sabato 15 dicembre 2012

La Strage di Piazza Fontana


L incarcerato

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La Strage di Piazza Fontana: prima della bomba

Un mio piccolo Dossier che sarà a puntate per ricostruire gli eventi provocati dalla Strage e magari instillerà il dubbio in chi è convinto della verità processuale sulla morte di Pinelli, di Calabresi e delle condanne verso gli uomini di Lotta Continua. Ovviamente senza prove, ma ripercorrendo gli avvenimenti storici. Io, noi, possiamo dire "Io so, ma non ho le prove". Ma non i magistrati che senza prove hanno accusato e poi condannato. Prima del fatidico 12 Dicembre c'erano stati altri eventi di sangue. Ricordiamone alcuni: 
Prima del 12 Dicembre del 1969 era come se tutti si svegliassero da un lungo sonno: gli operai misero in discussione bruscamente la loro condizione, c'erano le contestazioni davanti ai cancelli; le rivendicazioni non erano soltanto sindacali ma politiche. 
Le dimostrazioni e i cortei, a spinte di centomila per volta, paralizzarono le città, le vaste azioni di volantinaggio che chiedevano la partecipazione di tutti, ai sit-in di operai in tuta, alle serrate, alle sospensioni, agli scioperi che, cominciati con quello generale del 25 settembre '69, si susseguono con ritmi precisi ai primi schieramenti di polizia armata davanti alle fabbriche. 

E tutto questo mentre, quasi a firmare un accordo di lavoro comune, per la prima volta gli operai entrano all'università, e si arriva allo sciopero generale in tutta Italia (15 ottobre), allo sciopero generale di Milano per il caro-vita con gran comizio di sindacati al Lirico; e la data è il 19 novembre, il giorno degli incidenti provocati dalla polizia e della morte di una guardia celere.

C'erano i movimenti extraparlamentari che portavano istanze nuove, facevano inchieste, si occupavano delle carceri. A Milano nel 1962 lo studente Ardizzone, ammazzato dalla polizia durante la manifestazione di solidarietà con il popolo Spagnolo; poi, nel 1966, c'era stata la morte di Paolo Rossi all'università di Roma e quindi l'eccidio dei braccianti uccisi dalla polizia ad Avola nel 1968 e i dimostranti vittime delle forze dell'ordine a Battipaglia l'anno seguente. 
Troppe rivendicazioni sociali, prima del 12 Dicembre, c'erano state. E questo timore da parte delle forze reazionarie non era nemmeno tanto velato, come non era velata "l'angoscia del colpo di Stato". Si percepiva nell'aria che dovesse accadere, prima o poi, il botto.

Gli strateghi della tensione stavano lavorando già a puntino; basta con questi operai che mandano alla rovina il paese, basta coi disordini, le pretese e gli ingorghi del traffico, basta col caos, non è ora di finirla con questi gruppuscoli extraparlamentari che si infiltrano nelle fabbriche, coi cattolici di sinistra che inquinano il governo? 

E si fanno ad alta voce e sui giornali i discorsi che si facevano da due anni più o meno sottovoce: ci vuole la mano forte, il pugno di ferro, l'uomo forte e, perché no?, i colonnelli. Al tempo dei fascisti certo non c'erano gli scioperi. Insomma il "caos" generale non prometteva nulla di buono per il Potere. E quindi serviva che bisognasse fermare tutto questo a qualsiasi costo.


Il novembre del '69 porta lo sciopero dei metalmeccanici a Roma, ma anche i primi arresti e le prime denunce: le denunce diluviano (erano quattordicimila in tutta Italia), mentre centomila erano i metalmeccanici che in piazza del Duomo protestano per l'arresto di quattro operai. Il 9 dicembre si firmò l'accordo tra il sindacato metalmeccanici e l'Intersind. 

Il 25 aprile 1969 gli anarchici sono accusati e poi assolti di vari attentati alla fiera di Milano. Un anarchico di nome Paolo Braschi (morto recentemente per un incidente stradale mentre era in bicicletta) testimoniò che venne invitato durante un interrogatorio dal commissario Calabresi a buttarsi dalla finestra.


E poi un maledetto pomeriggio di freddo, il botto, arrivò.

Il 12 Dicembre del 1969 la bomba scoppiò nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana, uccidendo diciassette persone (quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto. Non fu l'unica bomba che esplose: ma ve ne furono ben cinque anche a Roma. La Magistratura, con l'ausilio della famosa questura di via Fratebenfratelli, subito spinse le indagini verso la pista anarchica.

La Strage di Piazza Fontana: il "botto" (Seconda Parte)


Era quasi Natale. Era il 12 dicembre del 1969. E c'era un edificio, un palazzo che si affaccia su piazza Fontana ove risiedeva la Banca Nazionale dell'Agricoltura. 
Piazza Fontana stava (e si trova ovviamente tuttora) a metà strada tra via Festa del Perdono, caposaldo delmovimento studentesco e piazza San Babila, ritrovo dei gruppi giovanili fascisti. E poi, in piazza Fontana, nel '68, ci fu l'occupazione dell'albergo Commercio, proprio di fronte alla banca. Fu occupato dagli studenti ma anche da una miriade di associazioni. Venne sgomberato il 16 agosto 1969.
In via Larga ci fu l'incidente che provocò la morte di Annarumma, un giovane celerino che fu preso come simbolo dai fascisti e in qualche modo fu "la miccia" che fece azionare il detonatore. I reazionari reclamavano qualcosa. E quel qualcosa fu a sua volta la "spinta morale" che portò alla "soluzione finale" da parte degli strateghi della tensione
 
Il Potere, quel meccanismo composto da varie dentellature, si doveva in qualche modo "auto-conservare". D'altronde qualche giorno prima della strage, i quotidiani inglesi "The Observer" e "The Guardian" pubblicarono un documento interno del Servizio segreto greco (ricordiamo che in Grecia si era appena instaurato il regime dei colonnelli) nel quale si parla di una rete militare clandestina in Italiapronta a promuovere un colpo di Stato.

Ma ritorniamo a Milano.

La Banca era una di quelle grandi, aveva quasi trecento dipendenti. Era un venerdì quel maledetto giorno. E c'era un giovane funzionario, Fortunato Zinni (attualmente sindaco di Bresso) che suo malgrado divennel'unico testimone della strage

Quel giorno si trovava dietro lo sportello delle contrattazioni, ed erano passate da poco le 16 e 30 che lasciò lo sportello e salì al piano rialzato, quando udì il grande botto (uno solo, che qualcuno lo dica al giornalista Paolo Cucchiarelli che manda in giro l'ipotesi della doppia bomba per far riaffiorare quella “pista anarchica” sconfitta dalla storia) e si ritrovò disteso almeno cinque metri più avanti, verso la porta della saletta. E all'istante vide solo un gran buio.
Fortunato Zinni in seguito si adopererà nel seguiretutto l'iter del processo per la strage; ma rimarrà, come tutti i familiari delle vittime, deluso dall'esito. E scriverà un libro dal titolo eloquente:" "Piazza Fontana. Nessuno è Stato".

L'Autorità giudiziaria non ha concluso il suo compito anche se c'è stata la sentenza della Cassazione del 2005: i familiari delle vittime di piazza Fontana, con nuovi documenti e dichiarazioni spontanee, hanno diretto alla Procura di Milano una motivata richiesta diriapertura delle indagini. Eppure la Procura di Milano non ha in alcun modo risposto alla ri­chiesta dei familiari: è rimasta muta, non ha mandato alcun segnale di impegno anche se sarebbe costato poco.

La verità storica è chiara: la strage del dicembre '69 doveva essere il detonatore che avrebbe consentito a determinate autorità politiche e militari la proclamazione dello Stato d'emergenza. Per fortuna non è successo, per merito del Presidente Rumor che stranamente (e per fortuna) non la proclamò, ma accadde altro in compenso e lo capiremo nei prossimi capitoli.
 
Non fu l'unica bomba: un'altra fu posta (per fortuna inesplosa) alla Banca Commerciale di piazza della Scala. Quello stesso giorno ne scoppiarono altre tre senza per fortuna provocare altre morti, ma a Roma: una alla Banca Nazionale del Lavoro in Via Veneto, una vicina al Sacrario del milite ignoto e un'altra, sempre all'Altare della Patria, ma sui gradini che portano al Museo del Risorgimento.

Cinque bombe, ma solo una fece il massacrouccidendo diciassette persone (quattordici sul colpo) e ferendone altre ottantotto. 


Ma avrà l'effetto "collaterale" di provocare la diciottesima morte; ovvero quella di un anarchico ignaro, quel giorno maledetto, di tutto:Giuseppe Pinelli. E questa è una storia tutta da raccontare nel prossimo capitolo.


La Strage di Piazza Fontana: l’arresto dell’anarchico Pinelli (Terza parte)


Il 12 Dicembre del 1969 era (e lo sarebbe stata) una giornata come le altre per Giuseppe Pinelli. Di professione faceva il ferroviere, esattamente il caposquadra manovratore. Ma era qualcosa di più:era anarchico. E all'epoca, come oggi, professare tale idea e metterla in pratica (la figlia Claudia dice di lui "Per lui l'anarchia era un modo di vivere") equivale ad essere il capro espiatorio perfetto per i crimini del Potere.

D'altronde molti suoi compagni anarchici erano indagati sugli attentati al treno e quello alla fiera di Milano; e non importa che dopo qualche anno risultarono estranei ai fatti. Non importa tutto questo perchè le persecuzioni giudiziarie e poliziesche, sulle persone coinvolte, rimangono impresse sul corpo e la mente. A volte quelle persone finiscono anche di vivere.

Vorrei soffermarmi solo un attimo sul presente. Il sottoscritto (ho 30 anni, quindi siate clementi voi che quei tempi li avete vissuti sulla vostra pelle) che cerca attraverso la narrazione di riportare i fatti di quegli anni, ha un'unica presunzione: quella di far capire che il passato ci riguarda molto da vicino. I dati sono allarmanti: secondo alcune statistiche (Vedi "Anni di piombo. Sinistra e destra: estremismi, lotta armata e menzogne di Stato del Sessantotto a oggi") i giovani studenti, per il 50 per cento, ignorano chi fosse Pinelli. E vorrei tralasciare quelle sulla strage, pare che solo una piccola percentuale sappia bene di che cosa si tratti. E spero che non abbiano visto il film di Marco Tullio Giordana, ispirato dal libro di Cucchiarelli, perché avrebbero idee alquanto distorte dalla realtà dei fatti.

Eppure la storia di Pinelli ci riguarda da vicino. Molti giovani (ma anche meno giovani) obietterebbero che sono storie vecchie perché parliamo di decine e decine di anni fa. Eppure pochi sanno che ancora oggimolti anarchici finiscono in prigione, da innocenti. Basti pensare alle ultime operazioni giudiziarie di quest'estate. E non parliamo delle innumerevoli morti in carcere. Alcuni suicidi, altri invece omicidi mascherati da suicidi. C'è chi potrebbe obiettare che quindi pericoli del genere accadano solamente agli anarchici o alle persone impegnate: no, non è vero, può capitare a chiunque. Anche alla persona qualunque che capita in situazioni e posti o momenti sbagliati, oppure per l'essere tirati in ballo da altre persone. Accade, e poi sono tragedie umane vere e proprie. 

Ma soprattutto la Strage di Piazza Fontana e la caduta dalla finestra da quella maledetta stanza della questura ha modificato la storia di ognuno di noi, anche se siamo nati dopo, molto dopo. Quella strage è stata il segnale che nulla può cambiare senza il visto supremo del Potere. Leonardo Sciascia ci insegna che "un Paese senza memoria è un Paese senza futuro". Forse è da qui che dovremmo noi tutti partire. 

Ma ritorniamo a Pinelli. Lui ad esempio era uno di quegli uomini che contribuiva al miglioramento di questo maledetto Paese. Frequentava il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e soprattutto era uno che si adoperava per la rete della "Croce Nera Anarchica". Fu un'organizzazione che si adoperava per abolire il carcere e per dare assistenza ai prigionieri politici e anche detenuti comuni. Mi viene da dire che forse servirebbe ancor di più oggi, un' organizzazione (se così la si può chiamare) del genere visto che "a sinistra" si dimenticano i problemi di un sistema penitenziario e giudiziario che provoca orrore e prepotenza del Potere. Ma questo è un'altro annoso discorso.

Cosa fece, quel maledetto giorno, Pinelli? Riassumo brevemente tutto quello che ha fatto, ovvero il suo alibi poi (troppo tardi) riconosciuto come vero dalle future inchieste giudiziarie. Prima del 12 dicembre fa il turno di notte, per poi smontare alle 6 di mattina. Poi a casa a dormire. Dorme ancora quando, prima di mezzogiorno, viene Sottosanti

Lo riceve la moglie di Pinelli, Licia, che poi andrà a fare la spesa e a prendere le bambine (Silvia e Claudia) a scuola. Pino si alza e prepara il pranzo per tutti. Alle due esce con Sottosanti, prende il motorino e vanno al solito bar di via Morgantini.

Sottosanti poi va a ritirare un assegno di 15mila lire che Pinelli gli ha dato per ogni occorrenza, tornerà in Sicilia, da dove era venuto per rendere la sua testimonianza in favore di Pulsinelli (anarchico accusato per gli attentati ai treni, e poi ovviamente scagionato) e Pino si ferma a giocare a carte fino alle cinque-cinque e mezza. Ricordiamo che stiamo parlando del giorno della strage e la bomba era da poco scoppiata.

Poi va a riscuotere la tredicesima alla stazione di Porta Garibaldi, passa dal circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa, dove scambia due chiacchiere e scrive una lettera a un giovane anarchico in carcere. Pensate gli scherzi del destino. Aveva scritto la lettera al giovane anarchico Paolo Faccioli, accusato dal Magistrato Amati per l'attentato della fiera di Milano: lo stesso Magistrato che archiviò in fretta e furia la morte di Pinelli come "accidentale". Immaginate l'obiettività.

Ma per capire ancora meglio chi fosse Pinelli, è meglio leggere la lettera in questione:


Caro Paolo,
rispondo con ritardo alla tua, purtroppo tempo a disposizione per scrivere come vorrei ne ho poco: ma da come ti avrà spiegato tua madre ci vediamo molto spesso e ci teniamo al corrente di tutto. Spero che ora la situazione degli avvocati si sia chiarita.
Vorrei che tu continuassi a lavorare, non per il privilegio che si ottiene, ma per occupare la mente nelle interminabili ore; le ore di studio non ti sono certamente sufficienti [sic!] per riempire la giornata.
Ho invitato i compagni di Trento a tenersi in contatto con quelli di Bolzano per evitare eventuali ripetizioni dei fatti. L’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo nemmeno subirla: essa è ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese, ora speriamo che lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a comprendere il comportamento dei magistrati nei vostri confronti.
Siccome tua madre non vuole che ti invii soldi, vorrei inviarti libri, libri non politici (che me li renderebbero) così sono a chiederti se hai letto Spoon River, è uno dei classici della poesia americana, per altri libri dovresti dirmi tu i titoli.
Qua fuori cerchiamo di fare del nostro meglio, tutti ti salutano e ti abbracciano, un abbraccio in particolare da me ed un presto vederci
tuo Pino.

Dopo aver scritto la lettera, alle 18 e 40 arriva all'altrocircolo anarchico di via Scaldasole dove, insieme al suo compagno Sergio Ardau, viene fermato daCalabresi e la sua pattuglia. Pinelli li segue con il motorino e varca il quarto piano di un edificio mastodontico: la questura di via Fatebenefratelli. E' da quegli uffici, tra l'altro, che erano coordinate le indagini sulla strage. Ed è da lì che accade un'altra tragedia. Da lì entra un anarchico innocente, per poi uscire dalla finestra.

La Strage di Piazza Fontana: il "volo" di Giuseppe Pinelli (Quarta Parte)


Prima di addentrarci nell'interrogatorio di Pinelli, dobbiamo aver presente un fattore di non poco contro.Siamo nel 1969, sono passati pochi decenni dalla liberazione. Il nazifascismo fu sconfitto, ma i vertici delle forze militari, di polizia e giudiziarie, erano comunque occupati ancora da fascisti non pentiti.

Importante saperlo, solo così possiamo capire l'accanimento che c'era stato verso Pinelli prima, eValpreda poi. Il capo della questura di Milano eraMarcello Guida, il commissario capo era Antonino Allegra e il commissario aggiunto era Luigi Calabresi.

Marcello Guida, durante il fascismo, fu il direttore del carcere per i detenuti politici di Ventotene. Era un uomo feroce, senza scrupoli. E ce lotestimonia proprio Sandro Pertini:
"Per rivedere mia madre accettai di andare a Savona. Rivedevo la mia città dopo tanti anni (era, ricordo, una giornata di sole) di dura separazione. Giunsi al carcere e venni chiuso in una cella. Dopo circa un'ora vennero a prendermi e mi condussero in una stanza dove il capoguardia con alcuni agenti mi aspettava". "Ora" disse "potrete rivedere vostra madre". "Mi sembrò che il cuore cessasse di battere. Essa apparve all'improvviso: piccola vestita di nero, bianchi i capelli e il volto. L'abbracciai. Piangeva, e fra le lacrime andava ripetendo il mio nome. Dovetti fare forza per non dare alle guardie che ci sorvegliavano un segno di debolezza. Ma il cuore mi faceva male, pareva spezzarsi. Parlammo di tutto e di niente, notizie sue e della mia vita di confinato. Il capoguardia interruppe bruscamente il colloquio, vidi mia madre allontanarsi curva. Tornai in cella senza toccare cibo, pensando a mia madre. Al mattino vennero a prendermi, speravo in un nuovo incontro con lei, ma i carabinieri erano venuti a prelevarmi per ricondurmi a Ventotene. Protestai, inutilmente. Alla stazione un gruppo di facchini mi attendeva, si levarono il berretto e, tenendolo in mano, si avvicinarono in silenzio esprimendomi con gli sguardi la loro solidarietà. Il più anziano dei facchini mi prese la valigia "Ci penso io Sandro" disse in dialetto. Il maresciallo lasciava fare. Arriva il treno, due facchini mi aiutano a salire perché ammanettato, mi volto: gli altri sono sempre col berretto in mano, fermi, muti. Il più anziano sistema la valigia, mi mette la mano sulla spalla: "Buona fortuna Sandro, tutti ti salutano". "Si volta bruscamente e si allontana singhiozzando"
E proprio Sandro Pertini,dopo la strage di Piazza Fontana, da Presidente della Camera dei deputati, andò a Milano, incontrò l'allora questore Marcello Guida, ma rifiutò di stringergli la mano. Se lo ricordava benissimo quando, da direttore del carcere, applicava con severità i già duri regolamenti.

Ho voluto raccontare anche questo aneddoto per far comprendere che l'obiettività e l'imparzialità era (e lo è, ahimè,ancor oggi) un lusso. Calabresi, quando invitò Pinelli a seguirlo in questura, aveva già le idee "chiare": erano stati gli anarchici a mettere la bomba e Pinelli era coinvolto.

Ma bisogna anche dire che la convinzione sua (e dei suoi colleghi) era suffragata dall'allora giudice istruttore Amati. Bisogna dirlo e mai dimenticarlo: tutte le operazioni di polizia sono sempre condotte assieme al Magistrato di turno (vedasi gli arresti odierni dei NO TAV). E quel magistrato era colui che indirizzò tutte le indagini verso la pista anarchica anche per le stragi precedenti come le bombe alla Fiera di Milano e alla Stazione Centrale della città.

Il Giudice Amati poi sarà colui che accoglierà senza indugi la conclusione affrettata del PM Caizzi per la morte di Pinelli: ovvero "suicidio accidentale".

Giuseppe Pinelli fu portato in questura e subì un interrogatorio inumano. Anche all'epoca, come oggi, non esisteva il reato di tortura. Peccato. Se la legge sulla tortura ci fosse stata, sarebbero stati condannati anche per non averlo fatto mangiare e dormire per tre giorni consecutivi. Invece alla fine saranno condannati solo (cosa ovviamente di non poco conto) di aver trattenuto illegalmente Pinelli per tre giorni di fila. E probabilmente anche oltre se non fosse "caduto" dalla finestra.

Nella notte fra il 15 e il 16 dicembre, Pinelli subiva l'ennesimo interrogatorio. Si trovava in quella maledetta stanza assieme al commissario Calabresi, i brigadieri Panessa, Mainardi, Mucilli, Carcuta e anche un ufficiale dei Carabinieri, il tenente Sabino Lograno. Nel corridoio c'era anche un altro anarchico fermato:Pasquale Valitutti.

Quella notte, secondo la testimonianza degli stessi uomini presenti, ad un certo punto Calabresi sarebbe uscito dalla stanza per portare il verbale dell'interrogatorio di Pinelli al suo capo Allegra. Ed un attimo dopo Giuseppe Pinelli volò dalla finestra. Ma anche a tanti anni di distanza, l'anarchico Valitutti, dice esattamente il contrario:
"Da questo corridoio passano, portando Pino, Calabresi e gli altri, e vanno nella stanza vicino. Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno è più uscito. Io ve l'assicuro, era notte fonda, c'era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. Dopo circa un'ora che lui era in quella stanza, che c'era Pino in quella stanza, che non avevo sentito nulla, quindi saranno state le 11 e mezzo, grosso modo, in quella stanza succede qualcosa che io ho sempre descritto nel modo più oggettivo, più serio, scrupoloso, dei rumori, un trambusto, come una rissa, come se si rovesciassero dei mobili, delle sedie, delle voci concitate"
In un'intervista di qualche anno fa, l'ex giudice (ora senatore, e non perdete di vista il suo legame politico perchè sarà un elemento per affrontare il ruolo del Partito Comunista che ebbe in quegli anni) che archiviò la caduta di Pinelli a causa del "malore attivo", disse : "Poi, ottenni un’altra prova sull'innocenza di Calabresi”. "Quale?" Domanda il giornalista. “La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli cadesse”.


E acutamente, Adriano Sofri, nel suo libro "La notte che Pinelli" scrive: "Se alla sua memoria tradita la testimonianza scagionatrice di Valitutti appare così importante, deve esserlo un po’ anche nella sua versione autentica."



http://www.tzetze.it/2012/12/la-strage-di-piazza-fontana-il-volo-di-giuseppe-pinelli-quarta-parte.html

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