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TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO
– 4 DICEMBRE 2012TRADUZIONE DI ITALIADALLESTERO.INFO
Meglio malati di cancro che disoccupati
Nel Sud Italia infuria una drammatica polemica attorno ad un’acciaieria: secondo un giudice questa avvelena lavoratori e abitanti della zona e per questo ne ha fermato la produzione. Eppure i lavoratori non vogliono perdere il loro posto. Ora interviene la politica.
Taranto si trova sul tacco dello stivale italiano ed è più antica di Roma di circa 1200 anni. Greci, Romani, Saraceni, Goti, Normanni, Spagnoli, Francesi hanno combattuto nella zona della città portuale che si affaccia sul Mar Ionio. Per secoli è stata considerata ricca e bellissima. Oggi è povera, in prevalenza brutta e inquinata. Secondo i medici il rischio di ammalarsi di cancro sarebbe più alto di qualunque altro luogo in Italia.
La presunta ragione la si può vedere appena si arriva a Taranto: un complesso industriale enorme, da 1000 ettari, con ciminiere e gru, altiforni neri per la fuliggine e cokerie, edifici grigi, finestre appannate e fumo qua e là. Sembra la Ruhr di mezzo secolo fa.
Circa 12.000 persone vi lavorano. L’azienda si chiama Ilva, appartiene alla famiglia Riva ed è una delle maggiori produttrici di acciaio in Europa, eppure non è tra le più moderne. L’azienda ha fama di aver fatto ammalare nel corso degli anni coloro che vi lavorano e che vivono nelle vicinanze attraverso le sue emissioni. Secondo l’organizzazione ambientalista Legambiente dalle ciminiere fuoriescono diossina e composti polimerici tossici, oltre a tonnellate di piombo e mezzo milione di tonnellate di monossido di carbonio. Minerali velenosi vengono dispersi nell’ambiente circostante attraverso le discariche tingendo le facciate e i tetti di rosso. L’Ilva è considerata la più grande discarica d’Italia.
La presunta ragione la si può vedere appena si arriva a Taranto: un complesso industriale enorme, da 1000 ettari, con ciminiere e gru, altiforni neri per la fuliggine e cokerie, edifici grigi, finestre appannate e fumo qua e là. Sembra la Ruhr di mezzo secolo fa.
Circa 12.000 persone vi lavorano. L’azienda si chiama Ilva, appartiene alla famiglia Riva ed è una delle maggiori produttrici di acciaio in Europa, eppure non è tra le più moderne. L’azienda ha fama di aver fatto ammalare nel corso degli anni coloro che vi lavorano e che vivono nelle vicinanze attraverso le sue emissioni. Secondo l’organizzazione ambientalista Legambiente dalle ciminiere fuoriescono diossina e composti polimerici tossici, oltre a tonnellate di piombo e mezzo milione di tonnellate di monossido di carbonio. Minerali velenosi vengono dispersi nell’ambiente circostante attraverso le discariche tingendo le facciate e i tetti di rosso. L’Ilva è considerata la più grande discarica d’Italia.
Cancro nel grembo materno
Su incarico del Ministero della Salute gli esperti hanno analizzato i casi di malattia e di decesso avvenuti tra il 2003 e il 2009. Risultato: i tassi di mortalità registrati attorno all’acciaieria sono ben oltre la media. Qui si registrano più casi di cardiopatie o tumori che nel resto del Paese. Nell’arco di 13 annisarebbero morte di cancro quasi 400 persone residenti nelle immediate vicinanze della fabbrica, soprattutto tumore ai polmoni.
Il capo di una clinica pediatrica lancia l’allarme: i bambini verrebbero alla luce già con il cancro, ereditato dalla madre. A Taranto il tasso di mortalità infantile sarebbe dal 30 al 50% più alto rispetto alla media della regione Puglia. Secondo gli esperti sarebbe indiscutibile la correlazione con le emissioni dell’acciaieria.
Anche per il giudice tarantino Patrizia Todisco il collegamento è evidente. Dopo anni di indagini preliminari alla fine di luglio la Todisco ha chiuso senza esitazioni una parte importante dello stabilimento. Neppure una grande acciaieria può “sottrarsi all’obbligo di anteporre la tutela della salute e dell’ambiente alle logiche dei profitto, portate avanti finora senza alcuno scrupolo e in modo cinico”, scrive il giudice nelle motivazioni della sua decisione. Il patriarca dell’acciaio Emilio Riva e suo figlio Nicola sono stati posti in custodia cautelare, che tuttavia possono scontare sotto forma di arresti domiciliari. Tutto questo ha portato non solo i proprietari dell’azienda, ma anche i lavoratori e persino i politici sul piede di guerra.
La famiglia Riva ha minacciato immediatamente non solo di mettere in discussione la sopravvivenza della fabbrica a Taranto, ma anche quella di due laminatoi nel Nord Italia. In altre parole: se la giustizia non si piega facciamo a pezzi tre grandi aziende.
Naturalmente questa minaccia non è passata in sordina tra i lavoratori, che sono scesi in strada per protestare contro la giustizia, bloccando la città e presidiando la fabbrica urlando slogan del tipo: “Meglio malati qui che affamati altrove”.
Da allora è sciopero selvaggio a Taranto: l’occupazione contro la salute; la perfida alternativa al cancro è la disoccupazione. I lavoratori e i dirigenti sono contro medici e madri, i politici attaccano la polizia, entrambi si scontrano in una guerra di competenze e limiti.
Il Premier italiano Mario Monti ha inviato subito tre ministri nella zona e il sottosegretario Antonio Catricalà ha annunciato un esposto del governo contro quanto sta accadendo in procura a Taranto. La tutela della salute è sicuramente importante, ma i magistrati non possono intromettersi nella politica industriale del governo, poiché Roma ha investito centinaia di milioni di Euro nella fabbrica e nell’eliminazione dei problemi ambientali.
Questo ha tranquillizzato talmente i lavoratori che i blocchi sono stati revocati. Ma fino ad oggi truppe di lavoratori sfilano regolarmente con i loro striscioni nel centro della città. “Conosciamo i rischi”, dicono. Molti hanno visto morire prematuramente dei colleghi. Altri hanno casi di cancro in famiglia. Eppure “abbiamo bisogno dei nostri posti di lavoro” al momento minacciati dalla crisi economica. La settimana scorsa la dirigenza ha reso nota la decisione di mandare a casa per 13 settimane fino a 2000 lavoratori a causa di continui problemi di vendita. Lo Stato paga una sorta di sussidio di disoccupazione ma questo non diminuisce la paura a Taranto. Se l’Ilva chiude si spengono i riflettori su una città da 200.000 abitanti.
E’ così. Il centro storico si trova in uno stato desolante, la sera è deserto. Soltanto un paio di giovani tatuati sfrecciano con i loro scooter lungo le vie scure e strette. La vita cittadina si limita alle strade dello shopping nella città nuova. Tuttavia anche questa sarebbe in pericolo se l’acciaieria dovesse chiudere. Molti fornitori verrebbero trascinati in questa spirale che costerebbe altri posti di lavoro persi. Più di due terzi del movimento merci del porto dipendono dall’Ilva.
Su incarico del Ministero della Salute gli esperti hanno analizzato i casi di malattia e di decesso avvenuti tra il 2003 e il 2009. Risultato: i tassi di mortalità registrati attorno all’acciaieria sono ben oltre la media. Qui si registrano più casi di cardiopatie o tumori che nel resto del Paese. Nell’arco di 13 annisarebbero morte di cancro quasi 400 persone residenti nelle immediate vicinanze della fabbrica, soprattutto tumore ai polmoni.
Il capo di una clinica pediatrica lancia l’allarme: i bambini verrebbero alla luce già con il cancro, ereditato dalla madre. A Taranto il tasso di mortalità infantile sarebbe dal 30 al 50% più alto rispetto alla media della regione Puglia. Secondo gli esperti sarebbe indiscutibile la correlazione con le emissioni dell’acciaieria.
Anche per il giudice tarantino Patrizia Todisco il collegamento è evidente. Dopo anni di indagini preliminari alla fine di luglio la Todisco ha chiuso senza esitazioni una parte importante dello stabilimento. Neppure una grande acciaieria può “sottrarsi all’obbligo di anteporre la tutela della salute e dell’ambiente alle logiche dei profitto, portate avanti finora senza alcuno scrupolo e in modo cinico”, scrive il giudice nelle motivazioni della sua decisione. Il patriarca dell’acciaio Emilio Riva e suo figlio Nicola sono stati posti in custodia cautelare, che tuttavia possono scontare sotto forma di arresti domiciliari. Tutto questo ha portato non solo i proprietari dell’azienda, ma anche i lavoratori e persino i politici sul piede di guerra.
La famiglia Riva ha minacciato immediatamente non solo di mettere in discussione la sopravvivenza della fabbrica a Taranto, ma anche quella di due laminatoi nel Nord Italia. In altre parole: se la giustizia non si piega facciamo a pezzi tre grandi aziende.
Naturalmente questa minaccia non è passata in sordina tra i lavoratori, che sono scesi in strada per protestare contro la giustizia, bloccando la città e presidiando la fabbrica urlando slogan del tipo: “Meglio malati qui che affamati altrove”.
Da allora è sciopero selvaggio a Taranto: l’occupazione contro la salute; la perfida alternativa al cancro è la disoccupazione. I lavoratori e i dirigenti sono contro medici e madri, i politici attaccano la polizia, entrambi si scontrano in una guerra di competenze e limiti.
Il Premier italiano Mario Monti ha inviato subito tre ministri nella zona e il sottosegretario Antonio Catricalà ha annunciato un esposto del governo contro quanto sta accadendo in procura a Taranto. La tutela della salute è sicuramente importante, ma i magistrati non possono intromettersi nella politica industriale del governo, poiché Roma ha investito centinaia di milioni di Euro nella fabbrica e nell’eliminazione dei problemi ambientali.
Questo ha tranquillizzato talmente i lavoratori che i blocchi sono stati revocati. Ma fino ad oggi truppe di lavoratori sfilano regolarmente con i loro striscioni nel centro della città. “Conosciamo i rischi”, dicono. Molti hanno visto morire prematuramente dei colleghi. Altri hanno casi di cancro in famiglia. Eppure “abbiamo bisogno dei nostri posti di lavoro” al momento minacciati dalla crisi economica. La settimana scorsa la dirigenza ha reso nota la decisione di mandare a casa per 13 settimane fino a 2000 lavoratori a causa di continui problemi di vendita. Lo Stato paga una sorta di sussidio di disoccupazione ma questo non diminuisce la paura a Taranto. Se l’Ilva chiude si spengono i riflettori su una città da 200.000 abitanti.
E’ così. Il centro storico si trova in uno stato desolante, la sera è deserto. Soltanto un paio di giovani tatuati sfrecciano con i loro scooter lungo le vie scure e strette. La vita cittadina si limita alle strade dello shopping nella città nuova. Tuttavia anche questa sarebbe in pericolo se l’acciaieria dovesse chiudere. Molti fornitori verrebbero trascinati in questa spirale che costerebbe altri posti di lavoro persi. Più di due terzi del movimento merci del porto dipendono dall’Ilva.
190 milioni di euro in compensi per consulenze ai proprietari
Evidentemente le autorità per decenni non hanno voluto vedere i danni provocati alla popolazione e all’ambiente dal colosso dell’acciaio. La giustizia li ha sicuramente appurati, ma l’Ilva semplicemente è andata avanti. Come se non bastasse, la politica ha dato il suo contributo: nel 2008, ad esempio, il governo presieduto da Silvio Berlusconi ha richiamato gli ispettori del Ministero dell’ambiente. Erano stati troppo severi con la fabbrica. Vale a dire che finora all’Ilva non sono stati installati quei dispositivi di misurazione delle emissioni di gas nocivi e delle particelle di fuliggine.
L’attuale governo vuole una soluzione che metta al primo posto naturalmente la salute dei lavoratori e della popolazione, mantenendo al tempo stesso la fabbrica e consentendole di produrre anche in fase di bonifica. Roma vuole stanziare a tale scopo 400 milioni di Euro. Inoltre sarebbero necessarie nuove perizie: i dati attualmente a disposizione non sono certi.
Anche i baroni dell’acciaio della famiglia Riva vogliono investire dei soldi e rendere la fabbrica umanamente vivibile e compatibile con l’ambiente. Del resto da anni non riceverebbero alcun dividendo dall’Ilva. Tutto ciò che è stato realizzato con quei dividendi sarà reinvestito, dicono.
Eppure stranamente, solo nel periodo tra il 2008 e il 2011, secondo il settimanale “L’Espresso”, una holding controllata da Emilio Riva, i suoi figli e nipoti, avrebbe ricevuto 190 milioni di Euro dall’Ilva per delle consulenze. I Riva, prosegue “L’Espresso” si sarebbero consultati con se stessi e per questo naturalmente sarebbero stati regolarmente pagati.
Evidentemente le autorità per decenni non hanno voluto vedere i danni provocati alla popolazione e all’ambiente dal colosso dell’acciaio. La giustizia li ha sicuramente appurati, ma l’Ilva semplicemente è andata avanti. Come se non bastasse, la politica ha dato il suo contributo: nel 2008, ad esempio, il governo presieduto da Silvio Berlusconi ha richiamato gli ispettori del Ministero dell’ambiente. Erano stati troppo severi con la fabbrica. Vale a dire che finora all’Ilva non sono stati installati quei dispositivi di misurazione delle emissioni di gas nocivi e delle particelle di fuliggine.
L’attuale governo vuole una soluzione che metta al primo posto naturalmente la salute dei lavoratori e della popolazione, mantenendo al tempo stesso la fabbrica e consentendole di produrre anche in fase di bonifica. Roma vuole stanziare a tale scopo 400 milioni di Euro. Inoltre sarebbero necessarie nuove perizie: i dati attualmente a disposizione non sono certi.
Anche i baroni dell’acciaio della famiglia Riva vogliono investire dei soldi e rendere la fabbrica umanamente vivibile e compatibile con l’ambiente. Del resto da anni non riceverebbero alcun dividendo dall’Ilva. Tutto ciò che è stato realizzato con quei dividendi sarà reinvestito, dicono.
Eppure stranamente, solo nel periodo tra il 2008 e il 2011, secondo il settimanale “L’Espresso”, una holding controllata da Emilio Riva, i suoi figli e nipoti, avrebbe ricevuto 190 milioni di Euro dall’Ilva per delle consulenze. I Riva, prosegue “L’Espresso” si sarebbero consultati con se stessi e per questo naturalmente sarebbero stati regolarmente pagati.
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