lunedì 3 dicembre 2012

Il "fare" come volont` di cambiamento


A mio parere grande articolo.
Ringrazio poetidazione per avermelo fatto conoscere.
Invio mio passato pensiero che seppure breve mi sembra pertinente.
E' morto il
verme verde
nella
rosa rosa.
Anna Laura Serra


poetidazione <poetidazione@poetidazione.it> wrote:
Il "fare" come volontà di cambiamento di Luigi Nacci

Sono stato gentilmente invitato a dire qualcosa a proposito della
vecchia disputa ruotante attorno a quel filo che lega - o
sembrerebbe legare - il Teatro alla Poesia. Sono lusingato, quindi,
di poter affiancare il mio pensiero a quello di voci molto più
autorevoli della mia.

***

Fabio Doplicher scrive nell'introduzione all'antologia-catalogo da
lui curata in occasione del Convegno Internazionale Il teatro dei
poeti svoltosi a Roma al Teatro Sala Umberto nell'aprile del 1987
(Il teatro dei poeti, C.T.M., Roma, 1987): «I sostenitori di un
teatro assoluto considerano la poesia come un elemento narrativo;
quindi non scenico. Ma la staticità non è sinonimo della parola;
anzi, un certo ritorno alla parola, con tutte le ambiguità che
possono avere le mode, dipende anche da un effetto di saturazione
che ha l'immagine». Sono passati quasi quindici anni ma credo che
l'affermazione del poeta e drammaturgo triestino possa ancora
rappresentare un buon punto di partenza per un'analisi approfondita
del tema in questione. Anzi, probabilmente è soprattutto a causa di
questa saturazione che si può parlare - e se ne parla apertamente
anche in ambiente accademico - di una rinascita della poesia in
questi ultimi anni.

Vorrei allargare il campo di indagine. Se in Italia - e in
particolar modo a Trieste - c'è stata un cosiddetta rinascita della
poesia - oppure solamente riscoperta, riacquistata visibilità? - in
altri paesi a noi vicini il primato della poesia nel '900 non è
quasi mai stato messo in discussione. Penso ai paesi della fascia
mittleuropea - Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria - e a quelli
dell'Est - la Russia su tutti. In particolare vorrei soffermarmi
sull'Ungheria, giacché da diverso tempo vivo lì per motivi di studio.

La prima fonte di meraviglia è stata la scoperta dell'esistenza di
diversi gruppi musicali - di generi differenti e composti per lo più
da giovani - che scelgono come testi per le proprie melodie poesie
di autori ungheresi.
La seconda fonte di stupore è stata scoprire che questi gruppi
musicali spesso si esibiscono in concerti ai quali accorrono molti
giovani, concerti che si tengono nei locali più disparati, e lo
sottolineo per mettere in evidenza il fatto che - contrariamente a
quanto si potrebbe pensare - i luoghi privilegiati di queste
performance non sono "sacri", ovvero né teatri né circoli culturali.
La scelta del luogo viene fatta principalmente in base a necessità
di spazio e non di scelta ideologica. Sono quei ragazzi che
irradiano di sacralità i luoghi e non viceversa, o che addirittura
trasformano quelli che Augè ha chiamato "non-luoghi" in luoghi,
grazie alla forza magica della parola poetica che porta con sé il
messaggio dell'uomo e della Storia. Perché sia chiaro, la poesia
ungherese dalle origini è soprattutto poesia sociale, di forte
contenuto umano, a partire da Balassi Bàlint passando per Petofi
Sàndor fino alle voci più vicine di Jòzsef Attila e Radnòti Miklòs,
è il canto che incita il popolo magiaro a non cedere mai, a
resistere, anche dopo la tirannia della Chiesa, dei Turchi, degli
Asburgo, della dittatura fascista prima e di quella comunista poi.
E' un caso che un paese - forse l'unico al mondo - che ha perso
tutte le battaglie e le guerre della propria storia e sia stato
assoggettato sempre, in una maniera o nell'altra, dal suo arrivo in
Europa prima dell'anno mille, abbia un rapporto così visceralmente
forte - almeno rispetto all'Occidente europeo - con la poesia?

È un caso che anche negli anni più duri della propria storia quella
gente, e per gente intendo la massa di persone che sta attorno al
circolo dei pochi addetti ai lavori, abbia comprato i libri dei
poeti, le riviste di poesia, abbia imparato quelle poesie? Ed è un
caso che in Italia, come in paesi a noi simili per cultura, ciò non
avvenga e non sia avvenuto? C'è un collegamento tra la
sperimentazione linguistica nella poesia italiana degli anni '60
e '70 e la perdita di interesse da parte del pubblico? C'è un
collegamento tra la spettacolarizzazione e la teatralizzazione della
poesia negli anni '70 e quella poesia incentrata sulla
sperimentazione del linguaggio? Cito nuovamente Doplicher: «Occorre
vera sperimentazione, non gioco con le parole. Il salotto borghese e
la comune rivoluzionaria sono ipotesi del passato; se ci sono poche
speranze a questo mondo, tocca a noi inventarle, ma nelle cose, non
nel gioco della pagina, arido e gretto». Credo che quel modo di far
poesia, da "grammatici" - Zanzotto stesso ha affermato in
un'intervista di considerarsi più che altro un botanico delle
grammatiche - da linguisti, abbia provocato un gap, una frattura tra
l'artista e il pubblico e credo che si sia ricorsi al teatro per
tentare di colmare quel vuoto.

Ma se il rapporto tra teatro e poesia si fonda sull'attenzione per
la parola in tutte le sue possibili emanazioni, come può essere
questo rapporto onesto e proficuo se il nodo di quel legame è
debolmente formato dall'intreccio non di funi ma di fili invisibili?
Pasolini, in Affabulazione, ha detto che « nel teatro la parola vive
di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché
essa è, insieme, scritta e pronunciata». Ma quale gloria per una
parola vuota? Grotowski ha detto in un'intervista rilasciata nel
1967 (questa e le altre che citerò sono raccolte in Per un teatro
povero, Mario Bulzoni Editore, Roma, 1970): «Per me, creatore di
teatro, le parole non sono importanti; per me, la sola cosa che
conti è ciò che si può ricavare da queste parole, ciò che dà vita
alle parole inanimate del testo, e le trasforma in "Verbo"».

Allora la domanda che sorge è la seguente: deve essere la parola a
genuflettersi di fronte al sistema-Grotowski o il sistema Grotowski
di fronte alla parola? E quale parola, quella ridotta a puro
significante? È chiaro che la nostra posizione è nettamente dalla
parte del Significato, del Messaggio che utilizza la parola per
poter espandersi. «Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre
cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del
teatro» dice Artaud in Basta con i capolavori e questo è uno dei
messaggi che potrebbe passare, ma ne potrebbero passare altri,
all'infinito. L'importante è che questo passaggio avvenga, che il
Messaggio arrivi, e che colpisca lo spettatore, che lo inchiodi al
suo posto - posto a sedere, in piedi, non importa - che lo faccia
provare un'emozione e allo stesso tempo generi in lui una
riflessione. E non devono essere separati l'uno dall'altro questi
due momenti: irrazionale e razionale devono mescolarsi assieme,
l'uno indispensabile all'altro. Ecco perché il Teatro ha bisogno
della Poesia e viceversa. Perché la poesia, come dice Paolo Ruffilli
nell'antologia curata dal Doplicher, «anche se è fatta per essere
scritta (secondo non tanto una tradizione ormai plurisecolare, ma
una discriminante categoriale vera e propria), nella sua dimensione
di scrittura la poesia conserva (deve conservare) tutto il suo
sviluppo di "pronuncia"» perché, continua: «il libro in generale, e
quello di poesia in particolare, è anche una scatola sonora». La
poesia ha racchiuso in sé il duplice seme della sua essenza: scritto
e orale, memoria fedele al tempo e mito da tramandare a voce, ed ha
bisogno di far sprigionare il suo suono per liberare la completezza
della sua energia. E perché dunque non far scaturire questa forza
nel teatro, il luogo deputato all'amplificazione dei suoni, dei
gesti, dei sentimenti, in sostanza, dell'uomo? Sempre in
Affabulazione Pasolini ha detto che «l'uomo si è accorto della
realtà solo quando l' ha rappresentata. E niente meglio del teatro
ha mai potuto rappresentarla». Se a questa uscita pasoliniana
aggiungiamo gli ultimi versi ungarettiani di Commiato:

Quando trovo
n questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

possiamo finalmente focalizzare il punto d'incontro tra teatro e
poesia, partendo da una considerazione di carattere etimologico: se
il greco poiein significa "fare" e il greco drama
significa "azione" - un'azione, un fare che origina la parola e che
da essa stessa viene originato - allora ci rendiamo conto di quanto
sia forte sia nella parola poetica che in quella teatrale la
pulsione al movimento, alla dinamicità, come se alla base di ambedue
ci fosse la sottesa volontà di andare verso qualcosa o qualcuno, di
fare da ponte, senza però smettere di essere in movimento, come se
l'esplorazione in profondità dei diversi livelli di realtà che le
connota non potesse mai esaurirsi, nemmeno nel lettore o nello
spettatore, anzi, dovesse oltrepassare sonoramente, visivamente,
epidermicamente e mentalmente il fruitore per poi tornare sul palco
e continuare il suo incessante divenire in una sorta di andamento a
spirale crescente.

E se ci soffermiamo sulla valenza etimologica non possiamo fare a
meno di osservare il "fare" come volontà di cambiamento, come
possibilità di inventare le speranze nelle cose e non nel gioco
gretto della pagina, citando nuovamente, ma con più cognizione di
causa, il Doplicher. «Non c'è altra poesia che l'azione reale...» ci
conforta Pasolini in Poeta delle Ceneri, e un'affermazione del
genere presuppone incontestabilmente un modo di poetare conscio
della susa stessa essenza e dunque una poesia che ha bisogno, per
esplicitare questa sua tendenza implicita, di un luogo adatto a
questa azione e simultaneamente di qualcuno che all'interno di
questo luogo sia egli stesso adatto a farsi da tramite.

Il punto che si presenta ora è: questo qualcuno è l'attore
professionista, il poeta, o l'uomo qualunque? O qualcos'altro di cui
ancora non riusciamo a tracciare distintamente i contorni? Cesare
Milanese, nell'antologia del Doplicher, a proposito della
declamazione di poesie in teatro: «Ogni prova a cui il testo venga
sottoposto è buona. Spetta a chi ascolta approvare o disapprovare.
In queste prove non teatrali l'autore si salva sempre. Per quanto la
sua voce possa risultare tonicamente "sgrammaticata" e sbagliata,
essa comporta sempre un dato di verità, quello del possedere un
ritmo corporeo che conosce la pulsione da cui la poesia si è
generata». Ha ragione Milanese oppure dovremmo seguire le
indicazioni del Grotowski quando dice che «lo spettatore deve essere
circondato dalla voce dell'attore come se questa provenisse da ogni
direzione e non soltanto dal posto dove l'attore si trova. Persino i
muri devono parlare con la voce dell'attore»? L'autore sgrammaticato
oppure l'attore grammaticato? Oppure qualcos'altro?

Il Premio Nobel Dario Fo afferma, nella "Quinta giornata" del
Manuale minimo dell'attore, che il modo di leggere dei poeti provoca
la fioritura nel ventre di «vermi di una spanna» però poi aggiunge,
rivolgendosi ad un immaginario aspirante attore: «Quando imparate un
testo cercate di ritradurvelo prima con parole vostre, e poi nel
vostro dialetto, se ne avete uno. È una grande sfortuna per un
attore non possedere un dialetto come fondo alla propria
recitazione. Ho conosciuto attori che ne erano privi: dicevano le
battute proiettando fonemi piatti, asettici, e senza nessuna
musicalità nei toni e nelle cadenze». Nel dialetto per Fo - e noi
non possiamo che concordare con lui - «le cadenze e i respiri, le
parole, le costruzioni grammaticali sono autentiche, non c'è niente
di costruito». Eccoci al nodo della questione. La Poesia è fare
autentico o dissimulato? Il Poeta è un fingitore come scrive
paradossalmente Pessoa in una delle sue più celebri poesie oppure un
cactus spinoso / di malumore come scrive il nostro Penco in Il
cactus, nella mirabile raccolta che va sotto il titolo di Ballate
dal Mary Celeste? «Perché fare poesie è una battaglia ogni giorno /
con il comune senso del pudore, / perché fare poesie non è un tic
nervoso» secondo Penco, e noi concordiamo a pieno con lui quando
raffigura il poeta come un umile e buffo personaggio - un Perdente,
come mi ha raccontato personalmente in una conversazione qualche
tempo fa - che è costretto a lottare, donchisciottianamente, ogni
giorno per tirare fuori quella parola che, se in parte lo
alleggerirà, d'altra parte lo renderà ancora più curvo e disilluso.

«Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma
c'è sempre / qualche peso di troppo, non c'è mai / alcun verso che
basti / se domani tu stesso te ne scordi»: la poesia I versi, tratta
da Gli strumenti umani di Sereni, illustra bene questo sforzo che
sta alla base della condizione del poeta e sarebbe non solo assurdo
da parte nostra situare nello spazio dell'Inautentico questa
attitudine esistenziale, ma anche illogico, giacché significherebbe
attribuire una fondamentale pulsione masochistica alla psicologia
dei poeti e una volontà di utilizzare la parola per secondi fini.
Nessuno si diverte a lottare contro i mulini a vento dopo aver
scoperto che non sono giganti, soprattutto se questa lotta non
frutta, come nella maggior parte dei casi, né fama né denaro. La
letteratura ungherese esalta la figura del poeta umile e povero - il
celebre verso conclusivo di Attila Jòzsef in Sette giorni: Amici, da
sette giorni non mangio - che combatte per la dignità del suo popolo
e gli insegna anche ad accettare la rassegnazione, il valore della
sconfitta, della diversità. Il 2 novembre 1956, a Budapest, durante
i giorni della Rivoluzione contro i sovietici, fu il famoso poeta
Gyula Illyès a declamare alla radio l'ode intitolata Una frase sulla
tirannia, e lo fece, stando alle cronache, con voce alquanto
tremante all'inizio. Ma quella lettura sgrammaticata e pericolante
non ha forse rispecchiato la sua anima, quella stessa anima in cui
quei versi, anche sonoramente, erano stati concepiti? E non hanno
forse incitato alla lotta e alla resistenza e alla speranza quella
voce tremebonda e rabbiosa, quella dizione imperfetta, quella
lettura da far crescere i vermi nello stomaco? Sarebbe stato meglio
sostituirlo con un attore che quei versi avrebbe dovuto
inautenticamente tentare di trapiantare in se stesso per farli
germogliare con un ritmo e una musica nuovi?

In un paese come l'Ungheria il '900 è stato un secolo in cui il
potere - fascista, comunista - ha monopolizzato il linguaggio e ha
strumentalizzato le immagini per dare al popolo una rappresentazione
fittizia della realtà. La risposta del popolo è stata in termini di
vite da una parte, e in affermazione di pienezza di parola
dall'altra. Contro la retorica dei regimi, contro il bavaglio, i
poeti - e solo in parte i drammaturghi - hanno risposto con la
parola pregna, non ermetica, con il messaggio forte. Una commedia di
uno dei più celebrati scrittori magiari del '900 - Orkèny Istvàn -
intitolata Scenario mostra la forza deformante della pubblicità
sovietica negli anni '50 e inscena la storia in un circo, l'unico
luogo che in quel periodo sfuggiva alla censura e al controllo,
dimostrando la spettacolarizzazione assurda e spietata che quel
potere aveva imposto. Tuttavia il paradigma del poeta che legge i
propri versi alla radio contro la tirannia nel momento stesso della
rivolta dovrebbe far pensare. Fare non si deve tradurre con agire
concretamente per modificare materialmente la realtà, bensì con
tensione che permetta di avere costantemente uno sguardo vigile,
umilmente sensibile e rivolto alle possibilità di cambiamento né
dimentico di ciò che potrebbe perdere. Uno stare all'erta dinamico
che garantisca la formazione di quello stato interiore in cui si
possano fondere assieme, non mescolandosi, pensiero razionale e
emozione.

Che fare praticamente? Semplicemente togliere l'aura di sacralità
che circonda il teatro così come la poesia, evitare i settarismi,
destrutturare le pseudo-bibbie del settore che propongono tecniche
impareggiabili per conseguire il massimo risultato nel campo della
scrittura e della recitazione, incoraggiare la diffusione della
modestia presso gli attori e i poeti, aspiranti o spiranti che siano.

Concludo portando queste riflessioni di Doplicher, tratte dalla
solita antologia: «Rivendicando alla poesia un primato nel campo del
pensiero, non si rinuncia all'emozione, all'immagine, a ogni
possibile traduzione del sensibile, come d'altronde ogni
poesia "classica" (compresa la classicità dell'avanguardia storica)
ha fatto; ma così la poesia viene messa al riparo dai due pericoli
maggiori che oggi corre: quello di diventare ancor di più campo di
esercitazione per i grammatici che si chiudono in una artistica
dissezione del linguaggio, e quello di proporsi, nella accezione
comune e nella pratica "media", come l'ultimo dei mezzi di
comunicazione di massa, trasformandosi, insomma, nella subalternità
del significante, da Cenerentola a prostituta».

Tratto dal sito: http://www.letteratour.it/teorie/A05po_tea01.htm


www.poetidazione.it










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