al territorio, all’enogastronomia (che farebbe da traino, diciamolo sinceramente), ai mestieri tradizionali non “musealizzati”, bensì riproposti in veri e propri laboratori per i giovani, perché uno dei problemi è che, purtroppo, molti giovani hanno preferito la carriera universitaria con l’unico risultato di ingolfare le liste di collocamento. Cosa sono in fin dei conti i settori dove l’Italia eccelle se non “artigianato” all’ennesima potenza? Pensate al design in vari campi e all’eccellenza raggiunta in certi prodotti di nicchia. In quegli spazi troverebbero posto le lingue locali e l’italiano insieme, per fornire (anche agli stranieri), l’occasione di un approccio globale, il più possibile completo alla nostra multiforme unicità. Bisognerebbe istituire delle commissioni di qualità sull’offerta, per garantire standard di qualità dell’accoglienza e della ricezione sempre affidabili. Pensate semplicemente quanto lavoro creerebbe la semplice manutenzione dei beni culturali locali, la presenza di un corpo di giovani guide locali e così via. Si deve ripartire dalle madri e dai bambini, con asili interni alle aziende e agli enti, con aumenti di stipendio alle madri, con orari più elastici e la possibilità di lavorare a distanza, da casa. Fin dalle elementari bisognerebbe impiegare il pomeriggio con più educazione fisica, educazione alimentare ed educazione civica pratica, non teorica, con veri e propri “laboratori” sul territorio. Anche i programmi scolastici “curricolari” dovrebbero prevedere un maggiore equilibrio fra discipline “scientifiche” e “umanistiche” e non dovrebbe essere possibile diplomarsi e tanto meno laurearsi in qualsiasi disciplina senza dimostrare di sapersi esprimere in italiano e in almeno una seconda lingua straniera, che andrebbe insegnata soprattutto nei primi anni, tra i sei e gli undici anni, quando il cervello, come è noto, è assai più ricettivo e i meccanismi di acquisizione e apprendimento più fluidi.
I “poli culturali” sarebbero centri di aggregazione e crescita economica e i guadagni, ridistribuiti e reinvestiti, tornerebbero sul territorio per intervenire sulle criticità, dal dissesto idrogeologico all’adeguamento alle norme antisismiche e via discorrendo. Ovviamente, questi centri dovranno essere autonomi energeticamente, sfruttando le diverse energie rinnovabili adeguate al territorio.
Il mare, il mare ragazzi, non dobbiamo dimenticare che il mare ci circonda completamente, tutto il traffico commerciale e turistico del Mediterraneo deve per forza passare da qui. Dovremmo potenziare anche quest’opportunità, anche da un punto di vista turistico, è mai possibile che la maggioranza del mercato turistico in barca a vela (tanto per fare un esempio) sia nelle mani di operatori stranieri?
La ricerca scientifica, che a pieno titolo rientra nell’azione culturale, dovrebbe ricevere l’attenzione che merita stornando fondi da voci ipertrofiche (stipendi dei parlamentari e dei manager pubblici e privati), mentre il denaro destinato all’acquisto di armi moderne di dubbia efficacia andrebbe dedicato alla sicurezza interna, alla polizia, agli inquirenti, anche per velocizzare indagini e migliorare il rapporto con il territorio.
I vecchi impianti industriali, insistendo su territori da essi quasi compromessi, potrebbero essere riconvertiti in impianti di riciclaggio e riconversione dei rifiuti, per produrre energia e prodotti riciclati. Nessuno si lamenterebbe di un impianto che da sempre fa parte del panorama e che, abbandonato a se stesso, rappresenterebbe soltanto un pericolo e un deterrente allo sviluppo. Si potrebbe ripensare anche l’organizzazione del servizio sanitario su questa base, con piccoli, ma numerosi poli collegati sia tra loro che alle istituzioni di ricerca e, perché no, alle aziende che, sponsorizzando, avrebbero un ritorno economico e d’immagine non da poco. Pensiamo alle borse di studio per i ricercatori, anche qui, tanto per fare un esempio.
Ripeto, sto elencando alla rinfusa idee sparse. Non sono un amministratore perciò non saprei dare organicità a queste idee. In breve si tratta di riutilizzare, riciclare, promuovere. Abbiamo un territorio così singolare, perché non viverlo e amarlo traendone anche sostentamento in modo equilibrato e sostenibile? Si creerebbe un senso di appartenenza vero, per cui i comportamenti abusivi e aberranti verrebbero immediatamente denunciati e – non oso sperarlo – derisi. Ragazzi, abbiamo le Alpi, abbiamo l’Etna, il mare e tante piccole isole meravigliose, i laghi, i parchi nazionali, grotte meravigliose. Parlo delle bellezze naturali perché nella mia esperienza lavorativa ho constatato che esse sono immediatamente apprezzabili da tutti, a prescindere dalla cultura di partenza, come se la bellezza naturale fosse l’unica vera bellezza “oggettiva”. Sì, non parlo di monumenti storici, dovrei? C’è bisogno davvero di nominare le nostre cento città d’arte, i siti archeologici, le cattedrali, le abbazie? Il nostro petrolio è la cultura, intesa nel senso più ampio e vero.

                                                                                                                 
                                                                                                        Marco Martorana

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