martedì 9 aprile 2013

Borsellino quater: la deposizione di Vullo, il poliziotto superstite








Scritto da Miriam Cuccu   


di Miriam Cuccu - 8 aprile 2013

Antonio Vullo, il poliziotto sopravvissuto alla strage di via d'Amelio in quel 19 luglio 1992, questa mattina è stato sentito in Corte d'assise nell'ambito del processo Borsellino quater.
Nel corso della sua deposizione Vullo ha ricostruito gli eventi che portarono i colleghi Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Emanuela Loi, Agostino Catalano e il giudice Paolo Borsellino di fronte all'ingresso numero 19, dove un'esplosione della potenza pari a 900 kg di tritolo pose fine alle loro vite.
“Quel pomeriggio, intorno alle 16 ci recammo nell'abitazione estiva del giudice, a Villa Grazia di Carini. Arriviamo in via d'Amelio e c'erano molte auto parcheggiate, a destra, a sinistra e al centro della carreggiata. Mi è sembrato strano che ci fossero tutte quelle auto. Borsellino ci supera con la sua macchina e si parcheggia al centro della carreggiata. Con l'auto di scorta ho superato il giudice, ho fatto scendere i componenti della mia auto e mi sono posizionato alla fine di via d'Amelio, vicino un muretto.” Il suo compito, infatti, era quello di posizionarsi ad un'estremità della strada per impedire l'accesso di altre auto. Non poteva immaginare, Vullo, che il pericolo si trovasse dall'altra parte, dietro quel muretto che delimitava una via senza uscita (dove era appostato il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, in attesa di premere il pulsante del telecomando). “Ho visto il giudice scendere dall'auto e i miei colleghi davanti al cancelletto dello stabile di via d'Amelio. Mentre spostavo l'auto per ripartire, ho visto i colleghi davanti al cancello e il giudice che stava per suonare”. L'autobomba era posizionata a soli due metri.
Alle 16,58 l'esplosione trasformò via D'Amelio in un inferno di guerra e morte: “Ho visto una nube, sono stato sballottato. Sono sceso dall'auto, cercavo aiuto, cercavo di dare aiuto. Era tutto buio, ho visto il corpo di un collega a terra. Mentre un collega delle volanti mi bloccava, mi sono ritrovato sopra il piede di un collega per poi ritrovarmi in ospedale. Le auto erano distrutte. In quel momento mi interessava trovare i colleghi, non potevo immaginare che i loro corpi fossero sparsi dappertutto”. L'esplosivo, noto come “Semtex-H” e contenente T4 e Pentrite, lasciò sul luogo dell'esplosione un cratere di oltre due metri di diametro. Palermo diventò nuovamente “simile a Beirut”, proprio come nove anni prima, quando il 29 luglio 1983 esplose l'autobomba in via Pipitone Federico, nella strage in cui perse la vita Rocco Chinnici.
Antonio Vullo, il poliziotto vivo per miracolo, ha sempre precisato di non essersi mai ritenuto un uomo “fortunato” per essere scampato alla morte quel giorno. E anche se certamente si è trattato di un miracolo, non c'è fortuna nel convivere con le immagini di quel 19 luglio: macchine incendiate, palazzi e corpi sventrati, mani, braccia, dita sparse ovunque insieme a vetri rotti. E il corpo del giudice carbonizzato, con un ultimo sorriso sulle labbra.
Nel processo volto a fare luce sui responsabili dell'eccidio sono imputati il boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, accusati di aver partecipato attivamente durante la fase preparatoria della strage. I falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci sono invece accusati di calunnia.
Vullo è il primo degli oltre trecento testi che l'accusa ha richiesto di convocare. I pm Domenico Gozzo e Stefano Luciani hanno inoltre stabilito che nel corso dell'udienza si proceda anche all'esame dei tre consulenti tecnici per chiarire il “mistero del blocco motore”, perchè foto e video girati in seguito alla strage dimostrano che quel blocco motore della 126 rossa usata secondo una perizia compare solo alle 13 del giorno dopo.
Nella giornata di domani le udienze proseguiranno con la testimonianza dei familiari del giudice Paolo Borsellino.

Miriam Cuccu (AMDuemila)

In foto: Via D’Amelio dopo l’attentato a Borsellino (© Lapresse)

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