martedì 4 dicembre 2012

Faranews 28

Carissime/i eccovi il nuovo Faranews (nel nostro sito la versione grafica e con i link attivati).

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FARANEWS ISSN 1590-8585
Mensile di informazione culturale a cura
di Fara Editore http://www.kaleidon.it/fara/faranews/nuovo.shtml

Numero 28
Aprile 2002

Editoriale: I verbi del guardare


Iniziamo con lo sguardo passionale e la prospettiva di un culo di bottiglia in Così l'amore, continuiamo con la visione allegoricamente fantastica di Ridvan Dibra, proseguiamo con Tre variazioni su un campo di calcio e il voyeuristico Solo per adulti.
Paola Turroni ci proietta nel Garage Olimpo.
La recensione a Taglio intimo e la segnalazione di alcuni siti interessanti chiudono il numero. Buona Pasqua!


Così l'amore

(di Fabrizio Chiappetti)

Ti adoro in silenzio
con la gioia
dello sguardo

tu che mi vedi
solo diverso

vorrei finirlo questo tempo
consumarlo tutto
dentro di te
nei tuoi occhi,

e nelle piccole mani
bianche

ardere e spegnersi
come una fiamma
lieta di brillare
e di sciogliere le tenebre.

Così, la luce.
Così, l'amore.
Tutto è zero

Tutto è zero
disse l'ultima goccia
esiliata dal mio
bicchiere, bruciandomi la
gola

anche la nuvola
imprendibile, nel cielo
la giovinezza ciclica
dei prati e degli alberi,
bozzoli e cadaveri

anche il piano cartesiano,
le linee materiali
in costruzione o in
corruzione, gli angoli
i tetti e le strade
sepolte dal buio
o travolte di luce

il mio battito
tenero, indifferente
lo sento scandire
questa follia di attimi
persi, finiti in fondo
a un culo di bottiglia

i sogni, le carezze non
date, parole sussurrate
solo per gioco o per delirio
crudele: tutto è zero

è la verità che vedo
dal mio culo di bottiglia

tutto è zero
grido a vuoto
dal mio culo di
bottiglia.

(da La clessidra e la rosa, MUSINF, Senigallia, 2002, tiratura limitata a 50 copie con un'acquaforte di Giordano Perelli)

La pesca

(di Ridvan Dibra)

Era da nove giorni che si gettavano le reti e all'alba, quando si tiravano, erano quasi vuote. Dentro c'erano soltanto erbacce e due-tre pesci molto piccoli che poi scivolavano giù dai buchi proprio come le idee da un cervello infuocato e malato.
Il decimo giorno, un vento furioso venne dalla città nelle Terre dei Pescatori. Il cielo si scarabocchiò di lampi e la tempesta mescolò le viscere del lago. I pescatori presentirono una buona pesca e si affrettarono a gettare le reti.
All'alba dell'indomani portarono con loro anche i figli, convinti ormai che le reti sarebbero state piene. Ma forse si erano sbagliati: le reti erano più leggere che mai e i pescatori si pentirono di aver portato i figli.
Quando tornarono a riva, aprirono le reti. Rimasero stupefatti. Nelle reti era caduta una preda davvero curiosa, mai vista e mai pescata prima. Nei fili delle reti s'erano impigliati degli oggetti come gomitoli, poco più grandi di un pugno e che emettevano una luce fioca.
­ Sono meduse ­ disse il più giovane dei figli.
­ Imbecille ­ replicò il pescatore più anziano. ­ E quando si è vista una medusa nel lago? E poi anche le reti sono più leggere che mai.
Per qualche istante regnò il silenzio, senza sapere che fare. La paura si era impadronita di loro tanto che non osavano avvicinarsi o toccare quegli oggetti che emettevano una luce fioca. Fin quando uno dei ragazzi, proprio quello che non parlava mai e per tutto il tempo stava in disparte, osò avvicinarsi. Prese uno dei gomitoli, lo rotolò per qualche istante nelle sue mani, poi lo mise accuratamente in riva al lago come se fosse di vetro e avesse potuto rompersi.
­ Sono anime ­ disse lui. ­ Le ha gettate nel lago la tempesta di ieri sera.
­ E a che cosa servono? ­ chiese l'anziano pescatore.
Il ragazzo alzò le spalle e non parlò.
­ Si mangiano? ­ chiese l'anziano pescatore.
­ No ­ rispose il ragazzo.
­ Si vendono?
­ No.
­ Si possono cambiare con un'altra cosa?
­ No.
­ Allora sgomberate le reti ­ disse l'anziano pescatore e per primo cominciò a lavorare.
Dopo di lui si affrettarono anche gli altri.

(Ridvan Dibra è docente di letteratura albanese all'Università di Scutari, Albania. È autore di cinque romanzi e di sei volumi di racconti e novelle. Due suoi libri hanno ricevuto dei premi nazionali.
È stato tradotto nelle lingue serba e macedone. Rimane un sogno la traduzione in italiano...)


Tre variazioni sul campo (di calcio)

(di Michele Ruele)

Hanc terram nolo(Non voglio questa terra)
Attila
La linea chiara è nel caosBobi Bazlen
1.
Passavo, correndo, nel verde. Tra confuse costellazioni di gigli rossi e papaveri non ancora gualciti, avanzavo con piedi invisibili, poi, oltre il crinale di una collina ingiallita, nell'ombra al margine della visuale esploravo la mia parte inferiore e fino alle ginocchia ­ lo intravedevo ­ non c'era nulla, ero trasparente. Però correvo sempre; da lontano nessuno avrebbe potuto scorgermi più, perché scendevo in una fossa scura, e quando riemergevo ormai di me restavano solo il busto, le braccia, la testa febbrili nel loro agitarsi. Il cielo era limpido, ma nelle vallette verdi galleggiava una superficie di nebbia mobile, punteggiata di cespugli rosa d'erica. Correvo, ma poi tutto si fermò, intorno, d'improvviso. Qualcosa mi chiamava. Non avevo più nemmeno le mani. Mi chiamava. Ero tutto scomparso. Chi era; che cosa voleva. Ritornavo intero per un momento, immediatamente mi moltiplicavo e mi dissolvevo nello sfarfallio di una rete di punti di vista capricciosi. E alla fine, di nuovo, non c'ero più.
Ancora il richiamo.
Non è rimasto più nessuno.
2.
"Mòllala, diopovero, mòllala."
Chi non ha mai assistito a una partita del campionato nazionale dilettanti non può immaginare di cosa si tratti esattamente. È il trionfo del caos. Sul campo, gruppi e assembramenti mutano in perpetuo disposizione e movimento. Gli uomini esprimono l'attaccamento a obiettivi immediati, con delle corse irregolari, spezzettate. Tra forma e caos prevale sempre il caos, un caos veloce e frenetico. Gli spettatori tacciono per un po' e poi d'improvviso agitano le mani nelle tasche delle giacche di montone rivoltato, gridando. Un terzino corre sulla fascia laterale e anche lui trova il fiato per urlare: "Mòllala, diopovero, mòllala", perché il ragazzo più giovane tiene troppo la palla tra i piedi nelle scarpette nere, con un gioco eccessivamente individualistico, in apparenza.
Il ragazzo è Oskar Dudovich, dicono di lui che è un centrocampista elegante e dotato di una naturale superiorità.
Gli uomini sul campo sono agitati. Fra i giocatori, ognuno ha nella mente una forma, la propria idea di forma; ma non coincide con quella degli altri. E si incrociano intenzioni e grida.
Ma talvolta interviene un cambiamento nello schema usuale del caos. Si raggiunge allora un punto di equilibrio fra caos e forma. Una partita consiste nel procedere incessante del gioco dentro il ritmo scandito da tali equilibri. Un'ora e mezza avvolta come una serie di spirali intorno a dei punti inafferrabili. La rapida immobilità raggiunta dalla forma che ha appena superato il caos, che è già quasi caos, è quanto di più vicino si possa immaginarne se si tenta di avere un'idea del nulla.
Oskar Dudovich controlla la palla con il sinistro, usandolo come una paletta. Tiene la testa sempre alta. Aspetta la parvenza di una forma. Aspetta che il caos intorno a lui per un attimo ne assuma una. Ed ecco, allora approfitta dello stupore di tutti gli altri e, con una specie di inchino sulle ginocchia, appoggia il pallone su una linea diagonale, su cui scivola fino all'incrocio con la retta legata agli angoli alti, a destra, dell'area del portiere e di quella di rigore, dove il terzino anziano che grida è arrivato correndo lungo anni di allenamento tre volte la settimana nel gelo della sera: lì il suo destro ha ancora forza da vendere. Ce l'ha sempre. Non segna mai. Il terzino anziano ha autorità, prende le decisioni importanti durante la gara ed è l'ultimo che può fermare un attaccante avversario che si avventa da solo verso la nostra porta. Il tiro sta per essere sferrato e la palla tremola fra l'immobile attesa e l'impulso vertiginoso. Che pappina, mormora come un veggente il tifoso più aggressivo, accanto a me.
Oskar Dudovich: regole. Il terzino anziano: una corsa dura di campetti senza erba, con i muretti di cinta assassini a un metro dalla linea laterale. Oskar Dudovich ormai ha compiuto quel che doveva. Mostra, ora, la superiorità di chi ha esaurito le sue funzioni; ora la cosa è di altri, lui si ferma e attende. Il terzino anziano incrocia la linea della palla, al momento giusto, ma forse con un impercettibile anticipo che lo rattrappisce al momento del colpo decisivo. Urta la sfera con la scarpetta nera. Eccola, la pappina; arriva, cieca, affidata al caso, è ormai solo puro destino. E non c'è più ritorno. Palo.
Volevo andarmene ma rimanevo lì. I giocatori correvano i loro passi sbocconcellati ­ non Oskar Dudovich, lui no ­ dietro le losanghe lucide della rete di recinzione.
"Ha un diamante nella testa, quello lì" dico al tifoso che grida.
"Oro" precisa lui.
Acconsento: "Oro, oro".
3.
Ovunque è coperto di neve alta.
Scavalco la recinzione che racchiude la cima e affondo fino al ginocchio salendo ancora fino al culmine del monte.
Rieccomi qui, come altre volte, questo è il punto da cui mi piace guardare.
Sotto c'è la zona industriale. Capannoni lunghi affannosi che evaporano in larghe colonne tremolanti; le nuvole ora sono alte e il fumo si disperde subito.
Proprio ai piedi del monte, c'è uno spiazzo più largo, libero. Dapprima immagino il vigneto superstite in mezzo alle costruzioni, poi misuro meglio con l'occhio le distanze, realizzo l'assenza dei filari bruni e sorridendo ­ con i fiocchi che mi pizzicano le labbra ­ riconosco che è la spianata del campo di calcio che si vede da quassù. Me n'ero dimenticato.
È vuoto. Non c'è nessuna persona e nulla si muove. Sembra tutto uguale, indistinto nel bianco uniforme.
Non è tutto identico. C'è un'energia invisibile nel vuoto, che consiste forse in mutamenti inosservabili. Le aste del calcio d'angolo bucano la coltre profonda sporgendo qualche decina di centimetri, le bandierine sono incollate al cilindretto di plastica e sono gialle e verdi ­ ma non si vede. La rete di recinzione forma mezzo rettangolo dal perimetro sottile, bruno. Cambiare modo di guardare, anche contro il candore che comincia a bruciare le palpebre, e superando il disturbo monotono di questo precipitare di frammenti invisibili. La trama floscia delle reti delle porte. Fisso il campo vuoto, dove Oskar allungherebbe uno degli archi dei suoi tiri imprevedibili, e gli uomini delle due squadre si riunirebbero in groppi variabili e disordinati, intrecciando grida e punti di visuale, speranze e progetti che durano pochi secondi ma formano la storia di novantaminuti di rincorse, scivolate, previsioni, tiri, forse qualche gol, raramente.
Nell'assenza apparente di qualsiasi cosa non rimane nulla, ed il nulla non si può che riempirlo di qualcosa. Credo che sia uno dei segreti dell'esistenza.

(Michele Ruele è tra i vincitori del premio il Ceppo­ Pistoia)


Solo per adulti

(di Corrado Giamboni)

Le nostre colleghe non hanno problemi di erezione, essendo donne. Il pornostar invece ha continuamente quel problema. Perché fare del cinema è dura. Non sono film qualsiasi: quattro, cinque, sei ore al giorno di girato, provate voi a fare del cinema così. Un mestieraccio.
Ci avete mai pensato? Una vita per il cinema.
Certo, ci sono anche delle soddisfazioni, professionali e umane. Si gira, si vede gente diversa, si conosce. Si conosce a fondo, mi si scusi il gioco di parole.
A volte poi si parla, che so, nelle pause, dei fatti più diversi. A me interessano molto le moto, meno la politica o le altre cose. È che non ho molto tempo, sinceramente.
Io con i miei colleghi mi diverto a misurarlo, il pene. Dopotutto è la nostra carta d'identità, il nostro per così dire attrezzo del mestiere, mi si passi il termine, come per altri la vanga o il compasso o la penna o che so, lo stetoscopio o il trapano.
A me è il pene a darmi il pane. Guardate i miei film.



Cinema...grafo

(di Paola Turroni)
Riflessione su "Garage Olimpo" di Marco Bechis
Col cinema si può arrivare a dire tutto? dire non è solo parole per dirlo. dire è anche far vedere, ascoltare è anche non chiudere gli occhi. Dire è anche far vedere che non si può vedere ­ se dici che non si può vedere tutto, che non si può dire tutto, hai già detto.
Ma c'è una scelta, per Bechis, che sta lì, in piedi, in piedi come un film sa stare, nella sala buia, in silenzio. La scelta del cinema. Marco Bechis aveva una cosa da dire ­ anzi ha una cosa da dire, perché queste cose si hanno da dire per sempre ­ e ha scelto il cinema. Il cinema è mettere in moto, mettere in luce, uno sguardo. E cosa più di uno sguardo aveva bisogno dopo esserne stato privato così a lungo?
Quella benda sugli occhi che costringe all'amplificazione dell'ascolto ­ i passi, la musica della radio, la corrente elettrica, la pallina da ping pong, l'odore del sangue, del pollo, della muffa sui muri ­ campeggia nella locandina, e chiama lo spettatore a toglierla. perché non è solo la benda personale ­ la sofferenza che sta inevitabilmente senza voce, quella che forse Marco Bechis non potrà davvero mai dire ­ c'è la benda di un popolo, di un pianeta. Meglio, c'è la serranda di un popolo, di un pianeta.
Una delle immagini più violente del film, che si ripete più volte come falso pretesto di raccordo di montaggio, non è la tortura, non è l'arresto, ma è la serranda chiusa, il marciapiede semideserto, la gente che passa, il sole. Un'inquadratura che dice tutto. Laddove la rappresentazione della tortura rimane comunque una rappresentazione, e la sua violenza rimane nella dimensione di "inguardabilità", la serranda chiusa e il buco nel marciapiede sono lo schifo di silenzio e "invisibilità" reali di una tragedia. La cosiddetta normalità-coperchio, che si camuffa nei gesti quotidiani dei carnefici, quelli consapevoli e quelli inconsapevoli, tutti i passi che si fanno per la strada, e i vestiti che si indossano prima di uscire. Fino al finale cui si arriva con tutto il visto e l'ascoltato. Fino alla fatica finale di arrivare a dirlo, a farlo vedere. Fino al mare che inonda lo schermo e mette tutto a tacere, prima di spegnere la luce.



Recensioni


Irridere il senso comune e le ossessioni della civiltà dei consumi: Taglio intimo
Incastonate tra la prefazione di Paola Turroni ­ che ne traccia le possibili tematiche esistenziali ­ e la postfazione di Bruno Bandini ­ che tenta definizioni stilistiche ­ si dipanano le sezioni poetiche ­ di Taglio intimo, la raccolta d'esordio dei versi di Alessandra Carnaroli, giovane pittrice e fotografa studentessa ad Urbino. L'ironia ed il sarcasmo di cui la Carnaroli pare autocompiacersi in questi versi, si deformano spesso in forme turpiloquianti ed in un grottesco macabro che vorrebbe irridere il senso comune e le ossessioni della civiltà dei consumi, delle mode e delle convenzioni, prendendo il corpo a simbolo di una purezza minacciata (...) L'iconografia pubblicitaria ed i linguaggi massmediatici impressionano la sensibilità dell'autrice e la istigano ad un'espressività per certi versi antilirica, che si sofferma sulla descrizione di una carnalità sofferta, di un disagio morboso e psicosomatico (...) un bizzarro diverrtissement che forse è quanto la Carnaroli ­ che dice di sé in terza persona "le piace mescolareunire, creare interferenze, contaminare" ­ più propriamente intende fare dei suoi versi, in qualche modo esorcizzando la stessa ispirazione poetica come le altre minacce all'equilibrio ed alla salubrità psicofisiche.

(G.E.M. in «Corriere Romagna» del 21 marzo del 2002)


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