giovedì 11 aprile 2013

D'Alema, il re dell'inciucio che sogna il trono del Colle



Il leader democrat è rimasto fuori dal Parlamento e cerca i voti per il Quirinale facendo il doppio gioco. Ma è l'unico ex Pci che ha cercato di convivere con il Cav


Per anni, Massimo D'Alema si è considerato l'orchidea della politica. Oggi, quasi sessantaquattrenne, è approdato alla formula più umile che Giulio Andreotti applica a sé: «Poco se mi considero. Molto se mi comparo». Si sente il migliore ma senza l'ansia di dovertelo sbattere in faccia come prima.
Tanto che ha lasciato il Parlamento dopo un quarto di secolo, diradando interviste e interventi.
Eppure, ogni volta che riemerge fa capire che per lui il posto giusto è il Quirinale. Se chiacchiera con un giornale, chissà perché, una domandina sulla salita al Colle arriva sempre. In genere risponde: «Non spetta a me decidere» ma sottintende che sarebbe sacrosanto. Anche se parla d'altro in pubblici dibattiti, allude sempre alla sua successione a Napolitano.
È accaduto quattro giorni fa alla Direzione del Pd. Mentre il parterre tifava Bersani che faceva gli occhi dolci al M5S, D'Alema ha proposto un governissimo con il Pdl. «Non credo che possiamo rinunciare a fare un discorso sulla Destra e alla Destra. La Destra esiste...», ha detto. Aggiungendo: «Se in vent'anni in Italia non si sono fatti passi avanti è perché non si è fatto nessun compromesso con la Destra». Poiché, però, circolava voce volesse mettersi in vista per candidarsi al Colle e sentendo inoltre che la platea era contro l'alleanza col Pdl, ha prudentemente aggiunto: «Naturalmente, nulla di tutto ciò è possibile. L'impedimento è Silvio Berlusconi». Così, dopo avere lanciato il sasso, ritirava la mano. Fare un passo avanti e due indietro, è tipico di D'Alema. Questa intima viltà ne annulla l'originalità delle idee rispetto al pensiero unico del suo partito.
Max è il più togliattiano degli ex comunisti. Questo non è solo dargli del cinico alla Togliatti ma riconoscergli l'analoga capacità di uscire dagli schemi. Quando nel dopoguerra il Migliore inserì il Concordato nella Costituzione per garantire la pace religiosa, amnistiò i fascisti per promuovere quella civile, e calamitò le ex camice nere per farle diventare rosse, aprì sentieri non battuti, compiendo atti impensabili.
D'Alema, nel suo piccolo, ha fatto cosettine così. Quando nel 1997 si trovò la mina vagante di Totò Di Pietro che, uscito dalla magistratura, minacciava di aizzare la piazza (pescando tra la marea dei giustizialisti di sinistra), ci mise sopra il cappello e lo fece senatore nelle liste Pds. Una piratata per tenerlo sotto controllo. Poco importa che poi Di Pietro abbia continuato a essere una scheggia impazzita, Max aveva comunque provato a imbrigliarlo.
Da decenni, il demone dei sinistri è il Cav. D'Alema è stato il solo che ha tentato di conviverci. Una volta (2005) disse perfino che «Fininvest è un patrimonio del nostro Paese», quando per gli altri era solo l'emblema del conflitto d'interessi (e Bersani promette tuttora sfracelli al Biscione). Con la Bicamerale per le Riforme costituzionali - febbraio 1997, giugno 1998 - Max, che la presiedeva, si mise di fronte al Cav e teorizzò che «era una realtà del Paese con la quale era necessario confrontarsi». Un'ovvietà per gente sensata (avendo il Berlusca dieci milioni di voti), ma una bestemmia nel mondo alla rovescia della sinistra. Tanto che per quelle aperture, D'Alema fu preso di mira dai suoi. L'allora premier, Prodi, parlò di «Bicamerale del nulla»; il pm Gherardo Colombo, capofila delle toghe militanti, la definì «figlia del ricatto»; Sylos Labini, intellettuale organico, parlò di «responsabilità gravissime del leader dei Ds». Così, nonostante l'accordo sulla riforma della Giustizia e sul presidenzialismo, il Nostro fu preso da gran fifa per questi rumori di fondo e cominciò a cincischiare, finché tutto finì all'aria.
Portato per indipendenza intellettuale a rompere i tabù della sua cerchia, D'Alema non ha il fegato di andare a fondo. Questo lo omologa a un qualsiasi ciompo della politica e, per come la vedo io, lo rende disadatto a fare l'arbitro dal Quirinale. D'altra parte, ce lo vedete voi rivolgere un saggio discorso di fine anno, lo stesso tizio che ha trattato da «energumeno tascabile» Renato Brunetta e che - invocando a parole il rispetto delle Istituzioni - frombolava di improperi il suo premier: «Quelle di Berlusconi sono scemenze», Berlusconi dice solo bischerate», «È un trombone», «Porta iella»? È immaginabile che faccia il garante della libera stampa e riceva amabilmente i giornalisti sul Colle chi li ha apostrofati come «iene dattilografe» e che in tv sibilò ad Alessandro Sallusti, con toni alticci: «Vada a farsi fottere. Lei è un bugiardo e un mascalzone»? Se è così, si accomodi pure Beppe Grillo.
Messo poi alla prova, che ha fatto D'Alema come presidente del Consiglio, tra il 1998 e il 2000? Due cose, nessuna meritoria. Ci infilò (senza voto del Parlamento) nell'unica guerra dopo mezzo secolo, mandando l'Aeronautica a bombardare Belgrado. Poi si appassionò ai grandi affari, avallando la sottrazione della Telecom, che era pubblica, da parte di un avventuroso gruppo privato, quello di Colaninno e la «cordata padana». Un vorticoso giro di miliardi di cui Baffino fu il pivot e che suscitò l'ironia dell'ex parlamentare di sinistra e noto avvocatone, Guido Rossi, che definì il dalemiano Palazzo Chigi «l'unica merchant bank (una Goldman Sachs, per intenderci) in cui non si parla inglese».
Devo ricordare il «Facci sognare! Vai!» di Max via telefono al presidente di Unipol, Giovanni Consorte, che stava per fagocitare la Bnl per darla al partito su un piatto d'argento? O la tangente sottobanco di venti milioni avuta nel 1985 da Francesco Cavallari, il re delle cliniche pugliesi? Si seppe dieci anni dopo per ammissione di Cavallari al pm Alberto Maritati. Interrogato a sua volta, lo ammise anche Max e Maritati - che non lo poteva più perseguire per sopravvenuta amnistia - ne elogiò le «leali dichiarazioni». Fu carino da parte sua che, carineria per carineria, l'anno dopo divenne senatore del Pds.
E il rapporto di D'Alema con la verità, dove lo mettiamo? Quando nel 1995 Bossi abbandonò il Cav, D'Alema tentò di annetterlo dichiarando al Manifesto (31 ottobre): «La Lega c'entra moltissimo con la sinistra, è una nostra costola». Il 29 marzo del 2011, disse invece: «Mai detto che la Lega è una costola della sinistra, questa è una leggenda popolare». Tuttora, si ignora come abbia pagato l'Ikaro II, la sua barca. Ha detto nell'ordine che: era in comproprietà; aveva acceso un mutuo; era stata acquistata con la vendita dello scafo precedente, l'Ikaro I, e un appartamento ereditato. L'ultima è stata: ho avuto lo sconto, il costruttore me la voleva regalare perché gli facevo réclame ma ho insistito per pagare almeno metà prezzo. Vogliamo davvero una lingua biforcuta al Quirinale?

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