Scritto da Dino Cofrancesco | |
domenica 21 ottobre 2012 | |
Cautela e problematicità, però, sembrano venir meno allorché Zecchino enuncia, sin dalle prime battute, la sua spiegazione delle richieste di rottamazione. E’ la «sorda e rancorosa diffidenza verso la classe parlamentare» che «ha sempre allignato nel sentire popolare, in modo particolare, nel nostro Paese» ad alimentare «la vocazione all’azzeramento del “vecchio” e la speranza in un illusorio “nuovo”». Di qui il richiamo al romanzo Le ostriche. Romanzo parlamentare di Carlo Del Balzo (scritto agli inizi del '900 e ripubblicato recentemente a cura di Paola Villani e con una Presentazione di Ortensio Zecchino, Ed. Rubbettino 2008), «metafora dell’incrollabile attaccamento dei parlamentari allo scoglio di Montecitorio»; di qui il riferimento a Benedetto Croce che vedeva nell’ostilità diffusa verso la politica il rifiuto di tutto ciò che è lotta e contesa «e l’antica necessità della politica di “coprir con sofismi la contraddizione”, spesso inevitabile, tra l’accondiscendenza alle pulsioni popolari e l’agire concreto».
Sennonché, la diffidenza verso la politica non è un’idea chiara e inequivocabile – come, forse, pare a Zecchino – almeno nelle sue motivazioni non contingenti. Il rifiuto della lotta, ad esempio, può essere giustificato allorché il conflitto sociale e ideologico assume proporzioni tali da mettere in crisi la ‘comunità politica’: il confronto è bello quando è ‘regolato’ e i contendenti si attengono a norme condivise e al riparo da ogni possibile contestazione. Nel nostro paese, invece, a competere per il potere spesso non sono avversari politici ma nemici giurati, gli uni contro gli altri armati, che puntano sulla delegittimazione etica e culturale (in senso lato) dell’antagonista. Una contesa senza fair play in cui, talora non solo metaforicamente, nei due campi vige il principio che “non si fanno prigionieri”, può piacere ai filosofi del neo-idealismo italiano, ai grandi realisti della filosofia e della scienza politica – che credono di sapere bene come la storia finisca, prima o poi, per trovare degli ‘accomodamenti’ e per sgonfiare gli slogan pieni di vento e di minacce – ma non rassicura l’uomo della strada, costretto a vivere in un clima di perenne tensione e spesso vittima di scelte elettorali casuali e di mera convenienza. L’Italia non è l’Inghilterra o l’America dove può dispiacere la vittoria per il candidato alla guida del governo espresso da un partito diverso dal proprio, ma si è sicuri che tale vittoria non minaccia nessun diritto, nessuna libertà, nessuna tradizione civile: da noi, dal prevalere degli uni o degli altri ci si aspettano cambiamenti che nutrono speranze o timori eccessivi.
Il ‘polemismo’ è l’altro possibile aspetto da non sottovalutare, può essere oggetto di rifiuto anche per la sua assoluta inconcludenza: tanto squillar di trombe, tante minacce di palingenesi, tante promesse di giustizia e di vendetta («anche i ricchi debbono piangere») si risolvono spesso in “spettacoli della politica” che si ripetono stancamente e di cui “non se ne può più”. Nel primo caso, si teme la tragedia attivata da incompatibili ‘visioni del mondo’, nel secondo, si resta, disgustati dalla “farsa tragica”: in entrambi i casi, è giocoforza riconoscere qualche giustificazione al rancore verso i professionisti della politica.
Non ha torto Zecchino quando scrive: «La “nuova” forma assunta dalla politica ha infatti spazzato via criteri e modalità di selezione del personale politico e parlamentare, con la conseguenza insieme di un crollo della qualità e del diffondersi del fondato convincimento che l’accesso al Parlamento dipenda esclusivamente dal lasciapassare concesso da un capopartito ed ottenuto per le ragioni le più varie (che possono non avere, e non di rado non hanno, nulla a che vedere con la politica). Nel grigiore di un indifferentismo ideologico, dissennatamente magnificato e praticato senza remore, la politica è così sempre più percepita solo come occasione di privilegi e malaffare». Anche qui però ci sarebbe qualche commento da fare: la fine dei partiti ideologici – causata da eventi epocali esterni, come la caduta del muro di Berlino – ha determinato una perdita di ‘eticità’ che, innegabilmente, è iscritta in ogni ‘religione politica’ che si rispetti. Il comunista duro e puro delle vecchie sezioni di partito degli anni cinquanta e sessanta non si sarebbe mai appropriato di denaro pubblico: un mio vecchio conoscente fiorentino, un onesto artigiano ‘regolarmente iscritto al PCI’, al tempo dell’alluvione, rifiutò il sussidio del Comune, invitando gli assessori ad aumentare quello destinato a concittadini più poveri di lui. In mancanza di un’etica sociale diffusa, sono le famiglie ideologiche a fornire principi morali, regole di condotta, senso del dovere, ripugnanza verso quanti seguono il proprio ‘particulare’ e calpestano disinvoltamente i diritti degli altri. Va detto, però, che una società moderna non può tollerare a lungo filosofie politiche e sensibilità da crociata o, meglio, da ‘guerra fredda’: prima o poi anche nelle cittadelle dell’ortodossia irrompono il pragmatismo, l’insofferenza dei dogmi e, nel caso del popolo comunista, il rifiuto di assimilare, con Bertolt Brecht, il capitalista col gangster. In una società complessa – è il punto decisivo – i partiti non possono essere che partiti ‘leggeri’, aperti, disposti continuamente a mutare tattica e strategia («il movimento è tutto» diceva già il vecchio Eduard Bersntein), sennonché i partiti leggeri hanno bisogno di poggiare i piedi su un terreno storico – starei per dire, su una tradizione – forte, solida: liberarsi dai dogmi politici non può significare scrollarsi di dosso l’etica della responsabilità, spegnere dentro di sé quello che un tempo si definiva ‘sentimento dello Stato’. Come fa rilevare Ernesto Galli della Loggia, sul ‘Foglio’ del 20 ottobre, Confesso che abbiamo fallito, «i valori morali ci sembravano chiacchiere, quello che contava erano i valori politici. Oggi capiamo che sono i primi a tenere insieme una società nei momenti difficili, a indirizzarla sulle scelte di fondo». Il dramma del nostro paese sta nell’incapacità mostrata, fin dai primordi dello stato unitario, dalla società civile e dalla classe dirigente di radicare, negli animi e nei cuori dei cittadini, «valori comuni», super partes: la disposizione a guardare al di là del proprio tornaconto (che è poi la definizione della morale, per i positivisti durkheimiani, sintesi di norma – impersonale– e di sacrifico – personale) nasceva – per celiare con la terminologia dell’icona massima della filosofia politica contemporanea, John Rawls – tutt’al più da un ‘consenso per intersezione’. Invece della civic culture unificante, in poche parole, abbiamo avuto, come supplenti, le morali espresse da chiese, sette, partiti, congreghe intellettuali: quando questi soggetti storici hanno perduto, con la ‘fede’ (laica o religiosa) la propria identità, ci si è ritrovati nel deserto dei tartari. E’ stato come se in una città non dotata di illuminazione pubblica, a un certo punto si siano spente le luci delle abitazioni private sicché ci si è ritrovati immersi in un buio pesto. A occuparsi della res publica non sono rimasti i convertiti ai valori della ‘società aperta’ ma gli ‘spretati’, gente che non crede più a niente e che è stata capace di far impallidire Tangentopoli con le sue rapine. (Giustamente, un giudice ha osservato che almeno ai tempi della Prima Repubblica si rubava soprattutto per il partito, mentre oggi è solo una parte minima che va a finire nelle tasche delle federazioni).
E’ lo smantellamento dei partiti ideologici, in un contesto di terra bruciata dei costumi antichi, la causa del malaffare giustamente denunciato da Zecchino: sennonché la secolarizzazione del conflitto politico sarà stata pure ‘dissennata’ ma non c’erano vie d’uscita e, d’altronde, allo sfascio non si vede quale rimedio porre. Le classi dirigenti dell’agonizzante Seconda Repubblica sono ormai talmente squalificate che non desta meraviglia la diffidenza dell’uomo della strada, ma la sua infinita pazienza. Le grandi rivolte populistiche della storia americana e francese nacquero da molto meno.
Zecchino ritiene illusorio «risolvere il problema acuto della legittimazione della politica, pensando di “rottamare”, di cacciare cioè brutalmente i vinti, nelle lotte interne di partito, (se mai per premiare i sodali del vincitore, secondo le antiche pratiche di spartizione feudale), o fissando automatismi anagrafici» e cita un’espressione spiritosa di Amintore Fanfani: «chi l’è bischero l’è sempre bischero». Sembrano ispirate a buon senso e, in parte, lo sono ma non eliminano dubbi e perplessità.
E’ vero, il problema non è anagrafico: un giovane può essere bischero e un vecchio dar prova di lucidità e di saggezza superiori a quelle del giovane (le riflessioni filosofiche sulla ‘senectus’ di Cicerone e di Seneca, però, hanno condizionato un po’ troppo Zecchino): resta il fatto che il ricambio generazionale, oltreché essere iscritto nelle leggi di madre natura, è un portato di un’etica tanto profonda quanto realistica e disincantata. Nel grande teatro moderno europeo, da Shakespeare a Goldoni, sono i giovani a impalmare le ‘putte onorate’ e i vecchi si ritirano in buon ordine, anche se non sempre con la malinconica rassegnazione del regista Emile (Maurice Chevalier) nel capolavoro di René Clair, Il silenzio è d’oro (1946). Come insegna il testo biblico Qohelet (Ecclesiaste): «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,/ un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante/.Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,/un tempo per demolire e un tempo per costruire./Un tempo per piangere e un tempo per ridere,un tempo per gemere e un tempo per ballare./Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,/un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci./Un tempo per cercare e un tempo per perdere,/un tempo per serbare e un tempo per buttar via./Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,/un tempo per tacere e un tempo per parlare./Un tempo per amare e un tempo per odiare /,un tempo per la guerra e un tempo per la pace» (Qohelet 3,2-8). Oltreché un fatto estetico, non vedere più le stesse facce (spesso passate da uno schieramento all’altro) in circolazione da mezzo secolo, è un fatto di stile, di misura, di buon gusto. I presidenti americani, i premier inglesi, quelli francesi, finita la loro (breve) stagione, escono di scena in maniera discreta – tutt’al più accettando incarichi onorifici in associazioni umanitarie: i nostri politici, “per spirito di servizio”, beninteso, stanno lì, irremovibili, come Pippo Baudo in TV oggetto di commenti e di discorsi a tavola da cinquant’anni. I grandi costruttori o ricostruttori dell’Italia – Camillo Benso di Cavour, Alcide De Gasperi – hanno recitato la loro parte solo pochi anni: Silvio Berlusconi tra poco celebrerà i venti anni della ‘discesa in campo’ e, se ricevesse qualche incoraggiamento dai sondaggi, si appresterebbe a rimanere sul palcoscenico per altri vent’anni. Se si considera tutto questo, dimostra solo disposizioni antipolitiche l’uomo della strada che non ne può più della casta e che, al limite, è disposto a rischiare il malgoverno di politici giovani pur di non vedere sul teleschermo le stesse immarcescibili ‘facce di bronzo’?
«Nelle società del nostro tempo – articolate o, peggio, atomizzate – rette da sistemi democratici fondati sul diritto elettorale universale, avverte Zecchino, solo politici professionalmente attrezzati possono essere in grado di assicurare il governo politico della complessità. E’ difficile sfuggire all’idea (non molto amata) della politica come professione». L’argomento del ‘sistema complesso’, però, convince poco. Nei più avanzati istituti di ricerca –i laboratori spaziali degli Stati Uniti – è proprio l’esperienza della ‘complessità’ a far riguardare i fisici nucleari che abbiano superato i quarant’anni non più in grado di far parte di una squadra di ricercatori. Si dirà – e giustamente – che in politica la complessità è di altro genere contrariamente a quel che pensano gli intellettuali, convertiti al platonismo, che ironizzano sulla democrazia e sulle masse ‘incompetenti’: non rinvia a una scienza e a una tecnica ma a un’arte. D’accordo, ma perché supporre che, assai più dei giovani, siano esperti di quest’arte quanti da un maggior numero di anni si occupano della cosa pubblica? Nella storia, vincono i politici che hanno intuiti e premonizioni formidabili e sono in grado di cogliere la fragilità di istituti che sembravano solidi e quei politici sono molto spesso dei giovani. A 39 anni, Benito Mussolini mise nel sacco (purtroppo!) una classe dirigente di vecchie volpi come Antonio Salandra, Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando: per i Luigi Facta e gli Ivanoe Bonomi, il sistema era ‘complesso’ e poteva essere governato solo da politici prudenti e scaltriti, per l’agitatore di Predappio, era un edificio in stato di abbandono. Con questo non vorrei che l’amico Zecchino pensasse che voglio estromettere le persone anziane dalla vita politica, tutt’altro. A mio avviso, è giusto il principio della ‘rottamazione’ – al di là delle forme demagogiche che esso può assumere e delle simpatie che può suscitare Matteo Renzi – giacché è ai giovani che va affidata la nave dello Stato, ma questo non esclude la funzione utile che potrebbero avere gli anziani, non in virtù di cariche pubbliche o di seggi parlamentari ricoperti, bensì in virtù della loro saggezza, del rispetto acquisito nei lunghi anni di dimestichezza col potere. Escano dal palazzo, una buona volta, ma rimangano nei loro studi, nelle loro fondazioni culturali, nei loro club storici a consigliare, a mettere in guardia, a dare pareri richiesti senza secondi fini. Nella mitologia classica, accanto agli dei e agli eroi, un posto non secondario ricoprono personaggi come Mentore, il vecchio saggio al quale Odisseo affida la custodia e l’educazione di Telemaco o Nestore, il re sapiente, che non ha il potere di Agamennone ma viene ascoltato nei momenti più difficili della guerra contro Troia.
In una società che non si discosti troppo dalle misure assegnate all’uomo da madre natura, l’anziano consiglia, avverte, ammonisce, il giovane comanda, decide, agisce. Appartengo a una ‘corporazione’ – quella dei professori universitari – che molto si dolse quando, con inammissibile atto retroattivo, una legge fissò a settant’anni l’età del pensionamento. Negli anni passati, si andava in pensione a 72 anni e ancor prima si poteva arrivare a 75. Quante proteste da parte dei miei colleghi e quante lamentele del tipo: «in questa maniera, si priva l’Università dei suoi migliori elementi!», «la decadenza dell’istituzione sarà ormai inarrestabile!». Un po’ di autocritica avrebbe dovuto far considerare che qualora il pensionamento dei vecchi ‘Maestri’ mettesse, davvero, in crisi il mondo accademico, la colpa ricadrebbe proprio su quei vecchi ‘Maestri’, incapaci di costituire una ‘scuola’ degna di questo nome e perciò in grado di non far rimpiangere le loro lezioni. Nei casi in cui sono stati all’altezza del loro compito, invece – penso a Norberto Bobbio – i vecchi luminari in pensione hanno continuato sui giornali, nei convegni, negli insegnamenti a contratto, a impartire il loro sapere, senza il peso delle incombenze burocratiche (che, in questi ultimi anni, stanno diventando un incubo kafkiano).
Un discorso analogo dovrebbe valere per i politici (come per i magistrati e per tutte le altre, alte, cariche dello Stato): oltre una certa età, ripeto, si ritirino in buon ordine, se ne vadano in pensione – mostrando, tra l’altro, con il loro esempio, che non sono soltanto i ‘piccoli’ che, a un certo punto della loro esistenza, vengono costretti a gettare la spugna – ma rimangano a disposizione delle nuove generazioni che chiedono alla loro esperienza e alla loro saggezza consigli utili. Si ha il sospetto, invece, che, tra quanti vivono di politica, vi siano persone sufficientemente lucide da non ignorare – per celiare, questa volta, con la terminologia di Max Weber, citato da Zecchino – che il loro è un ‘carisma d’ufficio’, legato, soprattutto, alle poltrone: se perdono il potere, perdono anche il prestigio. Per i Norberto Bobbio, per i Luigi Firpo è il prestigio che dà potere – ovvero influenza, ruoli di opinion maker sui principali quotidiani; per i Massimo D’Alema, per i Pierferdinando Casini è il potere che dà prestigio –ovvero considerazione sociale e autorevolezza: una volta fuori di Montecitorio e di Palazzo Madama, nessuno li andrà più a cercare – o, per adoperare il gergo dei giovani, «nessuno se li filerà più>». E, d’altra parte, chi può essere interessato, una volta pensionata e rottamata, a sentire il parere di Rosy Bindi sull’Europa, sulla politica fiscale, sui rapporti di lavoro?
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domenica 21 ottobre 2012
Perché difendo la "rottamazione"
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